Piero Brandimarte
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Piero Brandimarte (Roma, 15 novembre 1893 – Torino, 18 novembre 1971) è stato un militare e squadrista italiano.
Biografia[modifica | modifica wikitesto]
Il primo dopoguerra[modifica | modifica wikitesto]
Durante la prima guerra mondiale Piero Brandimarte prestò servizio nell'esercito, prima come tenente e poi come capitano degli Arditi, ottenendo una medaglia d'argento al valor militare[1]: salvò con una sortita il suo capitano Pietro Valazzi, che cadde ferito mortalmente dietro le linee nemiche. Era la vigilia di Natale del 1915. Fu inoltre insignito di due Croci al merito di guerra (ordine del giorno del 26 novembre 1918), del Distintivo d'Onore per ferita riportata in combattimento (nel 1915, sull'altipiano di Asiago), fu Cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro, Cavaliere di Malta, Cavaliere di Vittorio Veneto e Croce di guerra; fu tra i primi Arditi a entrare a Monfalcone liberata. Dal 1º dicembre 1920 al 14 marzo 1922 fu in servizio presso il 4º reggimento Bersaglieri per le gare ginnico sportive militari, sia in qualità di campione di lotta greco-romana, sia di allenatore, venendo inoltre premiato come "lottatore emerito" nella squadra ginnica del Comando supremo dell'esercito. Vinse la traversata del golfo di Gaeta a nuoto, distaccando il secondo di ben 30 minuti. Nel 1921, presso la località balneare ligure di Varigotti, trasse in salvo un uomo che stava annegando in mare, al largo della riva, nonostante la mareggiata in corso che aveva indotto i bagnini a rinunciare al salvataggio: Brandimarte si tuffò senza esitare e per questo salvataggio in mare gli fu conferita anche una medaglia al valore di Marina.
Terminata la guerra, alla fine del 1918, Brandimarte venne congedato e trovò lavoro in una merceria di Torino. Nel settembre dell'anno successivo (1919), creò la prima squadra d'azione piemontese, denominata La Disperata, della quale divenne comandante[1].
Negli anni del biennio rosso portò avanti quindi la militanza nei Fasci Italiani di Combattimento, che s'impegnavano nella repressione delle manifestazioni dei socialisti e dei gruppi anarchici torinesi. Successivamente, a partire dal 1921, i gruppi di azione fascisti iniziarono a condurre attivamente spedizioni punitive nei confronti di tali gruppi: le più grandi, a cui partecipò Brandimarte, furono quelle a Casale Monferrato, in provincia di Alessandria e Chieri (Torino).
Nel 1922, dopo aver subito due arresti[2], assunse il comando di tutte le squadre d'azione del capoluogo piemontese, dirigendo le spedizioni per la grande adunata di Napoli dal 24 al 26 ottobre e per la Marcia su Roma del 28.[1]
La strage di Torino[modifica | modifica wikitesto]
Tra il 18 e il 20 dicembre 1922 guidò le squadre torinesi nella rappresaglia che sfociò nella cosiddetta strage di Torino. Il 17 dicembre tre fascisti, Carlo Camerano, Giuseppe Dresda e Lucio Bazzani, aggredirono e ferirono a mani nude il tranviere comunista Francesco Prato, che girava armato e che si difese sparando, uccidendo due aggressori. Questo episodio venne usato per giustificare una rappresaglia. Era stato deciso di decapitare la classe operaia torinese e ne erano stati schedati i dirigenti, per cui i fascisti aspettavano solo un'occasione per eliminarli. L'ordine a Brandimarte fu dato da Cesare Maria De Vecchi, monarchico fascista ben introdotto nella ricca borghesia industriale torinese, che aveva richiesto quest'azione, poiché le proteste comuniste, con continui scioperi e occupazioni, cominciavano a diventare troppo dannose e invasive per le fabbriche torinesi, in pieno sviluppo produttivo. Dopo una riunione in prefettura, a cui presero parte gli industriali della città, il prefetto promise di astenersi dal fare intervenire la forza pubblica, cosicché la strage poté cominciare. In realtà le squadracce fasciste, dopo aver avuto carta bianca, si mossero in quei giorni al di fuori di qualsiasi controllo, accecate dalla rabbia e dalla sete di vendetta, come schegge impazzite, in un clima di totale vuoto di potere e sull'orlo di una guerra civile. Brandimarte fu il solo a muoversi per le strade di Torino nel tentativo di mettere sotto controllo la situazione, soprattutto fu l'unico ad assumersi le sue responsabilità, mentre tutte le autorità cittadine e nazionali si eclissavano[senza fonte].
I primi omicidi iniziarono il 18 dicembre, verso mezzogiorno, all'ufficio "Controllo prodotti" delle Ferrovie dello Stato e in una trattoria di Via Nizza.
Calate le tenebre, i fascisti si riversarono nell'abitazione di un fattorino delle tramvie, simpatizzante comunista, e lo uccisero davanti alla moglie e alla figlia, mentre in nottata fu la volta di un manovale comunista, torturato e poi abbandonato in strada, e del segretario della sezione torinese del Sindacato Metalmeccanici Pietro Ferrero che, dopo essere stato violentemente malmenato, venne trascinato legato ai piedi a un camion, per circa 500 metri di percorso. Prima dell'alba del giorno 19, altri due oppositori furono prelevati dalla propria abitazione e uccisi in strada. Nel corso del giorno 19 ci furono altre tre vittime e due il giorno 20 dicembre[3][4].
Intervistato immediatamente dopo i fatti, Brandimarte, dichiarò:
[Giornalista]: Azioni isolate e non autorizzate?
[Brandimarte]: No, No. La verità è questa. In seguito al vigliacco attentato contro i nostri, abbiamo voluto dare un esempio, perché i comunisti comprendano che non impunemente si attenta alla vita dei fascisti e alla compagine del Fascio. Questa rappresaglia la ritengo giusta. Noi abbiamo colpito senza pietà chi ci aveva provocati, e abbiamo colpito i sovversivi nel loro covo di via Nizza. I comunisti sono avvisati. Abbiamo l'elenco di tutti loro, e se si verificheranno altri incidenti gravi come questo, noi li scoveremo e daremo altri esempi.[5]
«Rileggendo la strage di Torino sul lungo periodo, pare dunque che sia stata possibile per una serie di fattori, uno solo dei quali può essere ricondotto all'indisciplina degli uomini di Brandimarte, mentre gli altri vanno ricercati altrove, nell'alto livello di connivenza della polizia, della magistratura e nella debolezza della stessa leadership fascista, che prima lasciava fare e poi in apparenza condannava. In quella fase di transizione, seguita alla marcia su Roma, è difficile ottenere obbedienza e mettere un freno alla violenza degli squadristi» |
(La nascita del fascismo a Torino, dalla fine della Grande Guerra alla strage del 18 dicembre 1922, ed. del Capricorno) |
Complessivamente gli scontri portarono alla morte di 14 uomini e al ferimento di 26[6] e inoltre vennero date alle fiamme: la Camera del Lavoro, il circolo anarchico dei ferrovieri, il Circolo Carlo Marx e devastata la sede dell'Ordine Nuovo.
«I nostri morti non si piangono, si vendicano. (...) Noi possediamo l'elenco di oltre 3.000 nomi di sovversivi. Tra questi ne abbiamo scelti 24 e i loro nomi li abbiamo affidati alle nostre migliori squadre, perché facessero giustizia. E giustizia è stata fatta. (...) (I cadaveri mancanti) saranno restituiti dal Po, seppure li restituirà, oppure si troveranno nei fossi, nei burroni o nelle macchie delle colline circostanti Torino» |
(Piero Brandimarte[1]) |
Il ventennio[modifica | modifica wikitesto]
Diviene console della 101ª legione Sabauda della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN) e, successivamente, della 142ª legione Caio Mario. Durante questo comando venne sollevato dall'incarico[7] da Benito Mussolini, a causa di un processo intentatogli per diffamazione contro lo scrittore Pitigrilli di cui aveva denunciato presunte ingiurie al Duce stesso, inventate in realtà con l'amante Amalia Guglielminetti (ex amante di Pitigrilli stesso, che venne anche schiaffeggiato in pubblico da Brandimarte). Per questa vicenda venne condannato a 10 mesi e 17 giorni di reclusione per concorso in falso e abuso d'ufficio[8]. Venne però successivamente sollevato dalle accuse e la sua condanna annullata dalla Cassazione prima e dalla Corte d'Appello poi, anche grazie alle manifestazioni di solidarietà organizzate dal generale Francesco Tiby, che rileverà l'infermità mentale della Guglielminetti.[9]
Tra il febbraio e l'aprile 1929 portò avanti una forte repressione contro i cristiani evangelici, soprattutto nella zona di Gaeta e, in particolare, contro il pastore Camillo d'Alessandro della chiesa battista di Formia.[10] Nel 1930, tornato nell'organico della Milizia, gli venne conferito il comando della 82ª legione CC.NN. d'assalto "Benito Mussolini" di Forlì e il 17 settembre 1934 fu promosso console generale.
Nel 1943, dopo la caduta del governo di Mussolini, fatto bersaglio in una manifestazione antifascista a Torino, si allontanò dalla città. Venne arrestato a Ventimiglia il 28 agosto 1943 su mandato di cattura per un reato di tipo annonario (accaparramento di generi tesserati e contingentati). Il 12 settembre era già rilasciato. Venne nominato prefetto a disposizione nella Repubblica di Salò [3].
Nel 1944, Prefetto di Ventimiglia, salvò ben 80 Carabinieri che erano già nei carri bestiame piombati e destinati ad andare in Germania, per suo intervento presso il comando tedesco, adducendo che quegli uomini gli servivano per mantenere l'ordine pubblico, riuscì a farli liberare e rimanere a Mentone.[senza fonte]
Il processo e il dopoguerra[modifica | modifica wikitesto]
Venne catturato il 29 maggio 1945 a Brescia [1] dopo essere stato riconosciuto da un comandante partigiano[3]. Fu accusato di omicidi perpetrati nel 1922 e incarcerato durante la fase istruttoria[3]. Fu rinviato a giudizio per dieci omicidi commessi durante la strage. In seguito a una campagna di stampa che lo attaccò, il processo venne trasferito a Firenze dalla Suprema Corte di Cassazione su istanza della difesa. Il trasferimento del processo suscitò reazioni di stampa e manifestazioni a Torino[3].
Il processo ebbe luogo cinque anni più tardi. Il 5 agosto 1950 venne condannato a 26 anni e 3 mesi di reclusione (due terzi della pena condonati) riconosciuto colpevole per tutti i concorsi in omicidio e mancato omicidio per il quali era stato rinviato a giudizio[3]. In secondo grado, il 30 aprile 1952 la Corte d'Assise d'appello di Bologna lo assolse per insufficienza di prove.[1]
Nel dopoguerra tornò a Torino, lavorando come rappresentante di commercio. Il 1º aprile 1959 venne riconosciuto in strada dal figlio di un antifascista da lui malmenato in passato, che gli rinfacciò le sue responsabilità durante il ventennio: Brandimarte, ormai quasi settantenne, lo malmenò e lo trascinò in un commissariato, dove protestò chiedendo il rispetto dovuto a un generale in pensione.[3]
Il 13 dicembre del 1964 subì un attentato: una bomba, sistemata presso il cancello della villa ove risiedeva e fatta esplodere di notte, divelse la cancellata e mandò in frantumi i vetri delle abitazioni circostanti[3]. Morì nel novembre del 1971: il 19 novembre, durante il funerale, un reparto di 27 bersaglieri del 22º reggimento fanteria della divisione Cremona, al comando di un ufficiale, rese gli onori militari alla sua salma.[1]
Note[modifica | modifica wikitesto]
- ^ a b c d e f g Mimmo Franzinelli, Squadristi, Oscar Mondadori, Cles (Tn), 2009.
- ^ Uno per "misure di pubblica sicurezza", l'altro per "violenza privata", quest'ultimo assolto grazie a un'amnistia
- ^ a b c d e f g h Giancarlo Carcano, Strage a Torino, La Pietra, Milano, 1973.
- ^ Consiglio regionale per l'affermazione dei valori della resistenza e Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (a cura di), La strage di Torino, Scaravaglio, Torino, 1982.
- ^ Interviste (pagina 4), in La Stampa, 21 Dicembre 1922.
- ^ Renzo De Felice, I fatti di Torino del dicembre 1922, Studi Storici, IV, 1963.
- ^ Dal grado e dallo stipendio di ufficiale della Milizia
- ^ Sentenza del 4 maggio 1929 del Tribunale di Torino
- ^ Enzo Nizza, Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza, La Pietra, 1968
- ^ Giorgio Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche, Claudiana, 1990.
Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]
- Carcano, Giancarlo. Strage a Torino: Una storia italiana dal 1922 al 1971. La pietra, 1973.
- Mimmo Franzinelli, Squadristi, Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922. Oscar Mondadori, Cles (Tn), 2009.
- Renzo De Felice, I fatti di Torino del dicembre 1922, Studi Storici, IV, 1963.
- Manlio Cancogni, Gli squadristi, Longanesi, 1980.