Giudice (storia della Sardegna)

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Giudice, nel significato di sovrano è la definizione utilizzata in lingua italiana per tradurre dalla lingua sarda la parola judike[1]. Nei documenti ufficiali delle cancellerie dei quattro regni sardi tale parola veniva utilizzata per indicare la persona del re. Sempre con lo stesso significato tale parola veniva espressa anche in altre forme quali: iudike, judiche o iudice[2] o ancora nella forma femminile juyghissa (vedi la Carta de Logu promulgata da Eleonora d'Arborea), ma anche rege (dal latino ''rex, regis'', "re").

I Giudicati sardi

Origine del nome[modifica | modifica wikitesto]

Per il loro significato, il termine judike e le sue varianti sono di derivazione bizantina (vedi arconte), mentre quanto all'etimologia derivano dal latino: iudex, iudicis, "magistrato, giudice".

Peculiarità delle funzioni del giudice[modifica | modifica wikitesto]

Sebbene in lingua italiana la parola "giudice" (riferita a judike) indichi un generico sovrano, in realtà i sovrani dei regni sardi medioevali si differenziavano nettamente da quelli dei regni continentali coevi.

La principale differenza consisteva nel fatto che il loro patrimonio personale era distinto dal demanio statale. I regni infatti non erano di proprietà del sovrano, ma del popolo che accettava di sottomettersi a lui in cambio di un solenne giuramento nel quale il re si impegnava a rispettarne le prerogative. Al riguardo, lo storico Francesco Cesare Casula scrive:

«Contrariamente agli stati continentali dell'epoca, i giudicati sardi non erano patrimoniali - cioè di proprietà del sovrano - ma super-individuali (o subiettivi) dipendenti dalla volontà del popolo il quale, per mezzo dei suoi procuratores, concedeva al giudice il potere (bannus) e acconsentiva a sottomettersi a lui in cambio del rispetto delle proprie prerogative (consensus). In caso di violazione del vincolo, il re spergiuro poteva essere barbaramente ucciso dallo stesso popolo in rivolta, come in effetti capitò più volte nel corso della storia giudicale

Legittimazione del giudice[modifica | modifica wikitesto]

I due primari principi giuridici che legittimavano le funzioni dei giudici erano quello dinastico e quello della designazione fatta dalla Corona de Logu (il parlamento del regno). Successivamente alla loro elezione, dopo la cerimonia di investitura (su collectu) e dopo il solenne giuramento chiamato bannus consensus in cui si affermava la loro appartenenza al popolo, veniva affidato loro lo Stato; essi diventavano da quel momento titolari di tutti i poteri sovrani, da quelli amministrativi a quelli giudiziari e militari. I giudici qualificavano loro stessi come reges e definivano come regno (rennu) l'ambito territoriale della loro potestà[3]; essi erano sovrani ben inseriti nel contesto internazionale del Medioevo: parteciparono infatti alle crociate, presero parte nella lotta tra impero e papato, furono fautori del monachesimo. Dimoravano in palazzi protetti da un efficiente corpo di guardia chiamato kita de buiakesos e nei sigilli e nelle pergamene usavano scrivere il loro nome seguito da rex. Secondo alcuni storici, in conformità agli usi continentali, per evitare fraintendimenti circa il loro titolo, ogni monarca sardo specificava che era judex sive rex (giudice ovverosia re).[1]

La reggenza[modifica | modifica wikitesto]

In caso di impedimento del giudice legittimo, veniva eletto un judike de factu, ossia un reggente. Solitamente provenivano dalla famiglia del sovrano stesso e svolgevano tutte le azioni di governo dello Stato. Il caso più celebre fu Eleonora d'Arborea, che resse il trono per il figlio primogenito Federico (che morì all'età di dieci anni) e, dopo di lui, in nome del secondogenito Mariano V. Precedettero Eleonora come giudicesse reggenti o "portatrici di titolo" (al consorte o al figlio): Elena di Gallura, Benedetta di Cagliari e Adelasia di Torres.

Elenco dei giudici sardi[modifica | modifica wikitesto]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b Lo storico F.C. Casula, nell'"Aggiornamento e note storico-diplomatiche al Codex Diplomaticus Sardiniae di Pasquale Tola", nel Tomo I, a pag XI dice: «a capo di ciascun giudicato c'era un re (su judike) scelto secondo un rigido sistema misto elettivo-ereditario dalla corona de logu, un parlamento deliberante formato dai rappresentanti dei paesi (o ville, o biddas) del territorio»
  2. ^ Anche lo storico A. Solmi usa i termini iudex e iudike. Ecco la frase tratta dal suo libro Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, pag 36: «I quattro giudicati hanno un sistema di governo fondamentalmente uguale, che svela l'origine da elementi comuni. Al sommo di ciascuno sta, come si è detto, un capo detto giudice (iudex, iudike) e talvolta anche rex il quale tiene l'insieme dei poteri sovrani». Tali termini si trovano spesso anche in corsivo in svariate pagine e non tra parentesi
  3. ^ Lo storico Gian Giacomo Ortu, nel suo libro La Sardegna dei Giudici, Ed. Il Maestrale, a pagina 77 scrive: «I giudici si qualificano reges e definiscono come regno (rennu) l'ambito territoriale della loro potestà. Rivendicano inoltre una legittimazione divina proclamandosi a Deo electi et coronati. Per voluntate de Donnu Deu potestandi Calaris, dichiara Orzocco nella cosiddetta Carta vulgaris calaritana (1066-1074)»

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • G.G. Ortu, La Sardegna dei Giudici Ed. Il Maestrale 2005, ISBN 88-89801-02-6
  • F.C. Casula, La storia di Sardegna, Carlo Delfino Editore, Sassari, 1994, ISBN 88-71380-84-3
  • A. Solmi, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, 2001, Ed Ilisso, Nuoro.
Approfondimenti

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]