Utente:LowrySpadetto20/Pillonetto

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Giocondo Pillonetto (Sernaglia della Battaglia, 8 gennaio 1910 - Sernaglia della Battaglia, 30 ottobre 1981), è stato un prestigioso poeta della zona del Quartier del Piave.


Biografia[modifica | modifica wikitesto]

La vita di Giocondo Pillonetto scorre appartata e tranquilla, lontana sia dai clamori del mondo che dai circuiti ufficiali della cultura del tempo. Nacque l’8 gennaio 1910 a Sernaglia della Battaglia, in provincia di Treviso, più precisamente nel Quartier del Piave, territorio che tanto ha dato alla storia dell’Italia.
Il padre Angelo era il farmacista del paese, la madre Pierina Biz (detta Rina), pianista, si dedicava alla cura dei suoi cinque figli. La sua fanciullezza fu segnata dal trauma della morte della madre avvenuta nel 1913 a soli 33 anni. Il ricordo della madre lo accompagnerà per tutta la vita e ispirerà i toccanti versi della lirica “Riposo”.
Questa perdita prematura segnerà molto il giovanissimo Giocondo e in un certo senso sconvolgerà la sua vita visto che il padre, essendo molto giovane (aveva infatti solo 35 anni quando restò vedovo), si vide costretto ad affidare il figlio ai suoceri, che vivevano in un paese poco lontano: Follina. Questa cittadina resterà per sempre nel cuore di Pillonetto, infatti sarà qui che convolerà a nozze e sarà sempre qui che terrà a battesimo la figlia.
Negli anni della Grande Guerra, dovette scappare con i nonni materni vicino a Bologna mentre il padre fu arruolato nell’esercito con la funzione di farmacista.
Il piccolo Giocondo frequentò le scuole elementari a Follina che, all’epoca, era la sede dell’ultimo comando austro-ungarico. Furono anni molto duri, sopportò anche la fame, tanto che a volte era costretto a mangiare gli avanzi degli austriaci, visto che in casa c’era scarsità di cibo.
Il suo carattere forte, ribelle e assetato di giustizia lo portò a rischiare la propria vita mettendo in pratica un atto di sabotaggio ai danni degli austriaci, danneggiando i fili del telegrafo. Fu così che rischiò la pena di morte all’età di otto anni e fu salvo solo per intervento di una zia, che a sua volta venne processata a Treviso.
Già a quell’età il suo carattere aveva un certo che di selvaggio, tanto che una volta per difendersi prese la pistola del nonno e si ferì mentre la puliva. Sempre in quegli anni fu mandato in un collegio a Modena perché i nonni erano ormai vecchi e il padre, vedovo, gestiva a Sernaglia la farmacia.
Fu avviato agli studi liceali, infatti frequentò il Liceo ginnasio statale Antonio Canova di Treviso, dove ebbe già modo di farsi apprezzare come poeta neofita dal preside dell’Istituto che all’epoca era l’illustre letterato Augusto Serena. L’ultimo anno frequentò il Liceo Foscarini di Venezia conseguendo la maturità.
Quelli del Foscarini erano gli anni del regime fascista e delle leggi razziali e il maturando Pillonetto ebbe modo di sperimentare la durezza delle leggi razziali visto che molti suoi compagni di scuola furono deportati senza fare più ritorno. Non interessato all’attività del padre, che lo avrebbe voluto farmacista, si iscrisse alla facoltà di storia e filosofia ma a causa di difficoltà economiche, al pari di molti poeti del tempo, come Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo e il suo amico Alfonso Gatto, non si laureò mai.
Non fu chiamato alle armi durante il secondo evento bellico ma prestò servizio militare a Spoleto, nei luoghi francescani. Questa esperienza fu per lui di temperamento mistico, di fondamentale importanza, com’è testimoniato dalla lirica “A frate Francesco“. Questa sua indole lo portò a schierarsi su posizioni anarchiche, pacifiste e mazziniane.

“Uomo ricco di fantasia, colto, civile, capace di costruirsi una vita eccezionale per pura forza interiore”: secondo quanto dice di lui l’amico di una vita Andrea Zanzotto. Fu una figura di uomo e di poeta molto sfaccettata e di grande umanità.

Monumento all' emigrante a Sernaglia della Battaglia

Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale venne eletto sindaco del paese natale e, investito di questa carica, si aprì per lui un periodo meraviglioso, pieno di entusiasmo e di iniziative. Infatti promosse meritevoli eventi culturali, civili e sociali come i suoi numerosi viaggi fatti a Milano con un camion residuato di guerra, messo a disposizione dal CLN (comitato di liberazione nazionale), guidato dallo scultore Carlo Conte per raccogliere provviste e vestiti per i compaesani in cambio di altra merce che riusciva a trovare, facendo sosta a casa di Alfonso Gatto.

O come le sue proposte urbanistiche così innovative per l’epoca, che non furono apprezzate e quindi mai realizzate (ad esempio, una volta realizzato il monumento ai caduti si rese subito conto che, vista la sua mole, era di ingombro alla circolazione e quindi propose di spostarlo; ma le sue idee erano troppo moderne per quel tempo), o ancora come le prime associazioni di emigranti sernagliesi da lui favorite e promosse.
Fece erigere una lapide in memoria degli emigranti dei paesi limitrofi, scrivendo lui stesso le parole da incidere.
Promosse la festa di fine Inverno coincidente con quella di San Valentino e del Carnevale, visto che gli emigranti partivano dopo questa data. Per l’occasione inaugurò la prima sfilata di carri mascherati, il primo dei quali lo fece allestire con una barca lasciata dai nazisti, facendone una nave corsara. In tale occasione chiamò gli amici Giovanni Comisso, Andrea Zanzotto e Diego Valeri come componenti della giuria.

A Sernaglia della Battaglia si formò così, per desiderio ed impegno di Pillonetto, forse la prima associazione italiana di emigranti, dovuta soprattutto ad un bisogno di aggregazione e all’esigenza di sentirsi parte attiva di una comunità, ma anche alla ferma volontà di far rimpatriare le salme dei tanti sernagliesi caduti sul lavoro nelle terre lontane di emigrazione.
La sua era una figura un po’ bohémien, un po’eccentrica, troppo avanti per i tempi, tanto che quasi mai le sue fogge bizzarre e i suoi improvvisi estri erano capiti ed apprezzati dalla grettezza borghese di certi compaesani.
Negli anni immediatamente successivi alla guerra, infatti, soleva bardarsi con mantella nera, un cappello a falde larghe, portava la barba nera, un po’ lunga e i baffi tanto che dai suoi amici fu soprannominato Negus perché aveva una certa somiglianza con Hailé Selassié d’Etiopia.
Le sue apparenti bizzarrie e scontrosità, il suo non voler essere inquadrato in schemi in un momento della storia in cui era un obbligo rientrare in una gerarchia, la sua sete di poesia e di verità fanno di lui un uomo straordinario che, pur senza muoversi dal suo paesello di provincia, visse appieno il momento storico.
Si mise alla ricerca di un’occupazione, provò a fare il manovale ma il suo gracile fisico non gli permise di portare avanti quel lavoro e fu costretto a smettere.

Consegna delle chiavi della nuova casa a Tile nel 1954.
L'osteria avviata da Giocondo Pillonetto nell'aprile del 1948

Nel 1947 conobbe Delfina Biz, una ragazza che, durante la guerra, aveva lavorato in un’osteria, se ne innamorò e il 9 novembre 1949 la sposò. Dal loro matrimonio nacque una figlia a cui diede il nome di Silmava, un nome esotico da lui inventato per un personaggio di una sua opera teatrale, purtroppo mai terminata.

Con qualche debito l’8 aprile del 1948 riuscì ad ottenere la licenza per aprire un’osteria.
La vita gli riservò un altro periodo particolarmente doloroso quello in cui, per una grave malattia, la moglie fu costretta ad allontanarsi dalla famiglia e la figlia fu affidata alle cure di una zia.
Dopo soli sedici mesi dalla sua elezione a primo cittadino del comune di Sernaglia, presentò le dimissioni, anche se continuò comunque a vivere ben vicino alla sua gente, condividendone ansie, speranze e dimostrando una straordinaria umanità e bontà tanto da farsi, insieme ad alcuni emigranti, promotore di una raccolta di fondi per costruire una casetta per Tile, un uomo mite ma con problemi psichici, che viveva di stenti con una sorella che presentava le stesse problematiche, svolgendo piccoli lavoretti commissionatigli dal comune come la pulizia delle strade dopo il mercato settimanale o quella dei tombini. La casa fu consegnata a Tile per il Natale del 1954. Pillonetto dopo una vita dedicata alla poesia si spense in seguito ad una breve malattia nella sua tanto amata Sernaglia nel 1981.

Opere e poetica[modifica | modifica wikitesto]

In un mondo, quello del secondo dopoguerra, infelice e di poche speranze, dove violenza, malgoverno del potere, armamenti, scandali, corruzione erano diventati costume, grandi città che non producevano più cultura ma industria culturale, in questo mondo ecco che vi erano poche isole,le lontane periferie dei piccoli borghi dove ancora gli uomini incontrandosi si salutavano, unici posti ancora vivibili e che ci avrebbero salvato.,Ecco, da uno di questi luoghi ,da una di queste “isole” si è elevata la voce di Giocondo Pillonetto, ( Mario Rigoni Stern, in “Penultima fiaba” , Canova edizioni,Treviso, 2002).
“Ci insegnavano una volta, quando eravamo bambini, nelle scuole religiose, che c’erano i Santi quelli onorati nelle chiese e ricordati nei calendari ecc., ma forse molto più numerosi e ignoti, erano i Santi dispersi entro la grande rete della spiritualità nascosta….”Be’ effettivamente Pillonetto, si può veramente dire, è un testimone della poesia, nel senso proprio di un santo in qualche modo. Cioè, uno che non ha mai voluto che ci fosse alcun altro dato accanto al suo lavorare sulla poesia, che non fosse questo stesso esercizio del confronto con la tradizione letteraria.”( Fernando Bandini, in “Penultima fiaba” , Canova edizioni,Treviso, 2002).
Pillonetto cioè stava all’interno del mito, che oggi è sempre più difficile conservare intatto, anzi, che vediamo distruggere , giorno dopo giorno, sotto i nostri occhi, con una personalità così straordinariamente devota all’idea di una divinità, di una Musa con la M maiuscola; che lo ha portato per tutta un’esistenza a puntare su un valore e ad elaborare ,a propria volta, anche dei nuovi valori all’interno di questa fedeltà.
Una poesia quella di Pillonetto con la caratteristica della fedeltà e non perché lui ignorasse le sperimentazioni che in quel periodo fermentavano.
La sua poesia nasce dalla vita , dall’esperienza, dall’osservazione attenta degli eventi sociali e della natura. I suoi amici erano i paesani, i compagni dell’infanzia, ma anche Giovanni Comisso, Diego Valeri, Carlo Conte, Alfonso Gatto, Andrea Zanzotto, e questi erano forse gli unici a sapere che dietro quel barista singolare, quel sindaco un poco anarchico e un po’ mazziniano e per certi aspetti individualista ad oltranza, poco ossequiente alle autorità si celava un poeta vero e coltissimo, che nella poesia aveva fede e credeva in essa quale mezzo, o piccola finestra di barlume per “guardare al di là della luce del giorno”. ( c.f.r.Mario Rigoni Stern, in “Penultima fiaba” , Canova edizioni,Treviso, 2002) Uomo colto,conoscitore della lezione dei classici e dei moderni, cultore di versi, considerava la poesia appagante in sé pertanto essa poteva essere solo “haut language.
Al di fuori di correnti, scuole e sperimentalismi, la sua poesia è ricca di suggestioni e di echi letterari che spaziano dai crepuscolari ai postsimbolisti francesi, raggiunge esiti poetici molto profondi; come profonde sono le sue radici storico-sociali ed etico-morali.
Pillonetto appare legato inoltre, sia agli echi della tradizione romantica italiana (non dimentica la lezione di Leopardi) ma contemporaneamente guarda a certo Decadentismo( D’Annunzio.e Pascoli soprattutto per certi giochi fonici sottili). Nella sua poesia, c’è qualcosa di più, che deriva, proprio da un senso di un’infinita distanza, in cui egli voleva proiettare la contemporaneità, perché le cose di cui parla erano cose che egli vedeva sotto i propri occhi. La sua , quindi, era un’operazione esattamente contraria a quella che si stava facendo in quel tempo, in certi ambienti culturali. Infatti, mentre egli scriveva in termini così, eternizzanti, cose che erano della realtà quotidiana, “nei salotti ufficiali”si voleva fare l’operazione opposta, cioè rendere tutto a livello del quotidiano e del prosastico.
Le motivazioni , sia umane, sia letterarie, di questa autentica partecipazione poetica devono essere ricercate anche nell’esclusione, perchè solo attraverso la “catastrofe”, chiamiamola così, dell’esclusione ,che in Pillonetto diventa addirittura paradossale, si riesce a capire perché tra i suoi frammenti si leggono infiniti silenzi;e nella sua produzione si avverte chiaramente tutto il peso di questo immenso silenzio, sentito come rifiuto costante e continuo. (c.f.r. Zanzotto, in “Penultima fiaba” , Canova edizioni,Treviso, 2002) La sua poesia è tutta calata nell’autentica vita dell’uomo comune , afflitto dalle piaghe sociali dell’emigrazione, della miseria ,delle ferite lasciate da una guerra civile, risultando così un valido specchio di tutte le problematiche del secondo Novecento. Le sue poesie sono terse e compatte, di una concisione che non sfiora mai l’oscurità ermetica, alle cui sollecitazioni Pillonetto non resta però del tutto indifferente perché riesce a far proprie , in un mondo di piccoli eventi, di varietà stagionali, passate al filtro della meditazione, alcune punte analogiche dell’Ermetismo.
La sua lirica punta a ristabilire un’indispensabile unità fra l’io e la natura ed è come se in questa unità il poeta cercasse riparo dai mali dell’uomo.
Leggendo le sue liriche si ha l’impressione che lui sia lì a farci compagnia, perché sembra di conoscerlo da sempre; e di aver provato le sue emozioni e di aver analizzato con lui i sentimenti, i pensieri, gli anni, il paesaggio. “è come un compagno di strada incontrato in tempo di ritirata, che insieme con pochi altri resta di retroguardia per contrastare il passo alla banalità e all’indifferenza per non essere tra gli sbandati e i disertori della vita”( Mario Rigoni Stern in “Penultima fiaba” , Canova edizioni,Treviso, 2002).
Umanità e natura si configurano però come due condizioni antitetiche. Nella loro purezza e oggettivazione le immagini naturali sono una meta contemplata, che rimane inattingibile: il poeta è continuamente costretto a registrare la sua dolorosa estraneità. L’io, prigioniero della propria condizione umana e della propria solitudine, non riesce veramente a ricomporre la frattura che ormai lo separa dalla natura, vive di una tensione inappagata: sviluppando queste tematiche Pillonetto si mostra un moderno interprete di una sensibilità romantica. La poesia , nata a margine del suo lavoro di oste, al suo impegno civile in qualità di sindaco, acquistava per il poeta sernagliese un’importanza sempre più crescente man mano che si avvicinava all’età adulta, lo dimostra il lunghissimo e paziente lavoro con cui compose le sue liriche, le rivide, le limò fino alla fine dei suoi giorni tanto che non sarebbe scorretto definirlo, con le parole di San Tommaso d’Aquino, “homo unius libri”, espressione con la quale l’ Aquinate esprimeva la forza e la competenza che acquista in un determinato ambito , in una data professione, colui che si è dedicato , speso con passione in essi e questo sembra scritto proprio per Pillonetto.
Dà inizio alla sua attività compositiva nel 1935 e la coltiva fino al 1976 con periodi di pausa, con dei vuoti. “Negli anni della guerra, 1939-1945 c'è il suo silenzio. Dopo quanto aveva detto, cosa poteva dire un poeta paesano come lui? Occorre giungere al 1948 per risentire ancora la sua voce: il rumore dei cannoni e i fuochi delle città che crollavano sotto i bombardamenti, i lamenti dei morenti sui campi di battaglia, e per fame nei Lager non potevano farci sentire la sua voce purissima, che non era rullo di tamburo o squillo ai fanfara, ma un sussurrare, uno stornire di fili d'erba per orecchi sensibili a percepire.” ( Rigoni Stern . in “Penultima fiaba” , Canova edizioni, Treviso, 2002).
Proprio queste pause meditative,di riflessione e di revisione del lavoro fatto confermano la fedeltà di Pillonetto all’arte poetica e la sua serietà con cui visse l’ispirazione avvertita come una necessità, un’urgenza, un bisogno di fermare in pochi versi uno stato d’animo, un sentire interiore.
Ma la poesia non è solo questo e Pillonetto studioso e conoscitore qual era della letteratura lo sapeva benissimo, sapeva che dietro i versi c’è tanta tecnica, tanto labor limae,infatti sentiva la necessità di rivedere continuamente le liriche già scritte e questo è dimostrato dal fatto che molte sue poesie riportano in calce più di una data di composizione.

La perdita della madre fu vissuta dal poeta come un abbandono e lo rese particolarmente sensibile ad altre separazioni , ad altri abbandoni, come l’allontanarsi dalla propria terra dell’emigrante che si porta in luoghi lontani in cerca di un avvenire migliore. Molte sono infatti le poesie dedicate alla figura dell’emigrante e con lui il poeta si identifica conscio del fatto che non si può capire la realtà con il ragionamento, ma soltanto immedesimandosi con essa.
Il suo emigrante non è un l’emigrante di un qualsiasi lacerato paese dell’Italia post bellica ma è,infatti, l’emigrante stagionale di Sernaglia che lascia il suo borgo natio per portarsi, verso la metà del mese di febbraio, nelle prospere regioni della mittel Europa per poi farvi ritorno , non senza problemi, nei mesi invernali.
Il ritorno , infatti, di questi uomini coraggiosi non sempre era visto positivamente dai compaesani perché questi ultimi avevano, intanto, organizzato la vita sociale del paese non contemplando l’agognato ritorno dei fuoriusciti.

“E torni ai tuoi cari
corrotti dal gelo delle rotaie
finalmente potrai baciare
i volti dei tuoi bimbi
ancor freddi del gelo
delle infinite rotaie
ancor freddi della dimenticanza
del padre."

Eppure ciò che usciva dalla sua penna , quel suo avvertire la realtà , quei tratti dell’emigrante, fermati in pochi versi , hanno una forza tale che possono considerarsi universalmente validi.
Persona riservata qual era Giocondo Pillonetto non amava parlare della sua vena poetica , di quel cantuccio , nel retro della sua osteria, dove soleva rifugiarsi quando sentiva la necessità di mettere in versi il suo lato più vero, quello capace di tracciare, con pochi versi, i volti delle persone che passavano per il suo caffè. Aveva una particolare abilità di cogliere in profondità ,nelle vicende del luogo, gli umori di un’epoca caratterizzata dagli stenti e dal fenomeno migratorio.
La sua esistenza era trascorsa , in apparenza , nel servire con distacco, anche se sempre cordialmente gli amici e i compaesani che capitavano nel suo bar.
Ma capì che forse poteva leggere il mondo anche osservandolo da dietro il piccolo bancone di quell’osteria, anzi, lo poteva fare in modo più approfondito perché, a contatto con “ gli avventori del suo caffè” s’imparava a vedere non più il lato arcadico della vita, ma quello realistico della fatica, del sudore della fronte versato per tirare avanti in tempi così tristi.
Un’osteria quella di Pillonetto dove si ritrovavano i contadini e chi la terra non la possiede e per questo è costretto a migrare , con le loro singolarità, con i “loro estri selvaggi”, che gli consentirono di gustare il sapore di un’antica civiltà che si può avvertire solo stando a contatto con la parte più vera della società.
Giocondo Pillonetto , di questa società, riporta qualcosa che va ben oltre la descrizione e ci fa capire che quella vita , anche se grama, anzi, forse proprio per questo, ha qualcosa di veramente forte che l’uomo comune,il borghese, non riesce a trattenere per sé e disperde andando dietro alla modernità:
“Egli tende a risolvere ogni elemento della realtà nel giro proprio della poesia, nella effettualità labile e pur ferma del testo, che rimane affidato alla propria grazia, tra levità e gravitas, rivolto comunque verso un altove “( Zanzotto in “Penultima fiaba” , Canova edizioni,Treviso, 2002).

"Risveglia il sole
I sogni dell’ombre.
Ma la luce del giorno
È invecchiata ancora di un giorno.
Ma forse v’è ancora
Qualcosa
Di là della luce del giorno."

Pillonetto compone dal 1935 al 1976, quindi un arco di tempo abbastanza ampio ,di quarant’uno anni eppure la sua produzione poetica consta di poche centinaia di versi, raccolti in un unico volumetto dal titolo”Penultima fiaba” ma questo è dovuto proprio al fatto che è stato certamente una personalità distante ma anche un protagonista, per quanto segreto, fedele ad un’idea di poesia come impegno assoluto e che nello stesso tempo è costretto a disgregarsi invece in una contraddizione continua e che era minato proprio all’interno, da questi enormi silenzi, causati dalla meditazione e dalla necessità della separazione. Per capire ciò che avveniva intorno a lui, infatti, occorreva che si portasse verso l’esterno in uno spazio che è, per definizione, atemporale.
Le sue esitazioni sono state continue, infinite, derivanti da un eccessivo sentimento di autocritica che spiega il perché del “ suo silenzio, della sua convinta, non dolente volontà di apparire a parabola compiuta, fosse pure con pochi frammenti ma tali da dargli una forma di sicurezza di non aver perso il contatto con quell’altezza, quella necessità, quell’autosufficienza totale che nella poesia gli era da sempre apparsa”.( Zanzotto, in “Penultima fiaba” , Canova edizioni,Treviso, 2002).
“Negli anni della guerra, 1939-1945 c’è il suo silenzio. Dopo quanto aveva detto, cosa poteva dire un poeta paesano come lui? Occorre giungere al 1948 per risentire ancora la sua voce: il rumore dei cannoni e i fuochi delle città che crollavano sotto i bombardamenti, i lamenti dei morenti sui campi di battaglia, e per fame nei Lager non potevano farci sentire la sua voce purissima, che non era rullo di tamburo o squillo ai fanfara, ma un sussurrare, uno stornire di fili d’erba per orecchi sensibili a percepire”.(Mario Rigoni Stern in “Penultima fiaba” , Canova edizioni,Treviso, 2002).
Nonostante le frequenti insistenze dell’amico Zanzotto affinché pubblicasse che le sue liriche Pillonetto si mostrava sempre restio a farlo perché era uno spirito critico soprattutto nei confronti di se stesso, non amava essere in prima pagina.
Nel 1976 aveva conosciuto Dal Monte che finalmente lo convinse a pubblicare la sua raccolta ma per volere del destino ciò si concretizzò perché una un’attesa malattia pose fine ai suoi giorni.

La sua raccolta: penultima fiaba[modifica | modifica wikitesto]

  • Riposo, Sernaglia, 1935
  • Da : “L’ultimo canto” , Sernaglia, 1933/1935
  • Le stagioni felici( Estate, Autunno), Sernaglia, 1935/1938
  • ( Primavera, Inverno) Sernaglia, 1935/1938
  • Le stagioni tristi( Primavera) Sernaglia, 1935/1938
  • ( Estate, autunno) Sernaglia, 1935/1938
  • ( Inverno) Sernaglia, 13-01-1938
  • Le stagioni della vita, Sernaglia,1938 ( in dedica alla figlia Silmava)
  • Intermezzo Sernaglia, 1948
  • Ultimo Autunno Sernaglia, 1948
  • Mezza Estate Sernaglia, 1950/1975/1980
  • A frate Francesco Sernaglia, 1952/1955/1975
  • La sperana Sernaglia, 1954
  • Mitologia, Sernaglia, 1954
  • Ultimo autunno ,Sernaglia, 1954
  • Mura ciclopiche, Sernaglia, 1952
  • A mia figlia Silmava, Sernaglia, 1954
  • All’emigrante 1, Sernaglia, 1954
  • All’emigrante 2, Sernaglia, 1954/1964
  • All’emigrante 3, casetta di Tile, 195
  • All’emigrante 4, Sernaglia, 1955
  • All’emigrante 5, Sernaglia, 1956
  • Ritorno, Sernaglia, 1955
  • Sabato al villaggio, Sernaglia, 1955
  • Tre notturni, Sernaglia, 1958/1979
  • Pasqua, Sernaglia, 1959
  • Alla Sfinge, Sernaglia, 1959
  • Palinsesto, Sernaglia, 1959
  • Effemeridi, Sernaglia, 1959
  • Alberello, Sernaglia, 1959
  • Trittico della morte, Sernaglia, 1959
  • Commiato, Sernaglia, 1960
  • XYZ, Sernaglia, 1960
  • Missilistica, Sernaglia, 1960
  • Nomadi, Sernaglia, 1960
  • Prologo, Sernaglia, 1964
  • L’attesa, Sernaglia, 1964
  • Epigramma 1, Sernaglia, 1965
  • Epigramma 2, Sernaglia, 1965
  • Burrasca,Sernaglia, 1965
  • Saffo, Sernaglia, 1968/1972
  • Meriggio, Sernaglia, 1969
  • Intermezzo, Sernaglia, 1970
  • Nel silenzio del tempo, Sernaglia, 1971/1970/1975
  • Le stagioni tragiche, Sernaglia, 1974
  • Al bar, Sernaglia, 1970
  • Trittico dell’amore, Sernaglia, 1976/1978
  • Il giardino delle rose, Sernaglia, 1970
  • Dal poemetto “ Il Vaiont”, Venezia, 1931
  • Colombe all’alba, Sernaglia, 1938

Poesie inedite[modifica | modifica wikitesto]

  • Solitudine, 1935
  • I gelsomini, 1938
  • Immortalità, 1938
  • Il tempo, 1940
  • Teorema, 1954 ( in dedica all’amico Giano Bifronte)
  • Oltre l’alba, 1935
  • Tramonto, 1955
  • Ultima estate, 1959
  • Notturno, 1959
  • Natale, 1959
  • Prologo ( alla penultima fiaba), 1959
  • L’attesa, 1968/1969
  • Il disastro del Vaiont, 1974/1979

I temi privilegiati[modifica | modifica wikitesto]

Nella poesia di Pillonetto c’è un motivo che permea di sé quasi tutta l’opera, un motivo di comissiana memoria cioè il suo rapportarsi con la natura che, a volte, è fatto di pace ,di idillio, di speranza e di gioia (Stagioni felici) ,altre volte invece fa respira scoramento, sconfitta e dolore (Stagioni tristi) ma che comunque è sempre legato al suo vissuto in un ambiente di provincia, è legato ad un’agricoltura povera , di sussistenza, tanto che si è parlato di una sua terrestrità.
In Le stagioni tristi; versi scritti tra il 1935 e il 1938, sembra che Pillonetto volesse anticipare gli anni della guerra: “ una primavera con rami stecchiti dal vento senza ricordo di sole; un’ estate con sangue sull'alba fredda, un autunno dove al volgere delle stelle soccombe il pendio tetro del nostro presente, e un inverno con torbidi ghiacci che galleggiano in un rivo senza voce”. ”.(Mario Rigoni Stern in “Penultima fiaba” , Canova edizioni,Treviso, 2002).
La natura è avvertita come elemento ineluttabile e fonte di ispirazione poetica.
Canta le stagioni nel loro evolversi con un alternarsi di felicità e di tristezza, il riso di una bambina come pagliuzza d’oro tra le scorie del mondo mentre

“Cupo soccombe
al volver delle stelle
il pendio tetro del nostro presente.”

“Come in un paesaggio condensato di Jacopo Bassano, ritroviamo le stagioni e gli uomini della nostra terra: Le stagioni felici di un'estate con il sussurro delle api; un autunno con un grappolo come fiere su tempia di fanciulla; una primavera con i fiori del pesco che tinge di rosa le nevi lontane; e un inverno con la neve che fiocca e i fuochi dei meati: sono immagini che sempre i poeti hanno cantato» anche i greci e Virgilio, ma dette a noi, così, da Giocondo Pillonetto, acquistano un sapore nostro, veneto, anche se universale.
Invece in Le stagioni tristi; versi scritti tra il 1935 e il 1-938-, sembra voler anticipare gli anni della guerra: una primavera con rami stecchiti dal vento senza ricordo di sole; un’ estate con sangue sull'alba fredda, un autunno dove al volgere delle stelle soccombe il pendio tetro del nostro presente, e un inverno con torbidi ghiacci che galleggiano in un rivo senza voce.” (Rigoni Stern” in “Penultima fiaba” , Canova edizioni,Treviso, 2002).
La campagna si trasforma così in Pillonetto in un rifugio ideale, mitico , si ha quasi l’impressione che lo spirito di Virgilio si sia reincarnato nel Nostro, per il senso di pace e di conforto che la natura stimola in lui. A volte però è costretto a fare i conti con la solitudine, che invade il suo animo di tristezza.
“La natura è presente nel suo trascorrere ciclico ineluttabile, al di sopra e al di là del destino dell’uomo” ( Luigi Milone in “Penultima fiaba” , Canova edizioni,Treviso, 2002).
Nelle liriche dedicate alle stagioni sono evidenti i rimandi al Pascoli soprattutto per certi ritmi immaginativi,ma Pillonetto non opera mai una sterile imitatio , infatti ogni volta reinventa e riqualifica lo stesso linguaggio.
In Estate, pur non registrando petrarchismi c’è comunque un lessico aulico.
In Autunno, il lessico pur restando alto c’è una maggiore apertura verso l’ermetismo.

Altro tema molto sentito dal poeta sernagliese, tanto da dedicargli ben cinque liriche, è l’emigrazione.
E’ con i versi dedicati agli emigranti che Pillonetto, come scrive Zanzotto, “ raggiunge una purezza, un’intensità, un equilibrio raro dell’espressione”.
Giocondo era solito ricordare una vicenda molto dolorosa e che vedeva come protagonista un suo caro amico, Angelo Lucchetta , che perì in una miniera in Francia e il cui corpo fu ritrovato con una foto del suo bambino appena nato appoggiata sul volto.
Il suo tanto parlare di emigranti era dovuto ad una partecipazione accorata a quella che considerava una vera piaga sociale , che interessava molti suoi compaesani ,che si vedevano costretti a portarsi in terre lontane per poter trovare una fonte di sostentamento per le loro famiglie.
La cosa che più di ogni alta straziava il cuore del poeta era il ritorno di questi uomini nelle loro case , quando i figli , lasciati molti mesi prima, non riconoscevano più il padre.
Eventi che hanno visto come protagonisti, anonimi lavoratori,sconosciuti proletari tranne a chi ,attento osservatore dei sentimenti umani, per loro si è speso ed ha sempre avuto orecchi per la loro tenue voce, perché, nella realtà dei fatti, sono quelli che hanno fatto grande i nostri paesi e che hanno impresso il movimento al carrozzone della vita.


"Perché tu fosti spezzato
non come creatura umana
ma come fronda
di semplice siepe
dalla povera vita."


"...ma per il povero
anche la morte
è buona mercede ed è l'ultimo sogno immacolato
...Eppure anche tu sei caduto
oltre l'ombre
per la tua buona sembianza..."


In un poeta così chiaro e nostro non poteva mancare un canto d'amore anzi più canti; ma nel Trittico dell'amore le immagini che ci suggeriscono i suoi versi raggiungono la felice solarità di certi disegni ispirati al Tono dalla Commedia di Dante.

Si può pensare che a questa umanizzazione della natura concorra prepotentemente la fede in Dio. compiacersi della lotta contro le difficoltà, smaniare per le vicende della stagione in rapporto ai raccolti, interessarci al guadagno e soprattutto portare giornalmente un attimo di riconoscenza a Dio, che interviene sempre per il meglio con infinita generosità.” Alla madre, dunque, si aggiunge Dio, come punto di riferimento e talvolta come sola ancora di salvezza.

Anche se in qualche occasione si dubita che Dio sia con noi. Quando cade improvvisa la grandine, ad esempio, e rovina il raccolto, con gli uomini.

La sua opera, ricca di suggestioni e di echi letterari che spaziano dai crepuscolari ai postsimbolisti francesi, raggiunge esiti poetici senz'altro tra i più felici della lirica contemporanea.