La Cocumella

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Grand Hotel Cocumella
La Cocumella nei primi del '900
Localizzazione
StatoBandiera dell'Italia Italia
RegioneCampania
LocalitàSant'Agnello
Coordinate40°37′56.28″N 14°23′23.22″E / 40.6323°N 14.389783°E40.6323; 14.389783
Informazioni generali
CondizioniIn uso
Costruzione1597-1637
Ricostruzioneanni 1970
Usoalbergo
Realizzazione
Proprietariofamiglia Del Papa
CommittenteGesuiti,

Pietro Antonio Gargiulo

La Cocumella (attualmente Grand Hotel Cocumella) è un edificio storico del comune di Sant'Agnello ed una delle sue strutture alberghiere più antiche. Fa parte dei Locali storici d'Italia.

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Alla fine del Cinquecento, nel 1597, l'aristocratico sorrentino Gianvicenzo De Angelis decise di donare la proprietà – che allora comprendeva la villa con una terrazza a picco sul mare e una discesa privata, appunto denominata "la Cocumella" – ai Gesuiti, con lo scopo di adibire l'intero complesso a luogo di cura[1]. De Angelis, con atto notarile del 14 agosto 1597, dotò la proprietà di una rendita e si prese l'onere di costruirvi un edificio, a patto di aprirvi una "scuola di grammatica". Alla fine dei lavori, i Gesuiti vi si installarono ed inaugurarono il complesso il 2 maggio 1637[1][2].

I Gesuiti erano avevano l'intenzione di insediarsi nella Penisola sorrentina dal 1557, ossia da quando il Rettore del Collegio di Napoli Cristoforo Mendoza informava il futuro Preposito Generale della Compagnia Diego Laynez dell'intenzione di fondare una struttura stabile, estensione del Collegio di Napoli e con lo scopo di curare i malati, approfittando che la città di Sorrento volesse affidare alla Compagnia la chiesa di San Antonio[2]. L'occasione si presentò con la politica di fondazione di nuovi collegi di Roberto Bellarmino, provinciale di Napoli, e di Muzio Vitelleschi, rettore del Collegio Massimo di Napoli, che permise la fondazione dei nuovi collegi a Massa Lubrense (1603), a Castellammare di Stabia (1609)[3] ed infine alla Cocumella.

La residenza di convalescenza dei chierici venne però poco frequentata a causa del lungo e difficoltoso viaggio da Napoli a Sorrento, pesante per i convalescenti dell'ordine, e della preferenza per l'altro ospizio per Gesuiti fondato da donna Maria Bermudez de Castro a Portici nel 1619[4]. Le epidemie di peste e le rivolte che ebbero luogo nella Penisola sorrentina nel XVII secolo non facilitarono la vita de La Cocumella che venne usato come ricovero per padri infermi o come rifugio dal vescovo di Massa Lubrense, Giovan Vincenzo de Juliis, durante l'assedio di Sorrento da parte dei rivoltosi sostenuti dal duca di Guisa nel 1648[5].

Solo nel 1705 il dotto gesuita padre Nicola Partenio Giannettasio (già professore di matematica nel collegio gesuita di Napoli), a causa della sua cagionevole salute, desiderò raggiungere quel luogo per beneficiare della sua posizione, assieme ad un folto gruppo di amici ed intellettuali. Nel 1708 Giannettasio fece erigere una chiesetta accanto all'antica torre che fu utilizzata come campanile della nuova chiesa (in epoca saracena, invece, essa serviva ad avvistare eventuali attacchi via mare) e nel lungo periodo di residenza nel collegio promosse la diffusione della cultura e degli insegnamenti religiosi fra i più poveri[6]. Questi insegnamenti continuarono per opera dei Gesuiti anche dopo la morte del Giannettasio, avvenuta nel 1715.

Nel 1767 la proprietà cadde di nuovo in disuso, a seguito dell'espulsione dei Gesuiti dal Regno di Napoli: il complesso della Cocumella divenne proprietà dello Stato e fu utilizzato come convitto per gli orfani dei marinai del luogo e come scuola nautica[1]. Il regolamento del Convitto della Cocumella venne completato nel novembre 1770 ed il marchese Berardo Galiani ne fu il primo Soprintendente[7]. Da studioso di architettura, egli redasse immediatamente un resoconto dello stato dei luoghi per il ministro Tanucci, con delle proposte per migliorare la residenza al fine di ospitare gli alunni ed il personale della tenuta[7], che venne arredata con i mobili presi dall'ex-convento dei Gesuiti di Massa Lubrense[8]. Il marchese Galiani diresse il Convitto fino alla sua morte, avvenuta nel 1774; fu seppellito nella chiesa del Convitto, come indica una lapide fatta mettere da Ferdinando IV. La scuola nautica chiuse i battenti nel 1777 e gli alunni vennero trasferiti al Convitto nautico di Napoli.

Messa in vendita, il re preferì non acquistare La Cocumella e nel 1789 la proprietà della struttura – meno della chiesa, che era ancora proprietà dello Stato nel 1791 e in uno stato di abbandono[9] – passò a Pietro Antonio Gargiulo, che la acquistò per 10 800 ducati[9] per farne una locanda atta ad ospitare i viaggiatori che percorrevano il Grand Tour[10]. Furono i suoi eredi che la trasformarono nel lussuoso albergo che è oggi (salvo la breve parentesi offerta dalla Seconda Guerra Mondiale, in cui fu adibita a sede del Comando Inglese)[1]. Nel Dopoguerra, l'albergo viene trascurato dai proprietari e perse lustro, ma nel 1978 viene incaricato l'architetto Nino Del Papa di ristrutturare l'antica residenza; l'architetto finì per acquistare la proprietà e rilanciare l'attività alberghiera[11].

Negli anni l'albergo ha potuto vantare, oltre ad una storia secolare, anche la presenza di illustri ospiti, come Goethe, Andersen, Gioacchino Murat, il duca di Wellington, lo scrittore Francis Marion Crawford, il giornalista Lincoln Steffens[12] e – in tempi più recenti – Moravia negli anni '30, Rita Levi-Montalcini ed il regista Mario Monicelli. Numerose leggende, infine, ruotano attorno all'Hotel Cocumella: in particolare, si narra che in un muro dell'albergo l'ultima amante di Shelley, Claire Jane Clairmont, nascose una teca che conteneva il cuore del poeta, avuto in dono da Byron, il quale a sua volta lo strappò dal corpo dell'amico affogato a Lerici.

Origine del nome[modifica | modifica wikitesto]

Il nome di "Cocumella" potrebbe venire dalla ninfa Colomeide – come indicato da Nicola Giannettasio[13] – oppure dalle "cuccume", vasi di terracotta usati per scaldare l'acqua che venivano prodotti in zona[1][10]. Gennaro Gamboni invece ha proposto la teoria che il nome provenisse dalla famiglia Cocumella, originaria di Corfù[14].

La scrittrice inglese Mariana Starke, nel suo libro sui viaggi in Europa, parla invece di un vaso conservato all'epoca presso il pozzo e che si pensasse fosse usato per i riti di un tempio di Sorrento. Nel dialetto locale, la parola "cocumella" si riferiva quindi, secondo la Starke, all'"acqua lustrale" e quindi, per estensione, al vaso che la conteneva[15].

Descrizione[modifica | modifica wikitesto]

Vista aerea dei primi anni '90

Il chiostro[modifica | modifica wikitesto]

L'edificio principale venne realizzato fra il 1617 ed il 1637 da Benedetto Canale delle Città della Cava secondo i disegni del reverendo gesuita P. Provedi[16]. La residenza è strutturata attorno ad un chiostro sul quale affacciava anche la chiesa. All'interno del cortile vi era un antico pozzo – ancora oggi visibile – costruito sul luogo dove in epoca romana sorgeva una cisterna atta a far confluire l'acqua proveniente dall'acquedotto del Formiello[17].

Del 1708 data la cappella a croce greca, con volte a botte e cupola centrale e tre altari, fatta edificare dal gesuita Nicola Partenio Giannettasio e dedicata alla Vergine Maria. Il pittore gesuita Sebastiano Triverio era stato ingaggiato per realizzare due quadri da sistemare nelle cappelle laterali[18], mentre il quadro dell'Annunciazione del 1723, sopra l'altare maggiore, è dovuto a Giuseppe Castellano. L'altare maggiore è barocco, realizzato con marmi policromi e porta lo stemma della Compagnia di Gesù. Il suolo è in maioliche policrome[19].

Il giardino[modifica | modifica wikitesto]

Il terreno de La Cocumella, era, sin da prima della vendita ai padri gesuiti, adibito ad orto. Venne rimaneggiato nel XIX secolo secondo il gusto romantico, sostituendo alle piante di vite e alle altre coltivazioni una risistemazione con viali, pergolati, prati e fioriere. Nel 1892, veniva descritto come "un giardino fiorito e un vasto aranceto e limoneto"[10]. Il giardino si estende dall'ingresso della residenza fino ad una terrazza a strapiombo sul mare[20].

Le grotte[modifica | modifica wikitesto]

All'altezza dell'approdo fatto costruire per il Convitto Nautico, è presente una grotta nella parete tufacea usata all'epoca come rimessa per le barche[21]. Si tratta di una delle cavità marine più ampie della Penisola sorrentina, che la tradizione locale attribuisce a Polifemo[22][23]. La grotta e la spiaggetta antistante è usata dall'albergo, nei secoli XX e XXI, come accesso al mare.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b c d e Antonio Cuomo, Locali Storici, Sorrento, Associazione Studi Storici Sorrentini, 1992, pp. 17-24.
  2. ^ a b Errichetti, p. 65.
  3. ^ Carolina Belli, Stato delle rendite e pesi degli aboliti Collegi della Capitale e Regno dell'espulsa Compagnia detta del Gesù, in Giuseppe Galasso (a cura di), Fonti e documenti per la storia del Mezzogiorno d'Italia, vol. VIII, Napoli, 1981, pp. 449-450, 493-494.
  4. ^ L. de Vito Puglia, p. 26.
  5. ^ Gennaro Maldacea, Storia di Sorrento, Napoli, Matteo Vera, 1841, pp. 46-47, ISBN non esistente. URL consultato il 7 gennaio 2017.
  6. ^ Giuseppe Orlandi, S. alfonso Maria de' Liguori e l'ambiente missionario napoletano del Settecento: la Compagnia di Gesù (PDF), in Spicilegium Historicus Congregationis SS.mi Redemptoris, annus XXXVIII, n. 1, 1990, pp. 76-78. URL consultato il 7 gennaio 2017.
  7. ^ a b Biblioteca della Società napoletana di storia patria, manoscritto XXXI C5, fasc. 10.
  8. ^ L. de Vito Puglia, p. 40.
  9. ^ a b Errichetti, p. 70.
  10. ^ a b c Christian Wilhelm Allers, La Bella Napoli, trad. it., 1993 [1893], p. 191.
  11. ^ Ettore Mocchetti (a cura di), La ninfa e il vecchio convento, in Alberghi d'Italia, Milano, Giorgio Mondadori, 1989, p. 242, ISBN 88-374-1085-9.
  12. ^ (EN) Justin Kaplan, Lincoln Steffens: A Biography, Simon and Schuster, 2013, p. 275, ISBN 1476775591. URL consultato il 7 gennaio 2017.
  13. ^ (LA) Nicola Giannettasio, S.J., Naumachica, seu de bello navali, libri V. Ad excellentissimum principem Antonius Rambaldum, Napoli, Raillard, 1715, p. 5, ISBN non esistente.
  14. ^ Gennaro Gamboni, Ischia e il suo poeta Camillo Eucherio Quinzi, Napoli, 1952, p. 64.
  15. ^ (EN) Mariana Starke, XI. Sorrento, in Travels in Europe and in the Island of Sicily to which is added an Account of the Remains of Ancient Italy, 9ª ed., A. & W. Galignani & Company, 1836, p. 373, ISBN non esistente. URL consultato il 7 gennaio 2017.
  16. ^ L. de Vito Puglia, p. 30.
  17. ^ Luigi Cangiano, Esame della distribuzione e del dominio delle acque potabili in Sorrento, Napoli, 1855, p. 16.
  18. ^ (DE) Richard Bösel, Jesuitenarchitektur in Italien 1540-1773, collana Publikationen des Historischen Inst. beim Österr. Kulturinst. Rom, Vol. 1: Die Baudenkmäler der römischen und neapolitanischen Ordensprovinz, Roma, VÖAW, 1986, p. 490, ISBN 978-3-7001-0699-9.
  19. ^ L. de Vito Puglia, pp. 34-36.
  20. ^ L. de Vito Puglia, p.38.
  21. ^ Maria Sirago, Tradizione marinara e la scuola nautica di Piano di Sorrento, Napoli, 1989, p. 29, SBN IT\ICCU\CFI\0146458.
  22. ^ Ivan Matveevich Muravʹev-Apostol, Lettre adressée à son excellence Mgr. Capece Latro, Napoli, 1832, pp. 11-17.
  23. ^ Mary Shelley, A zonzo per la Germania e per l'Italia, collana Biblioteca Clinamen, traduzione di Simonetta Berbeglia, 1ª ed., Clinamen, 2004, p. 206, ISBN 8884100526.
    «La nostra calata è ritenuta una delle migliori, si apre in un'enorme caverna doppia che la tradizione o l'immaginazione ha attribuito a Polifemo. È abbastanza grande per lui e per il suo gregge, e dentro v'è una grotta interna dove il gigante pastore conservava i formaggi e alla cui ruvida parete si aggrappavano gli sfortunati viaggiatori nella speranza di scappare. Il macigno che scagliò per affondare la nave di Ulisse si trova ancora ad un furlong dalla bocca della grotta.»

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Luigina de Vito Puglia, La Cocumella, collana Sud - Immagini e memoria, vol. IV, Sorrento, Centro di Studi e Ricerche Multimediali Bartolomeo Capasso, 2003.
  • Michele Errichetti, La Cocumella, in Societas, n. 5-6, 1978.

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