Il Misogallo
Il Misogallo | |
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Incisione sull'antiporta dell'edizione del 1799 | |
Autore | Vittorio Alfieri |
1ª ed. originale | |
Genere | Satira, poesia a sfondo politico |
Lingua originale | italiano |
«In mille guise, due sentenze sole / Questo miscuglio garrulo racchiude: / Che libertà è virtude; / E che i Galli esser liberi, son fole. / Chi già il sapea, non logori qui gli occhi: / Chi non vuol creder, tocchi.»
Il Misogallo (parola derivante dal greco e dal latino che significa "colui che odia i francesi") è un'opera letteraria satirica di Vittorio Alfieri, comprendente generi diversi (in particolare prose e rime) ispirati agli eventi della Rivoluzione francese tra l'insurrezione di Parigi nel luglio 1789 e l'occupazione francese di Roma nel febbraio 1798. Il sottotitolo dell'opera è "Prose e rime di Vittorio Alfieri da Asti".
In quest'opera antifrancese, Alfieri, con una critica feroce e pungente, rivede i suoi primi lusinghieri apprezzamenti rivolti alla Rivoluzione convogliati nell'ode A Parigi sbastigliato.
La Francia in genere, e la Rivoluzione in particolare, sono dall'Alfieri considerate ree di aver tradito e screditato l'ideale di libertà con i sanguinosi eccessi del Terrore. Alfieri, sentendosi tradito in ciò che ha di più caro rivolge contro i francesi durissimi attacchi e invettive sarcastiche.
La pubblicazione
[modifica | modifica wikitesto]Le pagine di prosa e di poesia del Misogallo furono scritte fra il 1789 e il 1798, raccolte, selezionate ed ordinate tra il 1793 e il 1795. Nel 1799, Alfieri stampò in forma anonima una parte del Misogallo con il titolo Contravveleno poetico per la pestilenza corrente.
La prima edizione completa venne stampata postuma presumibilmente a Pisa nel 1814, dopo la caduta di Napoleone Bonaparte e alla vigilia della Restaurazione, con la fittizia dicitura Londra 1799 e una Intenzione dell'Autore a inizio volume che invitava a conservare copia del manoscritto qualora fosse capitata in mani diverse da chi l'aveva in custodia, chiedendo all'autore stesso il da farsi o procedendo alla stampa in caso l'autore non fosse stato più in vita.
Contenuti e commento
[modifica | modifica wikitesto]L'odio antirivoluzionario e il misogallismo
[modifica | modifica wikitesto]«Io aveva riposto la mia vendetta e quella della mia Italia; e porto tuttavia ferma speranza, che quel libricciuolo col tempo gioverà all'Italia, e nuocerà alla Francia non poco.»
«Sempre insolenti / Coi Re impotenti: / Sempre ridenti / Coi Re battenti. / Talor valenti; / Ma ognor serventi, / Sangue-beventi, / Regi stromenti.»
Anche nella Vita scritta da esso vi sono molti attacchi alla Francia, che Alfieri dice di non aver mai troppo amato nemmeno quando vi abitò, e soprattutto dopo la fuga a causa della rivoluzione[1][2], ma questo viene portato all'estremo nel Misogallo.
Le rivolte incombenti, il sequestro di beni e libri, il rischio della vita, la minaccia di arresto alla contessa d'Albany, la rocambolesca uscita di Parigi e l'invasione in Italia, portano Alfieri ad un ripudio totale e senza compromessi di quelli che definisce con vari epiteti "barbari", "gamberi", "scimiotigri", "plebaglia", "pidocchi", "antropofagi", "schiavi cannibali assassini" ecc.[3]
Il linguaggio letterario di Alfieri è di solito elevato, aulico e serio, e solo nel Misogallo, nelle commedie e nelle Satire egli usa una terminologia più bassa, popolaresca o ironica, fino al sarcasmo feroce. Si veda il sonetto XXIII del Misogallo (16 aprile 1793) che allude alla sconfitta francese nella battaglia di Neerwinden (1793):
«Ventitrè milïoni di pidocchi / Fan farsi una Repubblica di carta, / Che nel Reame immenso degli sciocchi / Vien battezzata tosto un’altra Sparta. / Settecento e più gazzere senz’occhi / Fan leggi, notte e dì; Ragion le scarta; / Ma s’uom v’ha, ch’anzi a lor non s’inginocchi, / Di Libertade a gloria, altri lo squarta. / Di gamberi fierissime migliaja / Battagliano in tremende ritirate, / Per custodire la materna ovaja. / O Repubblica, nata in una state, / Che ai se’ mesi già caschi di vecchiaia, / La regina sarai delle cacate.»
L'opera aggrega generi diversi: prose (sia discorsive sia in forma di dialogo tra personaggi), sonetti, epigrammi e un'ode. Si tratta della ritrattazione completa dell'ode Parigi sbastigliato, e comprende una rivalutazione della figura umana di Luigi XVI (considerato un re troppo gentile per i "vili francesi", come si evince dalla citazione del biblica anteposta ad una delle prose[4]) contro il tirannico Robespierre, a cui vengono attribuite in toto le opinioni e le azioni dei rivoluzionari, durante il dialogo immaginario col re, in cui viene fatto anche un elogio di Charlotte Corday che uccise Marat.[5][6] La Corday è paragonata a Marco Giunio Bruto il cesaricida,[7] personaggio storico assai stimato dall'astigiano, che lo aveva celebrato nel Bruto secondo. I vecchi re sono stati sostituiti dai nuovi tiranni, mentre sul re deposto si accanisce la massa che Alfieri detesta. Oltre alla prosa III e V, sempre su Luigi XVI è anche il sonetto XXII, che richiama La Basvilliana di Vincenzo Monti senza la parte apologetica religiosa:
«In sua innocenza un Re, che all'empia greggia / De' schiavi suoi perdon concede intero. / Universal, mortifero, tremendo / Silenzio piomba entro le attonite alme.... / Deh, ch’io non vegga l’assassinio orrendo!»
Vi è anche un componimento, il sonetto XII, dedicato a Maria Teresa Luisa di Savoia, principessa di Lamballe, amica di Maria Antonietta brutalmente trucidata durante i massacri di settembre, mentre il sonetto XXIV è dedicato alla regina stessa e al delfino Luigi Carlo.[8] In questi casi, il tono ritorna drammatico come nelle tragedie alfieriane e in molte Rime:
«Orrido carcer fetido, che stanza / Degna è fra' Galli al malfattor più infame, / Schiude il ferreo stridente aspro serrame, / E Donna entro vi appar d’alta sembianza. / D’innocenza la nobile baldanza / Schernir le fa l’empie servili trame; / Regina sempre; è trono a lei lo strame, / Su cui giacente ogni uom più forte avanza. / Tremar veggio ivi i pallidi custodi; / E tremare i carnefici, che il segno / Stanno aspettando dai tremanti Erodi. / Vedova, e Madre strazïata, pregno / Di morte il cor, del tuo morir tu godi, / Donna, il cui minor danno è il tolto Regno.»
In alcune parti l'autore sembra quasi aderire all'ideologia reazionaria o conservatrice di Edmund Burke in nome della controrivoluzione, ad esempio si veda l'epigramma XI, un attacco al filosofo Thomas Paine (appellato come sedizioso, plebeo e ignorante), che pure era un illuminista moderato che finì incarcerato per aver votato contro la pena di morte per il re.[9] Questi componimenti si riferiscono tutti al periodo compreso tra l'insurrezione di Parigi nel luglio 1789 e l'occupazione francese di Roma nel febbraio 1798.
È una feroce critica di Alfieri sulla Francia, sui francesi e sulla Rivoluzione, ma egli rivolge l'invettiva anche verso il quadro politico e sociale europeo, verso i molti tiranni antichi e recenti, che dominarono e continuavano a dominare l'Europa. Per l'Alfieri, «i francesi non possono essere liberi, ma potranno esserlo gli italiani», mitizzando così un'ipotetica Italia futura, «virtuosa, magnanima, libera ed una».[10] Alfieri è quindi un controrivoluzionario e un aristocratico (anche se la "nobiltà" non è per lui "di nascita", prova ne sia il disprezzo per la sua stessa classe sociale, ma quella dell'animo forte, dotato del "forte sentire") anche se non si può certo definire un vero reazionario, essendo un uomo che esaltava il valore della libertà individuale, che ritenne potesse essere preservata dalla nuova Italia che sarebbe nata.[11]
«Fantoccini son sempre i Galli stati:
Fantoccini eran dianzi incipriati;
Fantoccini or fetenti insanguinati.»
Riguardo al Misogallo e all'atteggiamento antifrancese di Alfieri, scrisse l'abate di Caluso (molto più conciliante verso Napoleone) nel 1804 nella lettera che chiude la Vita, attribuendo ciò non "giudizio di un freddo filosofo" in cui non "è mai l'odio di nazione alcuna" ma al fatto che Alfieri scrive "come un amante passionatissimo".[12]
Alfieri attacca poi anche la lingua francese:
«Insisto su questa unità dell'Italia, che la Natura ha sì ben comandata, dividendola con limiti pur tanto certi dal rimanente dell'Europa. Onde, per quanto si vadano aborrendo tra loro es. gr. i Genovesi e i Piemontesi, il dire tutti due Sì, li manifesta entrambi per Italiani, e condanna il lor odio. E ancorché il Genovese innestandovi il C ne faccia il bastardume Scì, non si interpreta con tutto ciò codesto Scì per Francesismo, che troppo sconcia affirmativa sarebbe; e malgrado il C di troppo, i Genovesi per Italiani si ammettono. E nello stesso modo, es. gr. i Savojardi e i Francesi, dicendo tutti e due Oui, sono, e meritano d'essere una stessa Nazione. E qui per occasione, noterò alla sfuggita, che l'Oui e il Sì non si son mai maritati.[13]»
L'autore include anche delle lettere inviate al governo francese per richiedere i propri libri indietro.
Alfieri e le ideologie rivoluzionarie
[modifica | modifica wikitesto]«Il mio nome è Vittorio Alfieri: il luogo dove io son nato, l'Italia: nessuna terra mi è Patria. L'arte mia son le Muse: la predominante passione, l'odio della tirannide; l'unico scopo d'ogni mio pensiero, parola, e scritto, il combatterla sempre, sotto qualunque o placido, o frenetico, o stupido aspetto ella si manifesti o si asconda.»
Alfieri fu contrario alla pubblicazione che fu fatta in Francia dei suoi trattati giovanili in cui esprimeva le sue idee anti-tiranniche in maniera decisa, lasciando trasparire anche un certo anticlericalismo, come il trattato Della tirannide; tuttavia, anche dopo la pubblicazione de Il Misogallo, non ci fu in lui un rinnegamento di queste posizioni, quanto la scelta del male minore, ovvero il sostegno verso chiunque si opponesse al governo rivoluzionario, che lo faceva inorridire per lo spargimento di sangue del regime del Terrore - sia contro nobili e antirivoluzionari, sia contro rivoluzionari non giacobini e per aver portato la guerra in Italia; secondo Mario Rapisardi[15] egli, che non era anti-riformista (purché il rinnovamento venisse dall'alto, dal legislatore, e non dalla pressione e dalla violenza popolare), aveva paura di essere confuso con i "demagoghi francesi", che incitavano la "plebe".
Così si espresse nel trattato sopracitato a proposito della religione cattolica, che egli giudica un mezzo di controllo sul popolo meno istruito (anche se, in fondo, dannoso anche per l'attitudine "da schiavo" che induce in esso), poco valido per un letterato o un filosofo: «Il Papa, la Inquisizione, il Purgatorio, la Confessione, il Matrimonio indissolubile per Sacramento e il Celibato dei preti, sono queste le sei anella della sacra catena» e «un popolo che rimane cattolico deve necessariamente, per via del Papa e della Inquisizione, divenire ignorantissimo, servissimo e stupidissimo».[16] La sua accusa alla Rivoluzione è quindi anti-tirannica da una parte e culturale dall'altra, non ritenendo che un culto astratto - come il cosiddetto culto della Ragione o quello dell'Essere supremo - fosse adatto a contenere, con insegnamenti morali, il popolo ignorante dell'epoca.[17] Inoltre, pur detestando parte dell'alto clero e della nobiltà, non approvava l'odio indiscriminato e gli assassini legalizzati con la ghigliottina di cittadini francesi colpevoli solo di essere di famiglia nobile o membri del basso e medio clero, o di aver espresso opinioni contrarie al governo rivoluzionario. In una lettera all'abate di Caluso del 1802, Alfieri ribadisce privatamente le sue tesi giovanili sull'Ancien Regime e sul papato (che quasi rinnegava invece pubblicamente, ne Il Misogallo e nelle Satire)[18]:
«Il motore di codesti libri fu l'impeto di gioventù, l'odio dell'oppressione, l'amore del vero o di quello che io credeva tale. Lo scopo fu la gloria di dire il vero, di dirlo con forza e novità, di dirlo credendo giovare. [...] Il raziocinio di codesti libri mi pare incatenato e dedotto, e quanto più v'ho pensato dopo, tanto più sempre mi è sembrato verace e fondato; e interrogato su tali punti tornerei sempre a dire lo stesso, ovvero tacerei. [...] In due parole, io approvo solennemente tutto quanto quasi è in quei libri; ma condanno senza misericordia chi li ha fatti e i libri medesimi, perché non c'era bisogno che ci fossero, e il danno può essere maggiore assai dell'utile.[19]»
La tesi di un Alfieri convertito deriva principalmente da alcune lettere del Caluso, da certi brani del Misogallo, dal sonetto 250 sul culto cattolico del 1795 ("Alto, devoto, místico ingegnoso; [...] Utile ai più, chi può chiamarla Errore? / Con leggi accorte, alcun suo mal si ammende") e dall'attacco a Voltaire nella satira L'antireligioneria, dove accusa i philosophes di aver empiamente dileggiato e superficializzato il cristianesimo e la religione in generale, avendo di fatto gettate le basi per i disastri della rivoluzione francese. Secondo Alfieri è molto pericoloso distruggere un sistema di pensiero religioso, senza prima averlo sostituito con uno nuovo e altrettanto capace di essere compreso dal popolo, verso cui l'autore non nutre alcuna fiducia, e funzionare da garante di ordine.[20] In realtà Alfieri, seppur apprezza alcuni aspetti del cristianesimo, dell'ebraismo e dell'islam rispetto al paganesimo e all'ateismo, afferma tuttavia implicitamente di non avere una fede personale ("Certo, in un Dio fatt'uom creder vorrei / A salvar l'uman genere, piuttosto / Che in Giove fatto un tauro a furti rei").[21] Si ricorda poi l'epigramma anticlericale del 1785 riportato nelle Rime: «Sia pace ai frati, / Purchè sfratati: / E pace ai preti, / Ma pochi e queti: / Cardinalume / Non tolga lume: / Il maggior prete / Torni alla rete: / Leggi, e non re: / L’Italia c'è».[22] Anche nel Misogallo si trovano versi sarcastici contro il papato.
Appello all'Italia
[modifica | modifica wikitesto]Il Misogallo si apre e si chiude con delle pagine ispirate ad un forte patriottismo italiano che trova secondo Alfieri una delle sue ragioni storiche e naturali proprio nel sentimento antifrancese.
«Gli odî di una nazione contro l'altra, essendo stati pur sempre, né altro potendo essere, che il necessario frutto dei danni vicendevolmente ricevuti, o temuti, non possono perciò esser mai, né ingiusti, né vili. Parte anzi preziosissima del paterno retaggio, questi odî soltanto hanno operato quei veri prodigî politici, che nelle Istorie poi tanto si ammirano. Né mi estenderò qui in prove tediose, ed inutili. Parlano l'esperienza, ed i fatti. Ammesso dunque quest'odio reciproco, quasi un tutelare Conservatore de' Popoli veramente diversi, e tanto più di quelli, che per estensione, e numero riescono minori, innegabil cosa ella fia, che in te, o Italia, l'odio contro i Francesi, sotto qualunque bastone, e maschera ti si affaccino essi, diviene la base fondamentale, ed unica, della tua, qual ch'ella sia, politica esistenza. Quindi finché, o un terremoto, o un diluvio, od una qualche cozzante cometa, non ti avranno trasmutata di forme, finché tu, stretto, e montuoso continente, tra due racchiusi mari penisoletta ti sporgerai, facendoti dell'Alpi corona; i tuoi confini dalla natura son fissi, ed una pur sempre (per quanto in piccoli bocconcini divisa, e suddivisa ti stii) una sola pur sempre esser dei d'opinione, nell'odiare, con implacabile abborrimento mortale quei barbari d'oltramonti, che ti hanno perpetuamente recato, e ti recano, i più spessi, e più sanguinosi danni. Ora questi per certo (ben altramente che i Tedeschi) sono stati sempre, e sono i Francesi, i quali tre volte per secolo, ridotti dai loro inetti, ed irreflessivi, e tirannici governi, dalla loro naturale miseria ridotti, e dagli eccedenti loro vizî, alla insociale necessità di andarsene a mano armata questuando, sopra i vicini Popoli poi si rovesciano per isfamarsi, e saldare per alcun tempo con l'altrui sangue le loro piaghe servili.»
«Giorno verrà, tornerà il giorno, in cui / Redivivi omai gl'Itali, staranno / In campo audaci, e non col ferro altrui / In vil difesa, ma dei Galli a danno. / Al forte fianco sproni ardenti dui, / Lor virtù prisca, ed i miei carmi, avranno: / Onde, in membrar ch’essi già fur, ch’io fui, / D'irresistibil fiamma avvamperanno. [...] / Gli odo già dirmi: O Vate nostro, in pravi / Secoli nato, eppur create hai queste / Sublimi età, che profetando andavi.»
Note
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«Laonde io addolorato profondamente, sì perché vedo continuamente la sacra e sublime causa della libertà in tal modo tradita, scambiata e posta in discredito da questi semifilosofi.»
«Accaduto quest’avvenimento, la rivolta della plebe di Parigi, io non indugiai piú neppure un giorno, e il mio primo ed unico pensiero essendo di togliere da ogni pericolo la mia donna, già dal dì 12 feci in fretta in fretta tutti i preparativi per la nostra partenza. Rimaneva la somma difficoltà dell'ottenere passaporti per uscir di Parigi, e del regno. [...] si disponeva ad aprirci il cancello di quell’immensa prigione, e lasciarci ire a buon viaggio. Ma v’era accanto alla Barriera una bettolaccia, di dove sbucarono fuori ad un tratto una trentina forse di manigoldi della plebe, scamisciati, ubriachi, e furiosi. [...] io balzai di carrozza fra quelle turbe, munito di tutti quei sette passaporti, ad altercare, e gridare, e schiamazzar piú di loro; mezzo col quale sempre si vien a capo dei francesi. [...] «Vedete, sentite; Alfieri è il mio nome; italiano e non francese; grande, magro, sbiancato; capelli rossi, son io quello, guardatemi; ho il passaporto; l’abbiamo avuto in regola da chi lo può dare; e vogliamo passare, e passeremo per Dio». Durò più di mezz’ora questa piazzata, mostrai buon contegno, e quello ci salvò. Si era frattanto ammassata piú gente intorno alle due carrozze, e molti gridavano: «Diamogli il fuoco a codesti legni». Altri: «Pigliamoli a sassate». Altri: «Questi fuggono; son dei nobili e ricchi, portiamoli indietro al Palazzo della Città, che se ne faccia giustizia». Ma insomma il debole aiuto delle quattro guardie nazionali, che tanto qualcosa diceano per noi, ed il mio molto schiamazzare, e con voce di banditore replicare e mostrare i passaporti, e piú di tutto la mezz’ora e piú di tempo, in cui quei scimiotigri si stancarono di contrastare, rallentò l’insistenza loro; e le guardie accennatomi di salire in carrozza, dove avea lasciato la signora, si può credere in quale stato, io rientratovi, rimontati i postiglioni a cavallo, si aprí il cancello, e di corsa si uscì, accompagnati da fischiate, insulti e maledizioni di codesta genìa. E buon per noi che non prevalse di essere ricondotti al Palazzo di Città, che arrivando cosí due carrozze in pompa stracariche, con la taccia di fuggitivi, in mezzo a quella plebaglia si rischiava molto; e saliti poi innanzi ai birbi della Municipalità, si era certi di non poter piú partire, d’andare anzi prigioni, dove se ci trovavano nelle carceri il dì 2 settembre, cioè quindici giorni dopo, ci era fatta la festa insieme con tanti altri galantuomini che crudelmente vi furono trucidati.»
- ^ Con l'eccezione di André Chénier e François-Xavier Fabre, Alfieri disse di non aver mai avuto amici francesi, affermando di non aver voluto «né trattare, né conoscere pur di vista nessuno di quei tanti facitori di falsa libertà, per cui mi sentiva la piú invincibile ripugnanza, e ne aveva il piú alto disprezzo [...] non avendo mai né visto, né udito, né parlato con qualunque di codesti schiavi dominanti francesi, né con nessuno dei loro schiavi serventi».
- ^ "Compie quest’oggi il second’anno appunto / che agli schiavi cannibali assassini / io lei sottrassi; e diemmi Apollo il punto. V.A." (dalla dedica a Luisa d'Albany scritta nel 1794 dietro il ritratto del 1793
- ^ "Haec dixit Dominus: Quia dimisisti Viros dignos morte de manu tua, erit anima tua pro anima eorum." (III Regum, XX, 42), nella traduzione di Alfieri "Dice il Signore: l'aver tu condonata la morte ad uomini che n'erano rei, e stavano nelle tue mani, fa sì, che la tua vita darai tu per la loro" (Primo Libro dei Re)
- ^ Misogallo, Prosa terza. Traduzione delle ultime parole pronunziate dal Re Luigi XVI, innanzi la convenzione nazionale il dì 11 dicembre 1792 (in realtà opera di Alfieri, il re non pronunciò una lunga autodifesa ma rispose alle domande).
- ^ Il Misogallo, PROSA QUINTA. 11 gennaio 1796. DIALOGO FRA L'OMBRE DI LUIGI XVI E DI ROBESPIERRE
- ^ "Una donzella forte, chiamata Carlotta Corday (che è stata il solo nostro Bruto) entrata nella ferma risoluzione di perder sé stessa per pure trucidar un tiranno, non si elesse perciò di trucidar me. [È Robespierre che parla con Luigi XVI] Costei, più assai di coraggio che non di senno fornita, uccise nel bagno un vile fazioso, che per infermità già stava morendosi, un mio lodatore, e detrattore a vicenda, che io non amava, né stimava, né temea; ma che pure, se non veniva scannato dalla nostra Bruta, l’avrei fatto uccider io, come torbido, e fastidioso".
- ^ Sonetto XXIV
- ^ Epigramma XI
- ^ V. Alfieri, Il Misogallo, parte I
- ^ Mario Rapisardi, L'ideale politico di Vittorio Alfieri
- ^
«...sembrando allora che nulla più fosse in grado di ostarvi che la potenza francese, contro ai Francesi abbandonossi a un odio politico, ch'ei credè poter giovar all'Italia, quanto più fosse reso universale. Voleva inoltre sceverarsi da quegl'infami, che mostratisi per la libertà come lui caldissimi, ne han fatto con le più abbominevoli scelleratezze detestare il partito. A chi meno ha passione egli è chiaro ch'ei non dovea così generalmente parlare senza distinzioni di buoni e rei; né ragionevole al giudizio di un freddo filosofo è mai l'odio di nazione alcuna. Ma si vuole Alfieri considerare come un amante passionatissimo, che non può esser giusto cogli avversari dell'idolo suo, come un italiano Demostene, che infiammate parole contrappone a forze maggiori assai dei Macedoni. Né perciò il discolpo; né mi abbisognava per mantenergli la dovuta lode di sommo. Bastami che non si nieghi convenevole indulgenza a trascorsi provenienti da eccesso di sì commendabile affetto qual si è l'amor della patria.»
- ^ Prosa prima, nota 3
- ^ V. Alfieri, Il Misogallo, parte I, documento I, pag. 17-18, edizione Classici a cura di G. Bonghi.
- ^ M. Rapisardi, La religione di Vittorio Alfieri.
- ^ V. Alfieri, Della tirannide, pag. 76 e seguenti
- ^ Satira L'antireligioneria, in cui critica Voltaire; in questo modo però si allinea anche posizioni pragmatiche espresse anche proprio dallo stesso contestatissimo Voltaire, nel Trattato sulla tolleranza: "La legge vigila sui crimini conosciuti, la religione su quelli segreti" (capitolo "Se sia utile mantenere il popolo nella superstizione), auspicando l'eliminazione dei dogmi, non della religione per il popolo; e posizioni simili saranno anche del democratico Giuseppe Mazzini o di Ugo Foscolo, secondo cui, come scrive amareggiato nello Jacopo Ortis, il "volgo" richiede spesso "pane, prete e patibolo".
- ^ M. Rapisardi, ibidem
- ^ Lettera all'abate di Caluso del gennaio 1802
- ^ Mario Rapisardi, La religione di Vittorio Alfieri.
- ^ V. Alfieri, Satire, "L'antireligioneria"
- ^ Rime 196
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