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L'uomo è antiquato è un opera scritta dal filosofo e scrittore tedesco Günther Anders, pseudonimo di Günther Stern (Breslavia, 12 luglio 1902Vienna, 17 dicembre 1992) suddivisa in due volumi.

Pubblicazione dei due volumi[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1956 esce il primo volume de L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale (Beck, München; trad.tedesca. Die Antiquiertheit des Menschen Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen revolution).

Il secondo volume esce nel 1981: "L'uomo è antiquato, sulla distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale" .


Tematiche dell'opera[modifica | modifica wikitesto]

- Rapporto fra uomo e tecnologia (intesa anche come téchne dal greco τέχνη).

- La Vergogna prometeica e la metamorfosi dell'anima nell'epoca della seconda rivoluzione industriale.

- Il mondo come fantasma e matrice.

- Della bomba e delle radici della nostra cecità dell'apocalisse

- Il tempo e lo spazio in relazione allo sviluppo tecnologico e le modificazione dei nostri apparati cognitivi in relazione alla tecnologia.

La vergogna prometeica[modifica | modifica wikitesto]

Per Anders la vergogna prometeica è questo sentimento,“che non esisteva in passato”, descritto come: “Vergogna che si prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi”.[1] La nozione di vergogna rappresenta quel “senso di frustrazione dell’homo faber di fronte ai suoi prodotti” .

Nelle prime pagine dell’opera troviamo un personaggio chiamato T. che si sente a disagio di fronte alla superiorità e alla perfezione dei macchinari che ha davanti. Anders si esprime al riguardo indicando la vergogna degli uomini di essere nati, dell’aver avuto un’ origine e di non essere stati fabbricati “a differenza dei prodotti perfetti e calcolati fino all’ultimo particolare”. La vergogna prometeica dunque è la tonalità emotiva che caratterizza l’uomo nel mondo della tecnica in una situazione di sottomissione.

“L’uomo preferisce la cosa fatta al fattore” e le attribuisce il rango superiore nell’ essere”, idea che il filosofo mutua anche da Kafka.

All’obiezione secondo la quale non sia veritiero provare vergogna di fronte alle macchine perché queste sono prodotte dall’uomo e quindi dovrebbero essere motivo di orgoglio, Anders risponde che la maggior parte di “noi” non partecipa alla loro creazione, progettazione e che quindi non può esserci identificazione. Parlare di sovranità prometeica non sarebbe coerente in quanto “il mondo delle macchine” non è degli uomini; la caratteristica fondamentale dei prodotti è quella di “esserci” in primo luogo in quanto merci, necessarie, desiderabili, superflue e che appartengono a noi solamente dopo essere state comperate.

La vergogna, inoltre, non si vede; essa sorge nel commercio tra uomo e oggetto. Non si tratta però di Reificazione: l’uomo non si vergogna di essere ridotto a cosa, bensì di non essere perfetto come la cosa. In un mondo in cui i prodotti evolvono continuamente raggiungendo sempre nuovi livelli di perfezione, il corpo dell’uomo è sostanzialmente quello dei suoi avi, refrattario al cambiamento, ottuso dal punto di vista delle macchine, antiquato. L’essere umano desidera possedere le caratteristiche che conferiscono perfezione ai prodotti come utilizzabilità, fungibilità, serialità. Per compensare questa carenza fra prodotto perfetto e uomo imperfetto siamo ricorsi allo Human Engineer, ovvero il tentativo di autometamorfosi del corpo umano per conoscere e correggere i nostri difetti naturali rispetto agli apparecchi che utilizziamo. L’uomo tenta di “rifondere i modelli sbagliati, di ricavarne retrospettivamente del materiale e di riuscire a dare ora a questo materiale la forma di volta in volta richiesta”. Il motivo principale della vergogna prometeica è proprio questo suo “essere modellato erroneamente”. Il confronto con gli strumenti e le apparecchiature che noi abbiamo creato è causa di “autolimitazione, anzi di autoumiliazione”.

Un fattore determinante dell’inferiorità dell’uomo rispetto alle macchine è la longevità. Infatti le macchine, i prodotti e le strumentazioni da noi utilizzate possono sopravvivere attraverso le idee: “Questo platonismo industriale, questa immortalità per mezzo della reincarnazione non è un merito dei prodotti; non c’è bisogno di spendere parole sul fatto che  essi devono a noi questa virtù”.[2]

L’esistenza in serie dei prodotti è ciò che caratterizza questa immortalità, la possibilità costante di riprodurre gli oggetti migliorandone sempre le funzioni e le prestazioni. Questo è ciò che richiede l’industria e la merce stessa.


[1] Günther Anders, L’uomo è antiquato. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, (1956), Bollati Boringhieri, p. 57.

[2] Ivi, p. 83.

Il mondo come fantasma e come matrice[modifica | modifica wikitesto]

Quando si parla di Anders si usano spesso parole come radicalismo, esasperazione, esagerazione ecc. Come se ci si trovasse di fronte a una lettura forzata della realtà. E’ così ma è altrettanto vero che il filosofo tedesco utilizza il metodo dell’esagerazione per “vedere”: “con esagerazione deve intendersi non ciò che si pensa comunemente quando si impiega questo termine, bensì una metodica finalizzata a far sì che i fenomeni appaiano mediante una loro deformazione”.[1] Oggetti che sfuggono a una individuazione precisa, invisibili a occhio nudo e che per tale ragione pongono dinanzi all’alternativa fra “esagerarli o rinunciare a conoscerli”. Le sue divagazioni occasionali consistono nel tendere il capo che lega un fenomeno particolare a un concetto generale affinché entrino in contatto, come attesta l’interpolazione tra estetica e televisione. A plasmarci non sono solo le macchine e i prodotti, ma sopratutto i mezzi di comunicazione: radio e televisione che, con la loro funzione determinata, definiscono anche il nostro stile di vita. Non si può scegliere se farne un uso buono o cattivo ma, nella loro totalità, nell’essere rivolti a tutti, essi riescono a oscurare la distinzione fra mezzo e fine.

La televisione porta a casa il mondo esterno e “quando il lontano si avvicina troppo”  vi è un impoverimento della realtà, non solo quella familiare, anche la realtà esterna. “Quando il fantasma diventa reale, il reale diventa fantasma”.[2] Il rapporto uomo mondo diventa unilaterale. Un altro effetto indotto dai media è quello per cui “gli apparecchi, che parlano in vece nostra, ci tolgono anche la parola” privandoci della nostra facoltà di esprimerci. Tutta questa “materia” che viene a noi ci immobilizza, ci rende statici e meno dinamici, dei “consumatori”, producendo l’eremita di massa. Il mondo si presenta attraverso le immagini  in modo presente e allo stesso tempo assente; possiamo accendere la televisione in qualsiasi momento, con questa non governiamo il mondo, ma possiamo farlo apparire e sparire; non siamo noi a rivolgerci al mondo, è lui che si rivolge a noi. Il fatto che un evento spazialmente distante da noi possa essere costantemente presso di noi ne modifica la natura. La distinzione fra essere e apparire risulta annullata nel momento in cui un’immagine “acquista maggiore importanza sociale nella sua forma riprodotta”; l’idea di mondo perde la sua importanza e “l’atteggiamento dell’uomo diventa "Idealistico”, ovvero diventa una “rappresentazione per me”. “Perché idealistico nella più ampia accezione, è ogni atteggiamento che trasforma il mondo in qualcosa di mio, di nostro, in qualche cosa disponibile, insomma in un possessivo”.[3]

Un concetto che nell'argomentare andersiano entra in gioco è quello di familiarizzazione: tutto diventa disponibile che sia lontano o vicino; “ogni preferenza porta in sé l’odiosità del privilegio” e con ciò è già presupposto “un cosmo strutturalmente democratico” che ha come effetto la neutralizzazione.

La familiarizzazione è la base di quella che Anders chiamerà alienazione mascherata; nel senso che gli uomini non si accorgono del loro estraniamento nei confronti della realtà che diviene sempre più uno spectaculum. Tutto quello che è causa di questo fenomeno arriva in modo seducente e attraente nella propria dimora, entra delicatamente nella sfera privata e, nel momento in cui se ne diventa dipendenti, il gioco è fatto. Rifornimento costante. Di fronte al rischio dell’estraneità prima e della superfluità poi degli individui rispetto al mondo, compito decisivo è quello di sentire compiutamente per resistere all’obsolescenza, all’astoricità, alla perdita del tempo, conseguenze sempre più evidenti degli assiomi tecnocratici. Quando ci si abitua a ricevere notizie di eventi tremendi, violenti tramite un televisore viene modificata la nostra percezione dell’ostilità e delle azioni proprie e degli altri. Oggi sono cambiate svariate cose rispetto ai tempi in cui scriveva il filosofo tedesco; è possibile avere sempre con sé, sempre, un telefono, un i-pad, un computer o una console e essere a contatto con questi invece che con la realtà che ci circonda. Come quasi tutte le attività dipende dall’utilizzo che ne facciamo. Per esempio rispetto alla televisione: abbiamo una scelta immensa di programmi, dalla “spazzatura” ai programmi più interessanti come dei dei buoni film o dei documentari che possono avere una funzione positiva nella vita dell’individuo. Nel momento in cui quest’attività diventa troppo frequente, sopratutto in gioventù, può avere un effetto catartico in modo negativo, nel senso che diventa una sorta di sedativo ricercato per non affrontare il mondo reale là fuori, infatti “non c’è nulla che soddisfi tanto appieno questa sete di onnipresenza e di rapido cambiamento quanto la radio e la televisione”. Gli apparecchi offrono molteplici emozioni senza che ci si debba muovere di un passo e, alla fin fine, insomma: “E’ impossibile resistere a una tentazione così multiforme”. Sono tesi particolarmente radicali, è evidente, eppure ad oggi, la facilità con cui è possibile vedere porzioni di mondo distanti chilometri dalla nostra posizione spaziale, il poter contattare la maggior parte delle persone in qualunque punto del globo si trovino produce una sicurezza, una sorta di onnipotenza illusoria che ci distacca dalla realtà, oltre alla possibile perdita di curiosità nei confronti del mondo; il tutto è reso fattibile, chiaramente, dai nostri strumenti tecnologici. L’essere sottoposto a un numero elevato di stimoli provoca negli individui quella che Anders chiama “schizofrenia artificiale”, cioè: “Quello stato dell’Io, in cui esso è scisso in due o più esseri parziali; in esseri o funzioni che non soltanto non sono coordinati, ma non sono nemmeno coordinabili”.[4] L’esempio che ci porta il filosofo è quello dell’uomo che nel suo tempo libero si dedica a più occupazioni contemporaneamente come prendere il sole mentre ascolta la musica e legge il giornale, masticando una gomma. “In breve per essere inaccessibile al nulla ogni organo deve essere occupato”, perché non vuole essere “esposto al vuoto” temendo la libertà. C’è quindi un rapporto fra libertà e privazione in senso negativo; essere libero significa non consumare, non fare nulla e quindi essere privato di qualcosa. Dunque il “mondo” che viene costruito mediante le trasmissioni e che ci viene comunicato è un “modello induttore”, a cui ci dobbiamo adeguare, con l’aiuto del quale dobbiamo imparare determinati modelli di comportamento. Lo scopo delle trasmissioni, della pubblicità e di tutto ciò da cui siamo bombardati è quello di rifornirci costantemente di modelli, di sentimenti, di emozioni e di atteggiamenti che vanno a foggiare la nostra volontà e quindi, come conseguenza, anche il nostro gusto e le nostre ambizioni perché “guardando il modello, il consumatore crede di vedere il mondo stesso”. L’effetto che ha sulla nostra psiche è quello di creare degli “schemi fissi”, o moduli fissi, che sono “forme a priori determinanti” che ci guidano nel modo di comportarci e operare, “dunque Matrici” produttive. Non sono forme a priori determinanti in senso kantiano, “infatti non si possono immaginare caratteri che siano meno innati di questi”, ma ciò nonostante sono “a priori, in quanto preesistono come stampi di fusione, ossia come condizioni, all’apprendimento, al sentimento e al comportamento e li condizionano”.[5]

Le matrici sono presentate come “mondo” e come “oggetto”, perciò come fantasmi della realtà, che sono “forme che si presentano come oggetti”. Viene così scoperta “un’ambiguità Ontologica” delle trasmissioni che rappresenta “un’ambiguità morale”, ovvero un inganno. Gli stessi avvenimenti per Anders, “trasformati in fantasmi”, non sono che merci. Tutte le merci in quanto sono esposte e si offrono - e solo in quanto offerta sono merci -, sono di per sé un giudizio su se stesse. Uno dei compiti fondamentali della produzione odierna non è soltanto la standardizzazionedei prodotti, ma anche quella dei bisogni (“assetati di prodotti standardizzati”). “Impara ad avere bisogno di ciò che ti viene offerto” è questa una delle massime del nostro tempo. “Non si finisce con avere ciò di cui si sente il bisogno, ma si finisce con sentire il bisogno di ciò che si ha”.[6]  Vi è una concatenazione nel consumo dei bisogni e nel crearne di nuovi, il che implica un rapporto continuo fra il consumatore (che diventa “uomo di massa” o “eremita di massa”) e la produzione.


[1] Natascia Mattucci, Tecnocrazia e analfabetismo emotivo, Mimesis, Milano, 2018, p. 39.

[2]  Günther Anders, L’uomo è antiquato. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, (1956), Bollati Boringhieri, p. 128.

[3] Ivi, p. 135                   

[4] Ivi, p. 157.

[5] Ivi, p. 187.

[6] Ivi, p. 193


Della bomba e delle radici della nostra cecità del'apocalisse[modifica | modifica wikitesto]

“L’onnipotenza che da tempo avevamo agognato, con animo prometeico, l’abbiamo realmente acquistata, seppure in forma diversa da quella sperata. Dato che possediamo la forza di apprestarci vicendevolmente la fine, siamo i Signori dell’Apocalisse. L’infinito siamo noi”.[1]

La creazione della bomba atomica ci ha dato la possibilità di annientare non solamente gli uomini, ma il genere umano. Una delle categorie a cui ricorriamo quando si pensa alla bomba è quella “mezzo-fine”. 

Eppure per quest’oggetto non è più possibile parlare di mezzo per un fine perché “è troppo grande in assoluto” nel senso che troppi sono gli effetti collaterali che provocherebbe e non sarebbe più possibile parlare di uno scopo, di qualunque natura esso sia. “Effectus trascendit finem”; il suo effetto sarebbe maggiore di qualunque altro scopo.

L’onnipotenza della bomba ha un effetto analgesico che priva le vittime dei sentimenti, come il dolore, che consentirebbero di avvertire perdite e mancanze.

Noi non siamo in grado di concepire gli effetti di un tale strumento e qui entra in gioco il concetto di dislivello prometeico con il quale si intende un divario, una differenza che esiste fra le nostre facoltà (“come fare, pensare, immaginare, sentire, assumere responsabilità”)[2] e i nostri prodotti: nel senso che la nostra coscienza non è in grado di adattarsi e il volume della nostra anima fatica a stare al passo con ciò che la tecnica ha creato. «Prometeica» chiamo quella differenza che si manifesta quale dislivello fondamentale; cioè quel dislivello che sussiste fra la nostra «prestazione prometeica», fra i prodotti fabbricati da noi, «figli di Prometeo» e tutte le altre prestazioni; il fatto che non siamo all'altezza del «Prometeo che è in noi.»  L’uomo andersiano perde il controllo delle sue facoltà che vede sempre più divaricate le une dalle altre, sopratutto percepisce uno scarto progressivo tra il suo fare e il suo sentire, tra la sua capacità produttiva e la sua capacità immaginativa.

Un esempio che riporta è quello di un aviatore rientrato da un’operazione di bombardamento: “Non potevo in nessun modo togliermi dalla testa il pensiero dei 175 dollari che mi restano da pagare per il frigorifero”.[3] La sua mente era altrove, non riusciva ad associare il suo pensiero con quello che stava per provocare.

“Tanto dissociate sono oggi l’azione e la coscienza; tanto differenti i loro oggetti”.[4] Questa scissione fra azione e passioni, anche topografica, è una condizione oggettiva della scissione psichica che fa venir meno i “nessi causali”.

Anders cita Kant il quale “ci ha insegnato che la nostra ragione è limitata”, come anche la nostra capacità percettiva.

“Ciò che ci dovrebbe mettere in agitazione oggi non è, a ogni modo, il fatto che non siamo onnipotenti e onniscienti; ma al contrario che, al paragone di ciò che sappiamo e che possiamo produrre , possiamo immaginare e sentire troppo poco. Che, nel sentire, siamo inferiori a noi stessi.”[5]

Il punto che Anders vuole palesare è l’incapacità del genere umano di comprendere, immaginare e sentire l’apocalisse, quello che oggi possiamo fare con le strumentazioni nucleari o con l'inquinamento globale: “All’idea dell’apocalisse l’anima rimane inerte. L’idea resta una parola”.[6]

Quest’incapacità si rapporta direttamente al dislivello, fra le nostre azioni e le nostre idee “le prime hanno modificato i loro limiti più velocemente rispetto alle altre facoltà”.

La nostra capacità di provare angoscia per la possibile “fine del mondo” è limitata e l’elasticità umana non è estendibile ad libitum, almeno non quella chiamata a afferrare i cambiamenti tecnici esorbitanti attraverso fantasia, emozione e responsabilità.

Nel secondo volume de “L’uomo è antiquato” darà una nuova definizione al dislivello prometeico: “Un dislivello tra quello che produciamo e quello che possiamo usare. Ansiosamente noi cerchiamo delle raison d’être per questi prodotti, disperatamente andiamo a caccia di domande che potrebbero dare una legittimazione supplementare alle risposte che abbiamo già; e instancabilmente produciamo, per soddisfare questo nuovo compito (cioè per trovare nuovi compiti), nuovi prodotti”.[7]

Avremmo dunque un “compito morale” afferma il filosofo: quello di adattare la nostra facoltà immaginativa a ciò che produciamo, cioè “il tentativo di vincere il dislivello”, portando le nostre facoltà sensitive al livello di quelle produttive, quindi cercando di aumentare la proportio humana e di superare questa “trascendenza immanente”. Vi è un altro fattore poi di cui tener conto: “Né imperi e rivoluzioni, né religioni e filosofie sono riusciti a compiere” ciò che ha apportato la tecnologia degli armamenti: la bomba ci ha reso un’unica umanità e conseguentemente una specie a rischio di estinzione.

L’artificialità è diventata la nostra natura, l’uomo si è abituato a questo “mondo a posteriori” e ha dimenticato il “mondo a priori”, il mondo naturale con la sua crudezza e la sua bellezza; egli, anzi, si scopre privo del suo mondo originario mentre viene allo stesso tempo catapultato in un secondo mondo, artificiale, da lui stesso forgiato e modellato, ma sempre più “sensibilmente soprasensibile”. Scrive Portinaro rispetto al dislivello prometeico: “Esso non è la conseguenza di un’originaria discrepanza delle facoltà umane, bensì il risultato di una rivoluzione storica, di quel salto di qualità nello sviluppo della tecnologia che ha portato all’automazione dei processi produttivi e allo scatenamento delle potenzialità distruttive dei mezzi di dominio e sfruttamento della natura”.[8]



[1]  Günther Anders, L’uomo è antiquato. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, (1956), Bollati Boringhieri, p. 251.

[2] Ivi, p. 277.

[3] Ivi, p. 278.

[4] Ivi, p. 278.

[5] Ivi, p. 279.

[6] Ivi, p. 278.

[7] Günther Anders, L’uomo è antiquato. II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, (1980)  Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 12.

[8] P. P. Portinaro, Il Principio Disperazione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 61.


Il tempo e lo spazio in relazione allo sviluppo tecnologico e le modificazione dei nostri apparati cognitivi in relazione alla tecnologia.[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1972 il filosofo inizia  una riflessione sulla percezione di spazio e tempo in relazione alla tecnica. La riduzione del tempo e della sua distanza mostrava allora i suoi  meccanismi nelle forme della radio e della televisione. Già allora Anders, osservando quelle  forme di tecnologia, fu capace di cogliere, al di là dell’apparenza, diverse significazioni del loro utilizzo. A tal proposito scrive: “Noi inventiamo e utilizziamo i nostri apparecchi allo scopo di accorciare o annullare, con la loro mediazione , ogni distanza, di ridurre o rimuovere quegli impedimenti che si frappongono tra bisogno e e soddisfazione del bisogno. Il tentativo di mediazione della tecnica sta nel rendere superflua la mediazione. Tale obiettivo è noto sotto il nome di comfort”.[1] Se pensiamo allo sviluppo che c’è stato oggi proprio rispetto al comfort, capiamo quanto erano fondate le sue considerazioni quando diceva che era come se volessimo “ripristinare l’immediatezza che abbiamo perduto con la cacciata dal giardino dell’Eden” e così “riconquistare la condizione paradisiaca.” Quello che intercorre fra l’azione da  compiere e l’obbiettivo da raggiungere costa fatica ed “è considerato uno spreco”. Il tempo e lo spazio sono diventati dunque un intralcio per la realizzazione dei bisogni e dei desideri (da qui l’equazione Tempo=Lentezza), e appaiono come impedimenti se vengono misurati con il metro della Cuccagna. “Dato che occupano tutto il posto disponibile tra avidità e soddisfazione, tra arrivo e partenza, tra esigenza e appagamento, dato che rendono necessari dei percorsi, essi ci sono di ostacolo (cioè sono di ostacolo alla nostra voglia di Cuccagna, d’immediata conquista dei desiderata). Non sono principium individuationis bensì, dato che separano la realizzazione dall’intenzione, principia divisionis.”[2]

Questa prassi è ancora più palese e sensibile oggi rispetto al momento in cui scriveva l’autore. Tutto ciò che abbiamo creato a livello tecnologico ci permette di comunicare con una sensibilmente minore limitazione spazio-temporale,  dandoci così una visione del mondo del tutto differente. Istruttivo in tal senso è  il racconto che il filosofo avvia a seguito di un viaggio in aereo con un individuo che chiama “il Giobbe dei nostri giorni”[3]. Un uomo che rappresenta “una parte di tutti noi”. L’uomo si lamenta per tutto lo spazio “non civilizzato” affermando “eppure non è niente! Niente di niente! Ma quanto deve essere vasto! E deve stare lì in mezzo! Nient’altro che aria e acqua! Ma a che cosa deve servire?"  E continua: “Il tempo, nient’altro che un perdita di tempo” come se esso rappresentasse un “sabotaggio degli affari”. I suoi ragionamenti simboleggiano una delle “massime segrete” dell'epoca;  appunto la nostra lotta contro spazio e tempo. “L’abolizione del tempo è il sogno del nostro tempo. La società senza tempo (invece che senza classi) è la speranza del domani”.[4] Il tempo non è più forma dell’intuizione e neppure forma della rappresentazione, bensì forma della persecuzione. Anche la sicurezza dunque annulla il tempo, l’ozio diventa qualcosa di terribile, l’ ingordigia d’immediatezza è qualcosa di veramente contemporaneo. Uno dei momenti in cui questa situazione si realizza è il sonno, “durante il quale tentiamo di isolarci da ogni pericolo; e durante il quale, almeno fino a quando non si introduce in esso alcun timore, anche il tempo ristagna”.[5] Ciò che oggi riconosciamo come degno di  valore (“worldwhile,  cioè degno di attenzione”) è per lo più ciò che ha valore per qualcosa: dunque, esclusivamente il mezzo.

L’equazione tempo=lentezza diventa più concreta e tangibile ogni giorno. Il lavoro, il materiale e l’energia che l’uomo impiega  per creare ciò che ci semplifica la vita a livello spazio-temporale ne sono la prova.

Ecco come la tecnica e i suoi prodotti hanno modificato le nostre categorie  alterando la percezione di spazio e tempo. Le immagini e i suoni sono diventati trasmissibili; grazie agli apparecchi che abbiamo creato è infatti possibile “condividere” immagini e suoni senza che tali percorsi richiedano tempo; “l’uomo resta dietro a se stesso, perlomeno dietro alle immagini di se stesso” perché “lui stesso non è ancora diventato trasmissibile. Noi stessi restiamo esseri antiquati, non adeguati al livello della nostra tecnica e dovremo sempre, come i nostri avi, pagare un prezzo di tempo per raggiungere un altro punto dello spazio”,[6] non essendo ancora possibile il “teletrasporto”. La realtà stessa del tempo equivale a lentezza e la nostra lentezza a qualcosa di vergognoso; non desideriamo o godiamo più del lavoro che ci permette di cogliere i “frutti” bensì vogliamo direttamente il raccolto.

Questa diminuzione dell’azione nel mondo causa problemi in relazione al tempo libero che viene rappresentato da un' “Idra ” in quanto cresce in modo illimitato, un tempo “fermo”  in cui cerchiamo di colmare il vuoto e trovare un senso tramite attività che vanno svolte il più velocemente possibile perché “la nostra stessa fuga soffre ancora dei difetti a cui tentiamo di fuggire”. Il lavoratore, durante il tempo libero, deve orientarsi sull’unità della produzione; l’industria mette in pratica lo schematismo come primo servizio al cliente [...] Per il consumatore non rimane più nulla da classificare che non sia già stato anticipato nello schematismo della produzione.[7]

“In breve nasce un pointillisme del vivere, un’esistenza in cui viene a mancare ogni continuità, perché composta di manifestazioni che rinascono a ogni momento e non durano più di un attimo”.[8] Spazio e tempo vengono a tal proposito definite “due forme dell’esperienza ovvero dell’impedimento” nel senso che se facciamo una distinzione fra oggetto desiderato e atto da compiere per raggiungerlo le due forme sono interpretate come impedimento. Per chiarire Anders propone  un esempio: un predatore che deve nutrirsi. L’oggetto è rappresentato dalla preda ambita e l’atto dal nutrirsene; l’esistenza della preda è intesa come assenza spaziale mentre l’atto è assente in senso temporale. “Da ciò si arriva alla conclusione che spazio e tempo non sono dunque due forme parallele, ma modalità dell’assenza del tutto diverse”.[9] Nel senso che la preda esiste ma non si trova “qui” a livello spaziale perché deve essere trovata, mentre il potersene nutrire, che rappresenta l’atto, non è presente “ora” sempre perché deve essere catturata. Vengono considerate due forme dell’impedimento perché ostacolano il soddisfacimento immediato dei desideri. “Esiste indubbiamente un momento nel quale la differenza spazio tempo è abolita, questo hic et nunc diventa il presente, nel quale l’oggetto non è più assente dato che appunto è vuoto, dunque è presente”.[10] Questo non voler faticare per raggiungere uno scopo viene rappresentato attraverso la metafora de “L’apprendista stregone”. Un “Famulus” riesce a recuperare la formula del suo maestro e, inebriato dalla scoperta e dalla fama di potere, ordina ad un utensile di riempire la vasca da bagno per liberarsi del suo compito. Lo strumento agisce bene, “terribilmente bene”, ma non è “abbastanza autonomo da rinunciare alla sua autonomia”. Continua ad eseguire l’ordine con la possibilità di causare ingenti danni e l’apprendista stregone non conosce formule per fermare ciò che ha creato.

Questo è il “nostro rapporto con l’odierno mondo tecnicizzato”.

Gli apparati, come le grandi centrali elettriche, i missili atomici, gli apparecchi spaziali e i grandi impianti industriali, sono diventati “il nostro mondo quotidiano”, centinaia di migliaia di persone vivono grazie all’esistenza e all’autonomia di queste macro produzioni; “l’economia di interi continenti crollerebbe” se la fabbricazione fosse interrotta. 

Essere apprendisti stregoni significa: “Non sapere quello che si fa; non sapere che produrre significa agire; e non immaginarsi o non temere, o non sapersi pentire in un secondo tempo, per ciò che si potrebbe provocare tramite ciò che si produce”.[11] E’ nella possibilità di mettere in campo una resistenza e una distanza dal mondo, nell’istituire un divario tra desiderio e appagamento, nell’attraversare un percorso per arrivare a un determinato obiettivo con dedizione e pazienza, che si dimostra l’effettiva libertà che è ancora concessa all’uomo. La  strada è quella praticata da chi agisce perché mediante la volontà può trasformare il mondo. Sebbene non abbia un posto assegnato, costui cerca di guadagnarsi un’identificazione effettiva attraverso un compito nei confronti della realtà e la sua proposizione è “ciò che volevo lo voglio” e il suo sguardo, non più autocentrato o rivolto al passato, si allarga al mondo. Una definizione continua di ciò che si è la si può offrire solo agendo.

La ricerca che Anders ha svolto nel corso della sua vita è stata definita da lui stesso una “filosofia d’occasione”. L’attitudine filosofica, ancora una volta, non riguarda il mero sapere di sé ma la volontà di modificare il corso delle cose e fare dell’occasione il punto di partenza per una divagazione che racchiuda un messaggio. Gli oggetti che toccano le sue riflessioni sono empirici, ma non nel senso classico del termine. Le sue tesi, “almeno finora”, sono interpretazioni nei confronti del mondo basate su evidenze e intuizioni: “dall’autoaccumulazione delle macchine all’abolizione di spazio e tempo”.[12] L’interpretare è “necessario” perché ciò che richiede di essere interpretato “non sta apertamente alla luce del sole”. Come affermava Heidegger: “L’ente si nasconde e la verità significa non essere nascosto”. “Non basta scoprire ciò che è nascosto, è altrettanto necessario scoprire il fatto stesso del nascondimento” afferma Anders.[13] Qualunque prodotto umano ha una storia e se vogliamo “comprendere bisogna risalire alla sua origine” e da ciò sarà possibile scoprire l’ente, “perlomeno parzialmente”. L’atto interpretativo è un modo per capire il significato che un certo soggetto ha dato inizialmente a un prodotto.

Il mondo dei prodotti in generale è espressione, un'espressione priva di espressione nella maggior parte dei casi. Gran parte dei nostri prodotti, “a cominciare dalle macchine e dagli apparecchi non hanno più un aspetto proprio”, e la loro funzione, lo scopo per cui esistono, resta invisibile.

Basti pensare ai Recipienti di gas Zyklon B, con il cui contenuto sono stati assassinate milioni di persone. Essi “somigliavano a barattoli di marmellata”; e non sarebbe neanche possibile dare un aspetto più conforme alla loro funzione.

Oggi siamo noi i plasmati, noi diventiamo le “copie” degli oggetti, la loro “espressione”.               

Nelle pagine finali dell’opera andersiana c’è un’ esortazione rivolta agli uomini: “Interpretare è diventato il compito morale di tutti noi”.[14]

Interpretare il mondo degli apparecchi perché possano rivelarci quello che sarà “il mondo di domani” e tentare, “finché non ne sarà provata l’impossibilità”, di pronosticare gli effetti che hanno e che avranno sulla nostra vita.



[1] Günther Anders, L’uomo è antiquato. II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, (1980)  Bollati Boringhieri, Torino 1992 , p. 313.

[2] Ivi, p. 314.

[3] Ivi, p. 315.

[4] Ivi, p. 317.

[5] Ivi, p. 321.

[6] Ivi, p. 323.

[7] M. Horkheimer, T.W. Adorno, tr.it. di R. Solmi, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 2010, p. 131.

[8] Günther Anders, L’uomo è antiquato. II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, (1980)  Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 325.

[9] Ivi, p. 328.

[10] Ivi, p. 329.

[11] Ivi, p. 382.

[12] Ivi, p. 390.

[13] Ivi, p. 392.

[14] Günther Anders, L’uomo è antiquato. II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, (1980)  Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 399.


Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

- Günther Anders, L’uomo è antiquato. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, (1956), Bollati Boringhieri.

- Günther Anders, L’uomo è antiquato. II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, (1980)  Bollati Boringhieri, Torino 1992.

- Pier Paolo Portinaro, Il principio  disperazione. Tre studi su Günther Anders, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.

- Natascia Matucci, Tecnocrazia e analfabetismo emotivo, Sul pensiero di Günter Anders, Mimesis, Milano, 2018.

- M. Horkheimer, T.W. Adorno, tr.it. di R. Solmi, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 2010.