Discussione:Storia economica dell'Italia preunitaria

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
Questa voce rientra tra gli argomenti trattati dai progetti tematici sottoindicati.
Puoi consultare le discussioni in corso, aprirne una nuova o segnalarne una avviata qui.
Economia
Storia
ncNessuna informazione sull'accuratezza dei contenuti. (che significa?)
ncNessuna informazione sulla scrittura. (che significa?)
ncNessuna informazione sulla presenza di fonti. (che significa?)
ncNessuna informazione sulla presenza di immagini o altri supporti grafici. (che significa?)
In data 30 ottobre 2022 la voce Storia economica dell'Italia preunitaria è stata sottoposta a un vaglio.
Consulta la pagina della discussione per eventuali pareri e suggerimenti.

Recente ampliamento voce[modifica wikitesto]

@Fedecstp ottimo lavoro l'ampliamento, la voce era in effetti ancora limitata. Permettimi qualche osservazioni sul testo che hai introdotto, al fine di consolidare il lavoro:

Questioni generali:@

  • La sintassi ha qualche problema - revisione necessaria
  • Vedo forse qualche aggettivo che potrebbe essere eliminato per stile di sobrietà e fattualità coerente con la scrittura enciclopedica.
  • fonte: Oliva non mi sembra uno storico economico e in effetti a me sembra che usare questa fonte introduca molte connotazioni di storia politica, se non addirittura " a tesi". E' utile a mio avviso ampliare la trattazione di certe fasi storiche e anche del meridione, ma la voce dovrebbe evitare di cadere nel trito revanchismo meridionalista e concentrarsi sui fatti economici o di politiche economiche. Vedi esempi sotto.
  • Lo stesso vale per Harold Acton.
  • molte nuove fonti nelle note hanno bisogno di precisazione e formattazione.

Basso medioevo:

  • potresti confermare le fonti del lungo testo aggiunto a questa sezione? e quella nel paragrafo finale?
  • "gli svegli"?
  • "Stato moderno e fortemente centralizzato dalle pretese dei baroni" cosa vuol dire e che rilevanza ha per una storia economica?
  • " era cresciuta in modo estremamente veloce e non avendo a disposizione le tecnologie per sfamare tutta la popolazione e finendo la terra arabile" - la fonte di questo?
  • la sezione ha ora una certa confusione cronologica che andrebbe rivista

Crisi del 1600

  • "L'aumento della popolazione senza uno sviluppo economico adeguato portò una serie di carestie che debilitarono la popolazione.Gli storici hanno proposto che a seguito delle diverse carestie la popolazione fu più suscettibile alle epidemie di peste" - fonte di questo testo?
  • Hai cancellato questo para: "La stagnazione avviò una frantumazione delle relazioni economiche nell'area italiana, e una crescente divergenza tra nord e sud: il declino commerciale del nord fece sì che la produzione agricola meridionale cadesse nelle reti commerciali di Inghilterra, Francia e Paesi Bassi" che era fontato a fonte autorevole - perché?
  • la citazione di Tannucci alla fine della sezione mi sembra eccessiva e comunque riferita al secolo successivo a quello trattato in questa sezione

Dal Settecento all'Unità

  • La ricca analisi presenta secondo me alcune criticità se si vuole mantenere il fuoco sui fatti ed evitare la classica storia politica (pertinente al altre voci). Ci sono in particolare parecchi dettagli di storia politica, ricchi di aggettivi, tratti da Oliva, le cui implicazioni economiche non sono sempre evidenti.

Condizioni socio-economiche dell'Italia dalla restaurazione all'Unita d'Italia

  • Nitti non mi sembra una fonte storiografica attuale
  • Hai cancellato un grosso para fontato a Felice - perché?
  • La sezione si estende talora al periodo post unitario che dovrebbe esulare dalla voce
  • La trattazione del PIL regionale mi sembra un po' incerta: è territorio incerto, ora le attribuzioni ale fonti sono divenute poco chiare e si rischia di dare l'incerto per certo e soprattutto si percepisce un certo affanno a voler sottolineare lo sviluppo del sud, sul quale punto non ho problemi, ma dovremmo presentare rigorosamente cosa dicono fonti di storia economica, l'attribuzione ora è talora meno che limpida.
  • "Nel 1891 il divario Nord-Sud nel prodotto pro capite era dell'ordine del 5-10 per cento. Quale fosse la sua entità nel 1861 è difficile dire. Le differenze sociali e istituzionali tra le due aree non riflettono esattamente quelle nei redditi. È probabile, dunque, che nel 1861 il livello di sviluppo del Sud fosse analogo, o di poco inferiore a quello del Nord." - fonte di questo para?

Grazie. --Tytire (msg) 15:50, 23 mar 2024 (CET)[rispondi]

@Fedecstp in assenza di riscontri intendo correggere le questioni qui sopra. --Tytire (msg) 21:01, 28 mar 2024 (CET)[rispondi]
@Fedecstp controllando le tue fonti, vedo dal primo caso un uso non accurato dalle fonte: ho verificato Bradford e Lang 1993 per la demografia di Palermo, indicano una grande incertezza nella cifra di 350k per la popolazione c.1050, di cui non hai fatto menzione. Procedo a correzioni del tuo contributo dopo verifiche; sarò costretto ad eliminare testo non verificabile. Se tu fossi disponibile a discuterne e a collaborare, ovviamente il lavoro sarebbe migliore. --Tytire (msg) 15:55, 30 mar 2024 (CET)[rispondi]
@Tytire secondo me puoi proseguire senza preoccupazioni, anche ad una mia perplessità esposta sulla sua pagina utente non ho ricevuto risposta... --Cavedagna (msg) 16:13, 30 mar 2024 (CET)[rispondi]
Ho riordinato e verificato fin dove ho potuto. Le due ultime sezioni sono ancora da verificare, alcuni problemi generali sono identificati sopra, inoltre la presentazione è talora confusa e imprecisa, alcune fonti sono autorevoli (Bevilacqua, Fenoaltea, Zamagni) altre non mi pare (Oliva). L'attribuzione alle fonti è da validare. --Tytire (msg) 18:06, 30 mar 2024 (CET)[rispondi]
Premetto che non studio storia economica e non ho le competenze di uno studioso. In base alla mia modesta conoscenza della storia, Gianni Oliva é un ottimo storico, nella pagina infatti ho riportato le riforme in campo socio-economico delle riforme intraprese dal Regno di Napoli e di Sicilia mi sembrava utile per capire la condizione del mezzogiorno in quel periodo. Penso che sarebbe interessante aggiungere anche qualcosa sulle altre regioni di questo genere, in quanto la pagina in quei secoli è troppo incentrata sulla Lombardia e sul Regno di Napoli e Sicilia. Quindi se sai qualche libro su questo argomento mi piacerebbe documentarmi e aggiungere queste parti. Poi per quanto riguarda la parte finale che riguarda il divario tra sud e nord l’ho ripresa da https://www.vittoriodaniele.info/wp-content/uploads/2011/12/originidivario1.pdf questo pdf in cui sono riportate molte fonti autorevoli. Comunque nel futuro vedo di leggere qualche libro di qualche economista per aggiungere altre voci, se ne hai qualcuno in mente (oltre Emanuele Felice) scrivimi. La frase di Nitti, come già detto nel commento dopo l’ho trovavata utile nel descrivere la condizione dell’Italia in quel periodo e trovo i suoi lavori fatti nel novecento ancora utili. Potresti riportare se é possibile il para fontato di Felice così ne discutiamo. --Fedecstp (msg) 20:42, 30 mar 2024 (CET)[rispondi]
“era cresciuta in modo estremamente veloce e non avendo a disposizione le tecnologie per sfamare tutta la popolazione e finendo la terra arabile" - la fonte deriva dalle conferenze di Barbero e da quanto diceva il mio prof di storia medievale all’Università. Se la trovi non utile puoi eliminarla --Fedecstp (msg) 20:46, 30 mar 2024 (CET)[rispondi]
Grazie mille per il riscontro. Ho cominciato a verificare e cambiare qualche sezione come vedi qui sotto e in crono. Sono assolutamente d'accordo che la storia economica del meridione vada ampliata, come puoi vedere ho cominciato a farlo. Ho anche creato due sottosezioni di cui una interamente dedicata al meridione.
Qui siamo tutti dilettanti, non ti preoccupare.
Tuttavia trovo utile mettere qualche paletto per le fonti da usare. Questa è una voce di storia economica e dovrebbe basarsi su lavori di storia economica. Oliva come storico economico non mi sembra molto citato. Ho notato anche che cita lui stesso Romano piuttosto che propria ricerca per il 600. Daniele e Malanima fanno sicuramente al caso invece.
Il fatto è che esistono ormai delle ampie sintesi fatte anche recentemente da storici economici (vedi il volume di Felice sul sud che ho appena introdotto) e qui dovremmo cercare di usare le fonti più affermate, e recenti.
Visto che ci sei, propongo allora di discutere qui prima di fare ulteriori cambiamenti.
Domani probabilmente non ci sono. --Tytire (msg) 22:46, 30 mar 2024 (CET)[rispondi]

Crisi del 1600[modifica wikitesto]

Parcheggio qui questo testo che non riesco a verificare. Mi sembra di capire che @Fedecstp ha usato Oliva che cita Romano. Oliva non è un autore di storia economica, Romano si, il testo di Romano andrebbe verificato direttamente.

"

Secondo lo storico Ruggiero Romano a seguito dell'espansione agraria del XVI consegue una decrescita di produzione. Lo storico ha proposto un'ipotesi di periodizzazione, che ha come punto di svolta il 1620. Da questa periodizzazione scaturiscono tre periodi:

  • Espansione del 1500 (fino al 1620),
  • Evidenza a partire dal 1600 di una pausa caratterizzata dal rallentamento del settore agricolo,
  • Stagnazione aggravata, con accentuamento negli anni 40-50, del settore agricolo.

Le caratteristiche della crisi agraria sono: diminuzione i prezzi dei cereali e delle superfici messe a coltura (diminuisce l'offerta, ma anche la domanda). Si contraggono le rese (rapporto semente-prodotto), si torna spesso dunque all'allevamento, considerato più produttivo.

Le cause della decrescita sono la fase climatica negativa (piccola era glaciale) che influenzò che i raccolti, il calo della domanda per l’inversione del trend demografico che fece ristagnare o decrescere i prezzi dei cereali e l'aumento del costo del lavoro poiché la diminuzione della forza lavoro rese meno economica il lavoro dei braccianti e dei salariati.

Le conseguenze furono le restrizione delle aree coltivate e ritorno al pascolo e l'aumento del fisco, soprattutto in concomitanza con la Guerra dei Trent'anni.

Il Dibattito storiografico parla anche di un processo di Rifeudalizzazione (sulla scia degli studi di Ruggiero Romano) inteso come aggravamento delle gerarchie di dipendenza delle masse contadine sottoposte alla giurisdizione ed agli abusi dei signori feudali. In realtà non è propriamente una rifeudalizzazione, perché il feudo non è mai scomparso, si è indebolito e nel 1600 riprende parte di potere tentando di recuperare quello che perdono dalla crisi agraria offrendo giustizia in cambio di una somma di denaro. Il processo di rifeudalizzazione é molto presente nell'entroterra italiano, specialmente nel meridione questo comporta l'aggravarsi delle condizioni dei braccianti. Come osservato decenni dopo da Bernardo Tannucci, presidente del consiglio dei ministri sotto il regno di Carlo III, fa presente al Re di Napoli le condizione in cui versa il Mezzogiorno dopo la dominazione Spagnola e Austriaca,[1] «non vi é in Germania o in Polonia baronaggio tanto quanto questo delle Sicilie, uso a far qualunque vendetta contro chi si opponga ai suoi capricci, alle sue estorsioni, alle sue ingiustizie. Per questo é il Regno spopolato, fuggendo gli oppressi nella capitale e formando una plebe inutile, grave al governo e pericolosa, la quale stando nelle campagne in paesi demaniali del re li popolerebbe, li coltiverebbe, e diventerebbe così lo Stato molto ricco, utile e pulito».[1]

" --Tytire (msg) 17:31, 30 mar 2024 (CET)[rispondi]

Ciao @tytire, hai ragione il testo dallo storico Ruggiero Romano deve essere confermato da una lettura dei suoi libri. Mi sono basato su quanto diceva il mio prof. di storia moderna a lezione che appunto lo citava nella stagnazione del seicento. Per quanto riguarda la parte che va da “. Come osservato decenni dopo” é stata ripresa dal libro Gianni Oliva e l’ho riportata per rafforzare la tesi dello storico R. Romano. Secondo me dovrebbe essere aggiunta nuovamente in quanto esplica in modo chiaro le condizione del meridione nel seicento. Tu che ne pensi a riguardo? Poi non ho capito perché hai modificato l’impostazione della parte che riguarda le riforme e l’economia Italiana del settecento e dell’Ottocento, dividendo il centro nord dallo Stato Pontificio e dal Regno delle Due Sicilie e non mi é chiaro anche perché sono state eliminati le citazioni di Nitti su l’Italia all’alba dell’Unità. Attendo una risposta grazie. --Fedecstp (msg) 20:20, 30 mar 2024 (CET)[rispondi]

Com --93.36.99.99 (msg) 21:11, 30 mar 2024 (CET)[rispondi]
Comunque da domani ci sono per migliorare la pagina, potremmo partire da un periodo storico e poi lavorare sugli altri.
“E' utile a mio avviso ampliare la trattazione di certe fasi storiche e anche del meridione, ma la voce dovrebbe evitare di cadere nel trito revanchismo meridionalista e concentrarsi sui fatti economici o di politiche economiche.”
Ti assicuro che fortunatamente sono ben lontano dai neoborbonici 😂
Però mi sembrava che la pagina prima mancasse delle riforme fatte nel meridione e come puoi leggere cerco sempre di ravvisare i limiti di alcune riforme proprio per non cadere nella partigianeria spicciola.
Poi per quanto riguarda i dati riguardo i vari indicatori che noi utilizziamo per capire il livello di benessere di una nazione, all’epoca da quello che ho letto non erano utilizzati, quindi spesso si risale partendo da dati successivi e andando a ritroso nel passato. --93.36.99.99 (msg) 21:22, 30 mar 2024 (CET)[rispondi]
Ho creato le 2 sezioni perché la sezione mi sembrava disordinata.
Se citiamo Romano dovremmo leggerlo, non dire cosa dice di lui Oliva. Comunque la sua periodizzazione più o meno è già riflessa mi pare.
La citazione di Nitti fa colore ma scrivendo una voce enciclopedica dovremmo separare il colore dai fatti. Potrebbe esser messa in un box a latere se vuoi.
La questione delle stime del PIL regionale e di come sono cambiate e del range di incertezza è discussa abbastanza dettagliatamente in Felice 2016. --Tytire (msg) 22:52, 30 mar 2024 (CET)[rispondi]
Va bene per iniziare anche martedì. Comunque per quanto riguarda la voce del medioevo ho trovato questo pdf di una tesi di laurea in archeologia “La Sicilia medievale. Dinamiche insediative ed economiche tra VI e XI secolo d.C.” https://core.ac.uk/download/pdf/79619302.pdf . Non l’ho ancora letta però mi sembra utile che ne pensi?
Poi che significa box latere?
E sempre sul medioevo secondo me dovremmo parlare maggiormente dei comuni e delle repubbliche marinare, che erano delle realtà economiche tutt’altro che modeste in quei tempi. --Fedecstp (msg) 10:09, 31 mar 2024 (CEST)[rispondi]
ciao @Fedecstp.
  • Le tesi di laurea non sono considerate fonti attendibili in WP. Però sono utili a identificare bibliografia (come questa che linki). L'argomento secondo me richiede fonti accademiche (libri di storici economici o articoli in riviste accademiche).
  • Sicuramente sarebbe utile espandere sull'economia medioevale, concordo. A questo proposito
  • --- Potresti perfavore confermare la fonte di quel para che ho segnato come senza fonte
  • --- confermare chi dice che "fu frantumato il latifondo", cosa che suona sorprendente
  • --- cosa è successo di speciale in Val Mazara
  • --- rendere tangibile e più chiaro quel para "La prospera economia meridionale continuò sotto la dinastia normanna e Hohenstaufen; specialmente sotto Federico II che permise lo sviluppo di uno Stato moderno e fortemente centralizzato dalle pretese dei baroni, come scritto nella costituzione di Melfi." (Io in generale trovo utile limitare se non eliminare gli aggettivi, e presentare i fatti).
  • Con box a latere volevo dire questo, io di solito le citazioni le metto in box separandole dal testo principale perché considero che stiamo scrivendo una enciclopedia dove la gente cerca riscontri, non un saggio.
  • Benissimo includere dati sul PIL regionale stimato, secondo me né più né meno di cosa gli studi recenti e riconosciuti dicano al riguardo (non credo siano tantissimi, come ti dicevo Felice 2016 ne presenta una disanima, se ne hai altri benvenuti, la trattazione come appare ora va precisata).
  • Non so se collabori da molto in wp, dal tuo profilo sembri nuovo: se posso permettermi di condividere un parere generale, scrivere in wp, specie per temi come questo, a me sembra richieda prima lettura e poi scrittura, cioè avere accesso alle fonti attendibili e recenti, in questo caso almeno qualcuno dei testi di storia economica. Fatto quello, di solito il lavoro è relativamente semplice e lineare, se non banale = un riassunto intelligente e chiaro. Se invece quella ricerca e lettura delle fonti chiave non viene fatta, si rischia di perdere tempo fra pareri e percezioni personali, spiluccatura casuale del web, lunghe discussioni, producendo pezzi bocconi più o meno casuali e neutrali. Per quanto mi riguarda, le fonti che ho attualmente a disposizione sono quelle che vedi nella voce, salvo quelle che hai messo tu. Ahimè in questa fase non ho molto tempo per cercarne altre e leggerle.
--Tytire (msg) 21:44, 2 apr 2024 (CEST)[rispondi]
@Fedecstp spero tu non ti sia scoraggiato. --Tytire (msg) 22:06, 9 apr 2024 (CEST)[rispondi]
Ho aggiunto un paio di punti sempre leggendo Felice 2016. Non ho tempo di fare di più ora.
Segnalo questi ulteriori punti che secondo me meritano attenzione:
- sezione : Regno delle Due Sicilie
  • merita una riorganizzazione generale
  • "fu possibile un ammodernamento il sistema socioeconomico della società meridionale" in cosa consistette questo ammodernamento secondo la fonte?
- sezione: Condizioni socio-economiche dell'Italia dalla restaurazione all'Unita d'Italia
  • il contenuto non mi sembra sostenga una sezione separata ma andrebbe riorganizzato nella trattazione del Regno dele 2 Sicilie; la trattazione della situazione economica all'unità potrebbe andare in una sezione distinta, tuttavia ne abbiamo già una trattazione qui.
  • ci sono alcune affermazioni che fanno mettere in dubbio la neutralità del testo e magari delle fonti, come dicevo sopra certe fonti non mi sembrano adatte a questa voce: Acton, Oliva, ma soprattutto Campolieti (giornalista) e vari siti web e giornalistici. Punti da verificare tra gli altri:
  • La ferrovia Napoli-Portici come indicatore di industrializzazione
  • la portata economica di investimenti puntuali quali ponte real Ferdinando, il faro a fanale
Rimando alle altre mie osservazioni precedenti, qui sopra, soprattutto la discussione della quantificazione del divario nord-sud e le sue cause storiche (neutralità, attribuzione a fonti autorevoli, presentazione distinta di punti di vista dove esistano, verificabilità). --Tytire (msg) 23:08, 9 apr 2024 (CEST)[rispondi]
Scusa sono impegnato in questo periodo appena mi sarà possibile mi informerò meglio e continueremo la discussione.
Ho visto le modifiche che hai dato alla pagina e le ho trovate interessanti, però non ho capito perché hai eliminato le azioni politiche fatte da Carlo di Borbone contro il potere dei baroni. Mi sembra che sia opinione comune che anche con i limiti che affermava già Benedetto Croce l’agire riformista sotto Carlo di Borbone abbia creato un momento di discontinuità con il dominio vicereale. Poi affermi che il governo borbonico abbia represso le riforme chieste dall’élite intellettuale in quel periodo e questo é falso se parliamo del regno di Carlo di Borbone e avviene solo successivamente dopo la rivoluzione francese sotto il regno di Ferdinando I quando le monarchie assolute in tutta Europa spaventate dalle possibili rivoluzioni tendono a diminuire l’azione riformista. --Fedecstp (msg) 15:40, 11 apr 2024 (CEST)[rispondi]
Ti rispondo solo su alcune cose
“La ferrovia Napoli-Portici come indicatore di industrializzazioni” “la portata economica di investimenti puntuali quali ponte real Ferdinando, il faro a fanale”
In primis ti riporto questa affermazione della treccani sulla rivoluzione industriale “Il contributo più importante le ferrovie lo danno però direttamente, attraverso la domanda di binari, materiale rotabile e motrici, che stimola l'industria siderurgica e meccanica, e indirettamente attraverso il processo di integrazione degli spazi economici grazie alla rapida riduzione dei costi di trasporto.” Questo invece è il link di un articolo del sole24ore in cui si parla anche dell’importanza della realizzazione dei ponti sul fiume Garigliano e Calore e della ferrovia Napoli-Portici https://www.ilsole24ore.com/art/napoli-portici-prima-linea-ferroviaria-italiana-doppio-binario-AC7Dyzo
in merito a “ci sono alcune affermazioni che fanno mettere in dubbio la neutralità del testo e magari delle fonti, come dicevo sopra certe fonti non mi sembrano adatte a questa voce: Acton, Oliva, ma soprattutto Campolieti (giornalista) e vari siti web e giornalistici. Punti da verificare tra gli altri:”, hai ragione nel dire che Gianni Oliva non é un professore di storia economica, peró si tratta comunque di un storico affermato che ha scritto anche libri sulla casa reale dei Savoia e sono certo della sua professionalità. Le citazione sui libri di Acton sono state poi confermate e riportate da Oliva. Mentre non mi é chiara quale sia la citazione del giornalista.
Per quanto riguarda le affermazioni sulle singole fabbriche e riforme dei Borbone affermate da Gianni Oliva sono corrette e riscontrabili anche su altri libri, ovviamente bisogna vedere anche quanto hanno cambiato dal punto di vista quantitativo l’economia, cosa  che poi non mi sembra viene fatta con altrettanta accuratezza sugli altri Stati. Per questo ho comprato dei libri di Paolo Malanina e Vittorio Daniele che spero mi possano aiutare. --Fedecstp (msg) 16:25, 11 apr 2024 (CEST)[rispondi]
Su quanto dicevo nella prima risposta volevo aggiungere nuovamente le seguenti frasi:
“Durante la metà del settecento l'azione riformatrice di Carlo Di Borbone, primo re della dinastia borbonica a Napoli, e di personaggi della corte, quali i segretari di Stato Manuel de Benavides y Aragòn, Josè Joaquìn de Montealegre e Bernardo Tanucci; e gli economisti Antonio Serra, Antonio Genovesi e Ferdinando Galliani; e successivamente con il presidente del consiglio dei ministri Luigi De Medici sotto il regno di Ferdinando I che fecero di Napoli la città italiana che meglio rappresenterà il secolo dei lumi.[13]”
Trovo importante queste parole perché dal testo evince che la monarchia borbonica represse le riforme promosse dall’élite intellettuale invece almeno fino alla rivoluzione francese il governo borbonico cerca di combattere il potere baronale ed ecclesiastico e si allea con la borghesia illuminista promuovendo diverse riforme come ad esempio il recupero degli arredamenti, infatti avevo scritto anche questo che riaggiungerei:
“Nel meridione avviene lo scontro tra la corte e l'onnipotenza dei baroni; in questa direzione avviene il recupero degli “arredamenti”, termine con il quale si intende un insieme di diritti pubblici come le dogane, le gabelle, i monopoli di produzione e di scambio, i diritti contributivi sulle merci immagazzinate, questa politica permette a diminuire il potere baronale e a restituire la capacità direttiva in campo economico.[14]”
Il periodo della repressione e dello sviluppo di un azione più dispotica dei sovrani avviene durante la metà finale del regno di Ferdinando I, nel breve interregno di Francesco I e sotto Ferdinando II dopo i moti del 1848
Per dare più colore al testo volevo riportare le parole di Bernardo Tanucci sulla disastrosa situazione economica del regno di Napoli e di Sicilia dopo il dominio spagnolo e aggiungere nuovamente la frase di Nitti --

Fedecstp (msg) 18:42, 11 apr 2024 (CEST)[rispondi]

@Fedecstp grazie per i riscontri. E anche benvenuto a @Cavedagna nella elaborazione di questa pagina, con input molto interessanti a mio aviso.
Fedecstp: provo a rispondere alle tue questioni. Come dicevo sopra, secondo me occorre mettersi d'accordo sul metodo, altrimenti staremo a discutere ad infinitum di cosa penso io, tu e qualche altro utente su punti specifici. Le opinioni degli utenti sul tema di una voce sono irrilevanti, secondo il metodo WP. La scrittura in wikipedia è simil-notarile: riassunto imparziale di quello che dicono fonti attendibili. Quindi ad ogni punto io mi pongo con distacco la domanda: qual è la valutazione più diffusa tra le fonti più autorevoli (contemporanee) dell'argomento? WP è piena di pagine dove POV di utenti sono artatamente sostenuti assemblando fonti selezionate ad-hoc, approccio incoerente con il metodo di WP e che richiede correzione con la domanda sopra. Scusa il pistolotto, ma spero esso spieghi il mio punto di vista e aiuti a ridurre la discussione, per efficienza.
  • significato economico della ferrovia Napoli-Portici: l'articolo del Sole24ore non è una fonte autorevole di storia economica. Io leggo in Felice 2016: "Al di là del clamore per la ferrovia Napoli-Portici, inaugurata nel 1839 e quindi prima dei moti del 1848, l’impegno nelle infrastrutture era risibile, mentre spicca l’assenza di ogni sforzo per modernizzare gli assetti fiscali, il sistema finanziario e l’ordinamento giudiziario dello stato." Altre fonti di storia economica più dettagliate saranno benvenute.
  • Oliva: mi sembra un ottimo e riconosciuto divulgatore, ma al di là delle nostre opinioni, il suo libro mi pare non abbia alcun impatto accademico nel settore della storia economica.
  • Sono d'accordo che le singole infrastrutture non siano analizzate per impatto economico per gli altri stati, infatti non mi pare di ritrovare riferimenti a singole opere infrastrutturali oltre quelle che hai aggiunto tu per il regno borbonico. A mio avviso dilungarsi in un elenco di opere in questa voce, a meno che non siano veramente di grande importanza economica, sarebbe eccessivo.
  • Sono d'accordo ad elaborare la politica economica dei Borboni, con un testo chiaro e fonti come dicevo sopra. Il testo che hai proposto a me non sembra chiarissimo, forse usare fonti come dicevo sopra potrebbe aiutare a chiarire. Se il testo che ho messo (non mio, ma riassunto di Felice 2016) non ti sembra rappresentativo dell'opinione più diffusa tra gli storici economici, vediamo cosa dicono altre fonti di storia economica.
  • citazione di Nitti: anche volendo mettere una nota di colore, quella frase estrapolata dalla introduzione del suo studio, quanto è atta a riassumere la valutazione generale di Nitti della storia economica pre-unitaria contenuta nello studio stesso? Io sono d'accordo a citarlo in un box a forse occorrerebbe riflettere su come meglio riassumere la sua analisi oltre il soundbite dell'introduzione.
--Tytire (msg) 12:22, 13 apr 2024 (CEST)[rispondi]
Ciao @Tytire sono assolutamente d’accordo su quanto scrivi “La scrittura in wikipedia è simil-notarile: riassunto imparziale di quello che dicono fonti attendibili.” e di quindi vorrei capire meglio la fonte della seguente frase “Vi furono anche rivolte. Tuttavia idee e tentativi di cambiamento furono efficacemente repressi dall'amministrazione borbonica.” Perché non ho mai letto di sistematiche repressioni sotto il regno di Carlo di Borbone, forse intendi la repressione durante il periodo della prima restaurazione della monarchia borbonica quando era re Ferdinando I, se così fosse lo vorrei modificare perché come detto innanzi la repressione é successiva al regno di Carlo di Borbone e da come é scritta non mi pare che evince questo.
Premetto che non ho letto il libro di De Felice, però la frase mi pare riferita agli investimenti complessivi delle infrastrutture nel Regno Delle Due Sicilie e non sulla singola opera. Però mi sembra che dal testo si capisce che mancavano degli investimenti in quell’ambito infatti ho scritto alla fine del testo “Erano invece molto alte alcune differenze sociali tra il centro-nord e il sud specialmente sull'alfabetizzazione e il maggior sviluppo di infrastrutture per cui riassume Vera Zamagni nel 2010 da quanto emerge dalle ricerche disponibili sull'economia italiana all'indomani dell'Unità e sui divari regionali, scrivendo: «nell'età preindustriale non possiamo attenderci di trovare una grande differenza nel prodotto nazionale pro capite fra le diverse regioni agrarie. E', tuttavia, di grande importanza prendere in esame altri indicatori che possano spiegare perché un'area, che mostra un reddito pro capite simile a quello di un'altra area, è capace a un certo punto di decollare grazie allo slancio del settore industriale, mentre l'altra resta stagnante».” Difatti penso che la stragrande maggioranza degli storici economici afferma che il divario a livello delle ferrovie e delle strade era notevole e significativo tra il nord e il sud. Secondo me potresti aggiungerlo tra i vari limiti della politica di Ferdinando II spiegando che come riporta De Felice l’investimento nelle ferrovie fu mitissimo rispetto al Regno di Sardegna e questo limitò lo sviluppo economico nell’entroterra.
Per quanto riguarda la politica fiscale l’ho riportato come limite della politica di Ferdinando II, infatti nel testo scrivo che il “dinamismo dei primi anni fu frenato da una politica economica più parsimoniosa rispetto alla draconiana economia di Cavour che fu però sicuramente più fruttuosa sul lungo periodo.”
“citazione di Nitti: anche volendo mettere una nota di colore, quella frase estrapolata dalla introduzione del suo studio, quanto è atta a riassumere la valutazione generale di Nitti della storia economica pre-unitaria contenuta nello studio stesso? Io sono d'accordo a citarlo in un box a forse occorrerebbe riflettere su come meglio riassumere la sua analisi oltre il soundbite dell'introduzione.” Non ho letto il libro di Nitti, quindi non so quanto riesce a riassumere la sua posizione. Però informandomi sul web evince che quanto affermato da Nitti in quella frase é in linea con i suoi studi e soprattutto con gli studi quantitativi fatti successivamente.
“il suo libro mi pare non abbia alcun impatto accademico nel settore della storia economica.” Hai ragione il suo libro non ha alcun impatto in quel settore infatti aspetto di leggere i libri di Paolo Malanina e Vittorio Daniele per arricchire il testo.
Come già avevo scritto prima per dare più colore al testo volevo riportare nuovamente la frase da te cancellata di Bernardo Tanucci sulla disastrosa situazione economica del regno di Napoli e di Sicilia dopo il dominio spagnolo e aggiungere nuovamente la frase. “Non vi é in Germania o in Polonia baronaggio tanto potente quanto questo delle Sicilie. Per questo é il Regno spopolato, fuggendo gli oppressi nella capitale e formando una plebe inutile, grave al governo e pericolosa, la quale stando nelle campagne in paesi demaniali del re li popolerebbe, li coltiverebbe e diverrebbe così lo Stato molto ricco, utile e pulito” l’osservazione di Bernardo Tanucci, é una lettera scritta nel giugno del 1767 al re Carlo di Borbone, riporta da Pasquale Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzioni, cit., p 159 --Fedecstp (msg) 21:18, 13 apr 2024 (CEST)[rispondi]
@Fedecstp non ho tempo mi spiace, al volo sul metodo/fonti:
  • la tua interpretazione di Felice 2016 è corretta, fa una valutazione complessiva del lungo periodo storico, non è una fonte adatta se si vuole analizzare le fasi del regno borbonico più in dettaglio. Se vuoi introdurre una analisi più dettagliata occorre una fonte di storia economica che la presenti. Non possiamo far dire a Zamagni qualcosa sulla base di nostre deduzioni, cosa dice esattamente di quelle fasi del regno borbonico ? (ho il testo ma non ho tempo ora di rileggerlo)
  • politica fiscale: "parsimoniose" e "draconiane" sono aggettivi, quindi valutazioni opinabili, cosa si vuol dire e cosa erano queste differenze concretamente?
  • citazione Nitti e in generale: non so se tra le millemila policies di WP ci sia scritto che se uno cita una fonte dovrebbe averla letta piuttosto che dedurla da citazione indirette, ma a me sembra buonsenso. Io ad avere il tempo leggerei quel testo di Nitti e poi selezionerei una frase rappresentativa se vogliamo usarlo come "colore dell'epoca", cosa che potrebbe starci. Idem per Tanucci.
--Tytire (msg) 12:03, 27 apr 2024 (CEST)[rispondi]
sulla questione del PIL regionale, vedi quanto ho scritto sopra. Non è una questione su cui occorra dibattere a lungo, secondo me: le ricostruzioni storiche ci sono, sono state fatte e ri-fatte alcune volte, vanno riportate brevemente per quello che dicono, incluso incertezze, la sintesi autorevole più recente che conosco è quella di Felice 2016. provo a metterti un esratto in un cassetto. --Tytire (msg) 12:11, 27 apr 2024 (CEST)[rispondi]
Estratto da Felice 2016

Se i dati sulle infrastrutture e l’istruzione appaiono difficilmente contestabili, quelli sul reddito sono molto più incerti. Il motivo è che il prodotto interno lordo (Pil) − l’indicatore macroeconomico che ci fornisce un’approssimazione del reddito annuo − al tempo dell’Unità non esisteva e non veniva quindi misurato. Il Pil fu inventato negli Stati Uniti durante la Grande depressione, negli anni trenta del Novecento: serviva per misurare i cicli economici, in un paese industriale che attraverso capitale e lavoro (i fattori di produzione) trasformava le materie prime e i prodotti intermedi (input) in prodotti finali (output)[27]. Dopo la seconda guerra mondiale l’utilizzo del Pil si è diffuso in tutto il mondo: in Italia, l’Istat lo rileva dagli anni cinquanta. Ma quanti si sono posti il problema di ricostruire il Pil per epoche precedenti, come gli storici economici, hanno dovuto procedere a ritroso, con metodologie indirette: a partire dai dati sulla produzione e i prezzi, quando andava bene, ma anche sull’occupazione, sui macchinari, sui salari, perfino sul movimento commerciale o sull’urbanizzazione (l’elenco sarebbe lungo), sono state proposte stime del Pil indietro fino all’epoca romana, per gran parte dei paesi o delle aree del mondo[28]. Che cosa è stato fatto per il nostro paese e per il divario Nord-Sud? Rispondere adeguatamente a questa domanda impone di partire un po’ da lontano, ma la digressione è indispensabile. La questione delle stime sul Pil è davvero importante, perché solo ripercorrendone le vicende diventa possibile entrare con cognizione di causa nel dibattito circa il divario di reddito al momento dell’unificazione nazionale (argomento centrale di questo libro), e comprendere appieno le ragioni delle diverse ipotesi. Altrimenti si rischia di rimanere nel campo del sentito dire, di ripetere giudizi di seconda o terza mano, come troppo spesso accade 52negli ultimi tempi. Conviene partire dalla stima nazionale. Nelle ricostruzioni storiche del Pil, l’Italia è tutto sommato un paese all’avanguardia. Già nel 1957 l’Istat pubblicò un lavoro per quel tempo notevole, che proponeva una serie storica annuale del Pil per settori di attività, a prezzi correnti e costanti, a partire dal 1861[29]. Tuttavia quel grande sforzo pionieristico non pagò in termini di risultati: nonostante l’impegno profuso, al vaglio degli studiosi le stime presentavano gravi opacità sul lato delle fonti e dei metodi utilizzati. La revisione che ne seguì, pubblicata nel 1968 dal gruppo coordinato da Giorgio Fuà, e realizzata in gran parte da Ornello Vitali[30], non sanò quelle incongruenze, anzi contribuì a rendere l’ordito ancora più ingarbugliato. Per cercare di porre rimedio, prendeva il via un lungo lavoro da parte degli storici economici, che dagli anni sessanta è proseguito fino ai nostri giorni: stime ex novo, dato che la serie Istat-Fuà (ovvero la precedente serie Istat rivista dal gruppo di Fuà) si presentava inemendabile, perché non se ne conoscevano bene le procedure. Si segnalano a questo proposito le ricostruzioni di Stefano Fenoaltea per l’industria nel periodo liberale, di Giovanni Federico per l’agricoltura nello stesso periodo, di Vera Zamagni per i servizi[31]. Negli ultimi tempi altri studiosi si sono aggiunti, compreso chi scrive, che con Albert Carreras ha prodotto la serie del Pil dell’industria dal 1913 al 1951, e con Vera Zamagni e Patrizia Battilani quella dei servizi dal 1861 al 1951[32]. In tutto ciò la Banca d’Italia ha assunto un fondamentale ruolo di coordinamento: sotto i suoi auspici sono state finanziate le prime ricostruzioni complete del Pil per quattro anni di riferimento (prima il 1911, quindi il 1891, il 1938 e il 1951)[33], i quali avrebbero poi costituito i «piloni» attorno ai quali creare la nuova serie del reddito nazionale. Questa è stata pubblicata in occasione dei centocinquant’anni 53dell’Unità[34]: ricomponendo i pezzi per settori e periodi, operando gli opportuni aggiustamenti, finalmente ha visto la luce una nuova serie storica del Pil dal 1861 ai nostri giorni, che sostituisce quella Istat-Fuà ed è completamente trasparente nelle fonti e nei metodi, cioè verificabile. Fin qui il dato nazionale: ci sono voluti quasi cinquant’anni di ricerche, diversi volumi e numerosi articoli (di cui abbiamo risparmiato la lista completa), e a dire il vero il cantiere non è ancora chiuso del tutto[35]. I dati regionali, che sono quelli di cui qui si discute, in linea di principio discendono dalla stima nazionale, ma sono meno attendibili e quindi vanno presi con maggiore cautela. La ragione è semplice: le fonti storiche necessarie a ricostruire il Pil per lo stato italiano sono spesso assenti per le singole regioni, che fino agli anni settanta del Novecento nemmeno esistevano come unità amministrative. In queste condizioni aumenta il ruolo delle procedure indirette, delle assunzioni e delle ipotesi a partire da un pugno di dati; aumenta anche il peso dei possibili errori di misurazione, si moltiplicano stime diverse e interpretazioni contrastanti. Ciò nondimeno, sull’andamento storico dei divari regionali alcuni punti relativamente fermi sono stati fissati. Proviamo a ripercorrerli brevemente, per arrivare poi alla questione del divario intorno all’Unità. La prima stima dei divari regionali in età liberale è quella fornita da Vera Zamagni, sul finire degli anni settanta[36]. Il riferimento è il 1911, perché per quell’anno maggiore è la disponibilità di dati, non ultimo grazie alla compilazione del primo censimento industriale del Regno d’Italia. Per l’industria, l’autrice ripartiva il prodotto nazionale in base alla forza lavoro rilevata dal censimento industriale, integrando in alcuni settori con informazioni sulla produzione, e utilizzando i salari per 54approssimare le differenze di produttività fra le regioni; per stimare il valore aggiunto dei servizi si avvaleva soprattutto di dati fiscali, mentre per l’agricoltura procedeva a una stima diretta di produzione e costi. I risultati ci proponevano un distacco molto forte fra il Triangolo industriale (con un Pil per persona di 134, fatta 100 la media italiana) e il Mezzogiorno (appena 75): ma era probabilmente sopravvalutato, perché sbilanciati a favore delle regioni del Nord risultavano tanto i dati del censimento industriale (per errori nelle procedure di compilazione che escludevano sottoccupazione e lavoro a domicilio), quanto quelli fiscali (che non tenevano conto dei diversi livelli di evasione). Ad ogni modo, la stima di Zamagni rimarrà a lungo un punto di riferimento[37], senza rivali per oltre vent’anni. Per trovare un’alternativa, e anche un po’ di dibattito, occorrerà attendere l’alba del nuovo millennio. Siamo al primo lavoro di Stefano Fenoaltea su questi temi, pubblicato nel 2003 sul «Journal of Economic History». È ormai storia dei nostri giorni. L’autore si limita al settore industriale, ma di questo offre una stima per quattro anni campione, che abbracciano quasi l’intero arco della storia liberale, dal 1871 al 1911. Anche Fenoaltea ripartisce il dato nazionale in base alla forza lavoro, ma con tre importanti differenze rispetto a Zamagni: il dato nazionale è quello aggiornato, ricostruito dallo stesso Fenoaltea; per la forza lavoro vengono adoperati i dati sugli addetti rilevati dai censimenti della popolazione (tenutisi nel 1871, 1881, 1901 e 1911); non viene introdotta alcuna correzione per tenere conto delle possibili differenze di produttività fra le regioni, all’interno di uno stesso settore[38]. Il risultato è che i divari regionali appaiono ora di molto contenuti rispetto a quelli rilevati da Zamagni, ma sono evidentemente sottovalutati. Primo, perché presumibilmente la produttività di un operario del Nord non era la stessa 55di un operaio del Sud (diversa essendo la dotazione di capitale, cioè i macchinari a disposizione). Secondo, perché i censimenti della popolazione − all’opposto del censimento industriale − consideravano i sottoccupati, più diffusi nel Mezzogiorno, come lavoratori a tempo pieno. Infine, perché la serie nazionale di Fenoaltea non è a prezzi correnti, come a rigore dovrebbe essere in questi casi, ma a prezzi costanti del 1911: questo può creare distorsioni quando si stimano i divari, le quali probabilmente (ma il dubbio è d’obbligo) in questo caso favoriscono il Mezzogiorno[39]. Va detto che Fenoaltea si è mostrato consapevole almeno delle prime due distorsioni − lo suggeriva già il titolo del suo articolo: Peeking backward, cioè «Sbirciando all’indietro» −, tanto che insieme a Carlo Ciccarelli negli anni successivi si sarebbe impegnato in una monumentale opera di ricostruzione delle serie annuali regionali della produzione industriale dal 1861 al 1913, questa volta basandosi su dati diretti di produzione (ovunque fossero reperibili), invece che sugli addetti dei censimenti della popolazione senza correzione[40]. Una ricerca in parte ancora in corso, di grande importanza anche per le successive stime elaborate da chi scrive, come stiamo per vedere. Subito dopo Peeking backward arrivano i miei studi, che cercano una soluzione di compromesso tra l’approccio di Fenoaltea e quello di Zamagni: una soluzione tale da eliminare le opposte distorsioni, dettata dal buon senso, ma anche da un collegamento alla letteratura internazionale sulla stima dei divari che nel frattempo aveva visto la luce. Il buon senso è provare a mettere insieme quanto di meglio era stato fatto dai due autori: piuttosto che scegliere fra il censimento industriale e quello della popolazione, utilizzarli entrambi. La procedura è costosa in termini di energie, per ogni sottosettore bisogna raccogliere 56il doppio dei dati, ma ovviamente è più affidabile in quanto a risultati: in sintesi, gli addetti in eccesso del censimento demografico rispetto a quelli del censimento industriale vengono conteggiati come sottoccupazione, con un peso minore (lo si fa per il 1911, ma anche per stime riferite ad anni precedenti, per le quali si adopera la statistica industriale di Vittorio Ellena del 1876); per la prima volta vengono inoltre computate, con pesi proporzionali alla più bassa retribuzione, anche l’occupazione femminile e quella minorile. Il collegamento alla letteratura internazionale è reso possibile dalla pubblicazione di un importante lavoro di Frank Geary e Tom Stark, che fissa le coordinate di quella che in breve sarebbe diventata una procedura ampiamente adottata in ambito europeo[41]: consiste nel ripartire il Pil nazionale in base all’occupazione regionale, a un livello di dettaglio il più elevato possibile, approssimando le differenze di produttività con le differenze salariali. L’idea di utilizzare i salari per stimare la produttività è ovviamente una soluzione soggetta a margine di errore (si fonda sull’ipotesi che il capitale e il lavoro siano perfettamente sostituibili, ovvero che le differenze nei salari siano direttamente proporzionali a quelle nella dotazione di capitale, che determina la produttività), ma tale margine è tanto minore quanto maggiore risulta il livello di scomposizione settoriale; si noterà inoltre che si tratta in pratica della stessa soluzione adottata da Vera Zamagni un quarto di secolo prima, per gran parte del settore industriale nel 1911. A questo punto il richiamo esplicito all’approccio di Geary e Stark consente una qualche formalizzazione della procedura, come pure il confronto con altri paesi europei. Le chiavi per la riuscita del metodo di Geary e Stark sono due, fra loro legate: l’alta scomposizione settoriale e, ovviamente, l’attendibilità 57del dato nazionale da cui partire. Nel nostro caso, il numero di settori è davvero cospicuo, con pochi paragoni in altri paesi: 163 attività fra industria e servizi per il 1911, 128 per il 1891[42]. Tanta rifinitura è stata resa possibile dalle fonti, ma anche dal fatto che il dato nazionale era anch’esso molto approfondito: si tratta della nuova stima realizzata, come accennato, sotto gli auspici della Banca d’Italia per il 1891, il 1911, il 1938 e il 1951, e affidata a Giovanni Federico per l’agricoltura, a Stefano Fenoaltea e Carlo Bardini per l’industria, a Vera Zamagni e Patrizia Battilani per i servizi. Da un lato, quindi, il lavoro sulle fonti statistiche risulta il più accurato possibile, dall’altro i dati nazionali si presentano aggiornati e dettagliati, di molto superiori agli standard precedenti. La solidità delle stime è inoltre favorita dal fatto che per uno dei tre settori, l’agricoltura, ci si è potuti avvalere di dati diretti, riguardanti la produzione lorda vendibile regionale ricostruita da Giovanni Federico, e trasformata in valore aggiunto dopo avervi sottratto i costi calcolati per grandi aree agricole. Ne risulta una stima dei divari regionali per quattro anni «pilone» (il 1891, il 1911, il 1938 e il 1951), pubblicata in due articoli nel 2005[43], da allora punto di riferimento per comporre il quadro storico dei divari regionali in Italia (lo vedremo nel secondo capitolo). Fra il 2010 e il 2011, in occasione della pubblicazione dell’articolo sull’«Economic History Review», alcuni dati sono stati rivisti per tenere conto dell’enorme lavoro di Ciccarelli e Fenoaltea sull’industria nel periodo liberale; ma a conforto dei nostri risultati, l’impatto di questa revisione è risultato davvero minimo[44]. Le stime per anni campione sono anche servite, in buona parte, per produrre la prima serie annuale di lungo periodo, che arriva indietro fino al 1861, realizzata da Vittorio Daniele e Paolo Malanima[45]. L’idea di 58avere una serie annuale del Pil delle regioni, dall’Unità al 1951 e quindi per estensione alle statistiche ufficiali fino ai nostri giorni, era senz’altro ammirevole. I risultati però sono apparsi da subito controversi. Soprattutto, non sembrano difendibili alla luce della procedura adoperata per arrivarci, invero sbrigativa e che, se poteva avere un senso quando la serie per la prima volta è stata proposta (allo stato dell’arte, come si dice), oggi in virtù dei nuovi dati è irrimediabilmente superata. Proviamo a scendere più nel dettaglio, venendo così al cuore del problema. Il lettore, che ha avuto la pazienza di arrivare fino a questo punto, ormai non avrà difficoltà a seguire il filo del ragionamento. Il risultato controverso cui sono pervenuti Daniele e Malanima è noto agli addetti ai lavori e di recente anche al grande pubblico: intorno all’Unità d’Italia il Mezzogiorno e il Centro-Nord sarebbero, in quanto a Pil pro capite, sullo stesso livello. È una stima, inutile dirlo, che stride fortemente con tutto quello che abbiamo riscontrato sulle infrastrutture viarie, creditizie e sociali; come se quegli enormi divari non contassero nulla in termini di Pil. Ma stride anche con altre informazioni disponibili sul benessere, dalla statura alla speranza di vita, di cui parleremo nel prossimo paragrafo. Stride infine con quanto emerge da nuove, recenti ricerche, come quella condotta da Pierangelo Toninelli e Claudio Pavese sulle società per azioni, le quali intorno all’Unità risultano presenti in maniera preponderante nel Centro-Nord, specie per quel che riguarda le imprese manifatturiere[46]: come se anche questi divari non dovessero riflettersi nella misura del Pil (impossibile). Ma come ci si è arrivati? Nell’articolo del 2007, Daniele e Malanima spiegano il loro metodo di stima con una certa chiarezza: nei suoi tratti essenziali la procedura è semplice, non lascia scanso a equivoci. I due autori derivano la loro serie a partire dalle citate stime per gli 59anni «pilone» di Fenoaltea per l’industria (1871, 1881, 1901, 1911), di Federico per l’agricoltura (1891, 1911, 1938, 1951), di chi scrive per i servizi (1891, 1911, 1938, 1951) e per una parte dell’industria (1938, 1951); dagli anni «pilone» i totali regionali vengono retropolati fino al 1861 utilizzando il ciclo nazionale dei tre macrosettori: ovvero, attribuendo ad ogni regione le stesse variazioni che si registrano a livello nazionale, per l’Italia intera, rispettivamente nell’industria, nei servizi e nell’agricoltura; a partire dalle quote percentuali che ogni regione presenta nei tre settori negli anni «pilone». Di questa procedura evidenti sono i vantaggi (cercare di sfruttare al meglio i pochi dati disponibili), ma anche i limiti: non si tiene in alcun conto quello che accade nelle singole regioni. Ad esempio, dal 1861 al 1891 il valore dell’agricoltura italiana sarebbe potuto crollare per via della riduzione dei prezzi del grano (dovuta alla prima globalizzazione), ma la sola Puglia avrebbe potuto vivere un autentico boom grazie alle esportazioni dei prodotti dell’olivo e della vite (ugualmente dovute alla globalizzazione). Nondimeno, secondo le stime di Daniele e Malanima anche l’agricoltura pugliese sarebbe crollata, perché i due autori le attribuiscono lo stesso ciclo dell’agricoltura nazionale[47]. La Puglia nel 1891 sarebbe quindi venuta a trovarsi in una posizione relativa (al resto d’Italia) peggiore di quella del 1861. Ma a quanto ne sappiamo è vero esattamente il contrario![48] Le conclusioni cui pervenivano Daniele e Malanima non erano quindi frutto di una stima puntuale, basata su dati reali di quel tempo. Poiché già gli autori lo dicevano chiaramente[49]: ogni studioso davvero interessato al problema avrebbe potuto riconoscerlo; specie di fronte a una questione così controversa, e cioè l’assenza all’Unità di un divario Nord-Sud nel reddito. Con due sole eccezioni[50], invece, nessuno fino 60ad ora si è mai preoccupato di entrare nel merito di quelle stime[51]. Ampia è stata la loro accettazione negli ambienti dell’accademia italiana (molte le citazioni che si potrebbero fare). Eppure si tratta di un problema importantissimo per la stessa identità del nostro paese, e in fondo anche di facile soluzione. È solo da una così autorevole acquiescenza che alla fine possono uscire assolti, con tanto di clamore mediatico-editoriale, quei lavori di taglio giornalistico (o propagandistico) che di tanto in tanto, con pretese di revisionismo filoborbonico, si vedono in circolazione; dai quali non si può certo pretendere altrettanta attenzione. Al di là del problema metodologico, che pure è centrale, nelle stime di Daniele e Malanima emergono altri due punti critici – entrambi in favore del Mezzogiorno – che le rendono non più attuali né attendibili: questioni forse solo per addetti ai lavori, ma di cui, giunti fin qui, conviene parlare. Daniele e Malanima operano un passaggio dai confini dell’epoca ai confini correnti sulla cui procedura non forniscono indicazioni precise: si tratta di un’operazione di grande impatto, perché alza di molto il valore della Campania (che nel 1891 salirebbe da 97 a 110, fatta 100 l’Italia) e fa crollare quello del Lazio (nello stesso anno da 137 a 105). Ma una riduzione così forte è quanto meno sospetta, dato che a rigor di logica una semplice modifica dei confini dovrebbe avere conseguenze modeste sul Pil medio per abitante, a meno che il divario fra le zone confinanti, che sono passate di mano, non sia enormemente alto (diverse invece le conseguenze sul Pil totale). Difatti, calcoli alla mano, una variazione di tale entità − sulla più grande regione del Sud! − è spiegabile in questo modo: si è suddiviso il Pil totale regionale stimato ai confini del tempo per la popolazione che le regioni avevano allora, ma ai confini di oggi. Poiché la Campania ha perso importanti territori, 61che il Lazio ha guadagnato (le province di Latina e Frosinone), il suo Pil per abitante in età liberale è balzato in alto (perché il Pil totale che includeva una popolazione più ampia, comprese Latina e Frosinone, è stato diviso per un numero di abitanti minore, senza Latina e Frosinone), mentre quello del Lazio è crollato (il Pil totale che si riferiva a una popolazione più piccola è stato diviso per un numero di abitanti più alto): in pratica, nel computo del Lazio agli abitanti di Latina e Frosinone sarebbe stato attribuito un reddito pari a zero! Questa ipotesi è in linea con i risultati dei due autori e, in mancanza di loro indicazioni più precise, appare l’unica plausibile. La seconda distorsione a favore del Mezzogiorno è dovuta all’utilizzo per l’industria della stima preliminare di Fenoaltea, che sottovalutava di molto, come si è detto, il divario Nord-Sud, in quanto non teneva conto delle differenze di produttività. Fenoaltea stesso ne era consapevole, al punto che con l’aiuto di Carlo Ciccarelli ha intrapreso una revisione profonda di quei dati, utilizzando ovunque possibile informazioni dirette sulla produzione. Negli ultimi anni, i risultati sono stati pubblicati in numerosi articoli, per la gran parte ospitati dalla «Rivista di Storia Economica» e poi nei volumi a cura della Banca d’Italia[52]. Non soltanto sono stime molto più accurate delle precedenti, come fra l’altro comprova il fatto che provengono da uno stesso autore in date successive. Ma si tratta anche di stime annuali, vere e proprie serie storiche, che vanno dal 1861 fino al 1913. Per buona parte dell’industria, oggi non c’è alcun bisogno di retropolare utilizzando il ciclo nazionale (come facevano Daniele e Malanima): si può (e si deve) invece agganciare ad ogni regione la sua serie specifica, ricostruita da Ciccarelli e Fenoaltea. Questo è quanto ho cercato di fare nella nuova stima dei divari 62regionali al 1871, pubblicata nel citato libro di Giovanni Vecchi. Per l’industria, si è proceduto a incorporare tutto il lavoro condotto negli ultimi anni da Ciccarelli e Fenoaltea[53]. Per i servizi, come per il resto dell’industria non coperto dai due autori, si è invece attinto ai dati sull’occupazione del censimento demografico del 1871 e dell’inchiesta di Ellena del 1876: dati reali del tempo, senza retropolazioni. In assenza di informazioni sui salari per il 1871, in quell’anno la produttività regionale è stata stimata a partire da quella del 1891, con Ciccarelli e Fenoaltea come termine di confronto per calcolare le variazioni intercorse per il 1871. Ancora una volta più affidabile è la parte sull’agricoltura, settore per il quale sono stati utilizzati dati diretti di produzione, del tempo, dopo averli resi omogenei alle stime di Federico dal 1891 in avanti (cercando così di correggere le distorsioni sulle fonti originali). Naturalmente, come dato di partenza nazionale da cui suddividere le quote regionali ci si è potuti avvalere della nuova serie del Pil realizzata sotto gli auspici della Banca d’Italia, nel frattempo resasi disponibile. L’esito finale si presenta comunque più precario delle stime dal 1891 in avanti, dal momento che per i limiti delle fonti di partenza minore è il livello di scomposizione settoriale e anche la stima della produttività risulta giocoforza meno solida[54]; ma è sicuramente preferibile al dato proposto da Daniele e Malanima, per le ragioni che abbiamo visto. Se Daniele e Malanima indicavano una sostanziale parità fra il Sud e il Nord anche per il 1871, nel nostro caso il risultato è ben diverso (tab. 1.1). Fatta 100 l’Italia, il Mezzogiorno presentava un Pil per abitante di 90, il Centro-Nord di 106. Questo vuol dire che fra i meridionali e gli altri italiani c’era una differenza di reddito di circa il 19%: forse meno di quanto ci si aspetterebbe, ma non era neanche poco, dati i livelli medi 63all’epoca molto bassi. Ai prezzi del 2011 (un artificio che ci serve per dare al lettore un ordine di grandezza), il reddito medio di un italiano era allora di appena 2.049 euro all’anno. Un meridionale guadagnava in media 1.844 euro all’anno, circa 154 euro al mese (5 euro al giorno); un cittadino del Centro-Nord 2.172 euro, ovvero 181 euro al mese (6 euro al giorno). Vero è che all’interno del Mezzogiorno la gerarchia delle regioni era molto diversificata, così come lo era nel Centro-Nord. Al Sud spiccava il primato della Campania, l’antica regione capitale, che ospitava la città più popolosa del nuovo regno, oltre ai ricchi possidenti meridionali: fatta 100 l’Italia, il suo Pil pro capite era 107, sopra la media nazionale. Seguivano con 94 la Sicilia, regione con un forte tessuto urbano, un’importante attività terziaria e un’agricoltura diversificata; poi la Puglia con 89, grazie all’agricoltura. Quindi l’Abruzzo e il Molise con 80, la Sardegna con 78, infine la Calabria (69) e la Basilicata (67), periferia della periferia, cioè la periferia del Mezzogiorno. Nel Centro-Nord troviamo innanzitutto il Lazio con 146, regione allora più piccola, quasi solo la provincia di Roma: negli stati preindustriali le capitali eccellevano anche più di ora, perché lì si concentravano i servizi, che avevano un differenziale di reddito rispetto all’industria e all’agricoltura più alto di quanto non sia oggi. Dopo il Lazio abbiamo la Liguria (139), la prima regione del futuro Triangolo industriale e che pure convogliava una quota importante dei servizi, oltre a una nascente industria, seguita dalla Lombardia (111). Vi erano quindi le altre regioni, tutte intorno alla media nazionale, ad eccezione delle Marche (82), ultime nel Centro-Nord e quasi allo stesso livello di Abruzzo e Molise. Vero è che la dicotomia Nord-Sud non era ancora chiara e definita, specie se articolata sulle singole regioni: il divario sarebbe diventato assai più netto in futuro, come vedremo nel prossimo capitolo. Ma neanche la bipartizione alternativa che è stata proposta, 64quella Ovest-Est, si presenta molto ben delineata: sul versante Ovest troviamo tanto le regioni più ricche, quanto quelle più povere. Certo è comunque che i redditi più alti si concentravano nelle regioni più urbanizzate e di più antica tradizione manifatturiera, solitamente sul versante tirrenico, come già aveva intuito Fenoaltea[55]. TAB. 1.1. Il Pil per abitante delle regioni italiane nel 1871 (Italia = 100) Piemonte 103 Veneto 101 Abruzzo e Molise 80 Liguria 139 Emilia-Romagna 95 Campania 107 Lombardia 111 Toscana 105 Puglia 89 Nord-Ovest 111 Marche 82 Basilicata 67 Umbria 99 Calabria 69 Lazio 146 Sicilia 94 Nord-Est e Centro 103 Sardegna 78 Centro-Nord 106 Sud e Isole 90 nota: I dati sono ai confini del tempo e calcolati sulla popolazione presente. fonte: E. Felice e G. Vecchi, Italy’s Modern Economic Growth, 1861-2011, Quaderni del Dipartimento di Economia Politica e Statistica, Università di Siena, 2012, n. 663. Giunti fin qui, è possibile pensare di produrre una stima anche per il 1861? Com’è noto, non ci sono limiti al pensiero. Si potrebbero retropolare i dati del 1871, per buona parte dell’industria agganciandoli alle nuove serie regionali di Ciccarelli e Fenoaltea, per tutto il resto (parte dell’industria, servizi, agricoltura) utilizzando ancora i cicli nazionali (ancorché a un livello di scomposizione più dettagliato). Ne verrebbe fuori un ranking non molto diverso da quello del 1871. Tuttavia, in questo caso avremmo di nuovo una stima che non si basa su dati diretti, del tempo, ma in buona parte su retropolazioni del ciclo 65nazionale. Perfino l’unico appiglio relativamente solido di cui disponiamo, la serie dell’industria di Ciccarelli e Fenoaltea, è in realtà tutto a prezzi 1911: c’è da dubitare che questi riflettano il valore delle manifatture regionali di mezzo secolo prima, in epoca ancora preindustriale. Manchiamo drammaticamente di altre fonti dirette: ad esempio il censimento del 1861 è allo scopo del tutto inservibile, a differenza del successivo del 1871: come ha scritto Salvatore Lupo, nel 1861 siamo ancora in un’età «prestatistica»[56]. Nessuna metodologia, per quanto dettagliata e sofisticata nel far tesoro dei pochi dati disponibili, ci porterebbe su strade sicure: non vi è alcuna certezza che una procedura sia preferibile a un’altra e ogni eventuale modifica avrebbe impatti non trascurabili. No, sarebbe un esercizio poco serio e preferiamo risparmiarcelo: il rischio è che qualunque numero prodotto, ancorché soggetto ad ampio margine di errore, divenga un feticcio e venga preso da qualcuno – è accaduto in passato con le altre stime – per «evidenze econometriche». Più che edificare numeri sulla sabbia, molto meglio è provare a ragionare sull’evidenza storica, anche qualitativa, di cui disponiamo. Quali potevano essere le caratteristiche dell’economia meridionale nel 1861? Quali gli elementi di distinzione in confronto a quella del 1871? Sappiamo con certezza che l’introduzione della tariffa liberista danneggiò l’industria del Napoletano, come di altre aree del Mezzogiorno[57], mentre quella sorta di guerra civile che va sotto il nome di brigantaggio produsse effetti negativi sulle aree più colpite: Calabria e Basilicata soprattutto, ma anche l’interno della Campania e della Puglia[58]. È anche vero però che il liberoscambismo favorì le esportazioni dell’agricoltura, allora il settore più importante dell’economia, soprattutto le colture ad alto valore aggiunto (viticoltura, 66olivicoltura, prodotti ortofrutticoli) in Puglia e in Sicilia, ma anche in Calabria e nella zona del Vulture (Basilicata), e l’industria agroalimentare ad essa legata, pure in Abruzzo e in Campania[59]. Sulle conseguenze del libero commercio, Ciccarelli e Fenoaltea sono molto ottimisti: dopo il 1861, a svilupparsi più rapidamente sarebbe stato proprio il Mezzogiorno, «che solo allora ricevette il beneficio di un commercio estero relativamente libero, di un miglioramento delle infrastrutture»; al suo interno la crescita sarebbe stata «massima nelle aree favorite dalla produzione di beni esportabili, dalla presenza di porti che attiravano il nuovo commercio»[60]. Giudizio esagerato? Uno studioso pure molto critico verso le politiche piemontesi come Luigi De Rosa riconosce: L’agricoltura meridionale registrò, specie dopo la repressione del brigantaggio e la proclamazione del corso forzoso nel maggio 1866, cospicui progressi. In parecchi terreni furono realizzate bonifiche; in altri si intensificarono le colture, come, ad esempio, nel Tavoliere di Puglia, dopo il suo affrancamento nel 1865. Passi da gigante segnarono tanto l’olivicoltura quanto la viticoltura e, in particolare, la lavorazione dei loro prodotti[61]. Meno entusiasta è Salvatore Lupo, il quale nota anche le molte difficoltà che frenavano il processo di modernizzazione; ma anch’egli non può non rilevare come dal 1861 al 1881 l’esportazione di prodotti viticoli fosse aumentata di sette volte, aggiungendo all’insieme «un altro prodotto con cui il Mezzogiorno (la Sicilia) entrò prepotentemente nei mercati esteri»: lo zolfo[62]. Con ogni probabilità, dato il peso preponderante che aveva allora l’agricoltura, in termini di Pil l’impatto di questi progressi fu maggiore della diminuzione dovuta all’arretramento della (peraltro spesso antiquata) struttura industriale. Poiché inoltre negli anni sessanta 67dell’Ottocento la crescita dell’Italia risultò pressoché nulla (il tasso di aumento del Pil pro capite fu inferiore allo 0,4% annuo)[63], se ne può dedurre che le regioni del Mezzogiorno migliorarono la loro posizione relativa rispetto al resto del paese. Quasi certamente crebbero più della media nazionale Puglia, Sicilia e Abruzzo, anche di diversi punti, mentre Campania, Calabria e Basilicata alla peggio rimasero stazionarie, ma forse migliorarono anch’esse. Nell’insieme si può dunque ipotizzare che al 1861 il totale del Mezzogiorno fosse intorno all’85% della media nazionale, cioè quattro o cinque punti sotto il dato di un decennio dopo (essendo cresciuto di più, il suo punto di partenza era più basso). Possiamo assegnare a questa stima un ragionevole margine di incertezza del 5% e concludere che all’Unità d’Italia il Pil del Mezzogiorno era circa l’80-90% della media italiana; ovvero (restringendo la forchetta per arrotondare) fra il 75 e l’80% di quello del Centro-Nord. Non sono numeri solidi, tutt’altro; del resto ci siamo arrivati per mera speculazione. Con le cifre, specie quelle regionali, è meglio fermarsi al 1871, l’anno più remoto per il quale allo stato dell’arte si riesce ad avere una stima relativamente attendibile, ancorché migliorabile[64]. Quanto detto a noi è servito soprattutto a evidenziare la totale inconsistenza dell’idea, che pure è andata diffondendosi, secondo cui all’Unità il reddito per abitante dei meridionali sarebbe stato pari a quello del resto del paese, se non addirittura superiore. Come abbiamo visto, tali affermazioni non hanno alcun fondamento storico. In un saggio ormai classico, pubblicato oltre cinquant’anni fa sul «Journal of Economic History», Richard Eckaus si proponeva di fornire la prima stima del divario Nord-Sud all’Unità. L’autore passava in rassegna diversi indicatori di produzione per i principali settori dell’economia, raccogliendo tutto quello che potevano offrire le pur 68limitate statistiche del tempo. Concludeva: «È difficile sintetizzare in un unico numero le differenze qualitative e quantitative che si osservano nei diversi comparti […]. Nell’insieme, un divario di reddito pro capite fra Nord e Sud tra il 15 e il 25% appare plausibile». Poche righe più in là aggiungeva che però le precondizioni per lo sviluppo erano migliori nel Settentrione: «un ragionamento a priori condurrebbe a maggiori aspettative per il Nord»[65]. Dopo mezzo secolo di ricerche, un quadro quantitativo molto più approfondito e coerente, rispetto a quel lavoro pionieristico ma accurato, il giudizio di sintesi non sembra cambiato di

molto. E questo, tutto sommato, conforta.
  1. ^ a b Un Regno che é stato grande, Gianni Oliva.