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Storia economica d'Italia (preunitaria)[modifica | modifica wikitesto]

La storia economica dell'Italia preunitaria percorre i cambiamenti economici e sociali del territorio italiano dall'epoca romana fino all'unità d'Italia (1860).

Firenze, Piazza del Mercato Vecchio (1555), affresco di Giovanni Stradano, Palazzo Vecchio, Sala di Gualdrada.

In epoca Romana, la penisola italiana ebbe una densità demografica ed una floridezza economica più elevate rispetto al resto dell'Europa e del bacino del mediterraneo, specie durante i secoli I e II. A partire dal III secolo d.C., l'impero Romano si avviò al declino. e così il territorio italiano e le sue città.

Durante il basso medioevo (secoli VII-IX) l'economia era depressa, di semi-sussistenza, e gravitava attorno ai centri feudali. A partire dal X secolo, la popolazione e l'economia italiane cominciarono nuovamente a crescere, assieme ai centri urbani. Si svilupparono col tempo estese reti commerciali che legavano i centri italiani ad un bacino di relazioni dall'Asia all'Europa settentrionale. Questi centri di attività manifatturiere, finanziarie, mercantili e culturali resero l'economia italiana più prospera degli altri paesi europei.

L'arrivo della peste nera alla metà del 1300 decimò la popolazione, ma fu presto seguita da una rinascita economica. Questa crescita produsse una florida economia rinascimentale, avanzata rispetto agli paesi europei. I settori di punta del territorio italiano erano il tessile (lavorati di lana e seta, ampiamente esportati), i servizi bancari e i trasporti marittimi

Nel corso del 1600 il sistema economico si indebolì e le imprese legate ai maggiori centri urbani declinarono. Olanda, Inghilterra e Francia assunsero un ruolo economico prominente in Europa e l'Italia perse la posizione dominante nelle esportazioni tessili, nelle intermediazioni finanziarie e nei trasporti marittimi. La stagnazione avviò una frantumazione delle relazioni economiche nell'area italiana.

Prodotto interno lordo (PIL) reale del territorio italiano per abitante durante il periodo 1310-2018. Nel lungo periodo, la ricchezza media degli italiani è rimasta pressoché costante fino alla rivoluzione industriale della fine del 1800. I cicli economici che si sono succeduti nel corso di molti secoli precedenti, con fasi di crescita e di crisi, non hanno prodotto un significativo cambiamento economico (in termini di PIL per abitante).[1]

Tra il Settecento e la metà dell'Ottocento, l'Italia rimase suddivisa in piccoli stati, molti dei quali sotto dominazione straniera: questo contesto non favorì la crescita e la competitività economiche e commerciali dell'area italiana. Tuttavia, alcuni stati italiani avviarono importanti riforme economiche che avrebbero avuto implicazioni di lungo termine. Si cominciarono a manifestare chiare differenze socio-economiche tra il nord ed il sud.

Epoca romana[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Economia romana.

Ascesa (secoli III a.C-II d.C)[modifica | modifica wikitesto]

Storici ed economisti hanno cercato di ricostruire una visione dell'economia dei secoli romani e dei suoi cambiamenti secondo l'interpretazione contemporanea dell'economia; alcuni hanno anche intrapreso studi quantitativi. Gli studi non sono giunti a risultati precisi generalmente condivisi. Tuttavia, alcune nozioni generali sull'economia dell'epoca romana sono divenute abbastanza accette.[1]

La penisola italiana aveva una densità demografica ed una floridezza economica più elevate rispetto al resto dell'Europa e del bacino del mediterraneo. Questo vale in particolar modo per i secoli I e II, che rappresentarono un periodo di relativa stabilità politica e di picco delle condizioni economiche. Le stime demografiche della popolazione italiana dell'epoca romana variano. Le più accettate la attestano a 7-8 milioni. Alcuni studiosi la stimano fino a 15-16 milioni: questa stima rappresenterebbe un livello che successivamente sarebbe stato raggiunto di nuovo solo del XVIII secolo.[1]

Il potere economico imperiale accentrava verso l'Italia il flusso di risorse economiche dalle provincie. La relativa floridezza economica era anche sostenuta da istituzioni politiche ed amministrative avanzate (incluso il sistema giuridico); dalle competenze tecnologiche (specie nel settore delle costruzioni) e scientifiche; e dal generale progresso culturale, soprattutto nelle numerose città.[1]

Ricostruzione digitale della Basilica Giulia a Roma. Le basiliche civili, costruite vicino al foro delle città romane, erano sedi di tribunali e altre istituzioni pubbliche. Oggi non abbiamo una comprensione dettagliata dell'economia romana, perché le fonti sui fattori economici del tempo sono limitate. Tuttavia, è comunemente accettato che il corpo di leggi ed istituzioni pubbliche romane produssero un contesto importante e relativamente omogeneo che favorì la vita economica dell'impero.[2]

Le valutazioni quantitative dell'economia romana oggi disponibili sono considerate speculative. Tuttavia, al di là delle cifre assolute, esse suggeriscono una ricchezza significativamente maggiore nella penisola rispetto ad altre regioni dell'Europa meridionale e del bacino del Mediterraneo. Soprattutto, le stime ipotizzano che, durante i tre secoli precedenti l'età Augustea, ci sia stata una crescita del reddito pro-capite medio: per osservare un'altra evenienza del genere, occorre attendere fino all'insorgere dell'età industriale.[1]

Declino (secoli III-VI d.C.)[modifica | modifica wikitesto]

A partire dal III secolo d.C., l'impero Romano si avviò al declino. Gli storici hanno proposto centinaia di teorie sulle sue cause (politiche, economiche, demografiche, sociali, culturali, ambientali): è probabile che molti fattori abbiano concorso a causarlo. Un fatto oggettivo fu il declino demografico che colpì la penisola, che alcuni storici legano a due pandemie (II e III secolo).[1]

Alla fine del III secolo l'amministrazione dell'Imperatore Diocleziano introdusse un'importante riforma fiscale: per la prima volta la popolazione italiana veniva tassata (prima era esente). La tassazione colpì particolarmente le zone meno popolose dell'Impero e contribui all'ulteriore calo demografico nelle regioni occidentali, tra cui in Italia. Per permettere la stabilità fiscale di fronte al declino demografico ed economico, l'Impero impedì ai contadini di muoversi, e li vincolò alla terra; anche agli appartenenti ad alcune professioni cittadine venne proibito di muoversi. Lo spostamento della capitale imperiale a Costantinopoli nel 330 d.C. allontanò il centro politico e sociale dall'Italia e contribuì al suo ulteriore declino. Le invasioni dei Goti e dei Vandali (V secolo) e la lunga guerra di riconquista di Giustiniano (VI secolo) accelerarono il forte calo demografico della penisola.[1]

Assieme ai cambiamenti demografici, politici ed economici, il territorio italiano vide anche un declino delle realtà urbane la cui ricchezza culturale aveva sostenuto la sua età più florida. L'amministrazione imperiale estraeva risorse a vantaggio di sé stessa, dei grandi proprietari terrieri e, in misura crescente, del clero, mentre reprimeva la vitalità sociale del territorio italiano, ormai periferico all'Impero. Anche la cultura cominciò cambiare, allontanandosi dai valori delle epoche precedenti.[1]

Medioevo[modifica | modifica wikitesto]

Basso medioevo (secoli VII-IX)[modifica | modifica wikitesto]

Nel Basso Medioevo le città furono largamente spopolate e le campagne si impoverirono. La vita economica era depressa e ruotava attorno centri delle proprietà feudali (abbazie e castelli). L'economia rurale era basata su una produzione agricola di semi-sussistenza. Il commercio era limitato e avveniva tramite fiere annuali.[3]

Alto Medioevo (secoli X-XV)[modifica | modifica wikitesto]

Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del buon governo in città. (1338-1339), Palazzo Pubblico, Siena

A partire dal X secolo, la popolazione e l'economia italiane cominciarono nuovamente a crescere. Alcune innovazioni tecnologiche migliorarono la produttività agricola: la rotazione triennale delle colture e il miglioramento dell'aratura tramite l’adozione dell’aratro pesante a ruota ed una maggiore diffusione del cavallo, piuttosto che di bovini. Si diffuse anche l'uso industriale del mulino ad acqua nelle manifatture tessili, metalliche ed altre ancora. [3]

Secondo molti studiosi, la popolazione raddoppiò tra il X e il XIV secolo (analogamente ad altri paesi europei). E' stato stimato che nel 1300 il 21% della popolazione italiana (stimata attorno ai 13 milioni) vivesse in città: il tasso di urbanizzazione era simile in Spagna, ma molto inferiore in Francia, Germania e Regno Unito.[1] Al'inizio del XIV secolo, Milano, Venezia e Firenze contavano più di 100,000 abitanti; c'erano 43 città con almeno 15,000 abitanti. [4]

Dal XIII secolo soprattutto al nord e al centro, le città fiorirono come centri di attività manifatturiere, finanziarie, mercantili e culturali. Vi si sviluppò gradualmente una società più complessa di quella rurale: la parte economicamente dominante, che prese il nome di borghesia, era costituita da commercianti, imprenditori, professionisti, banchieri e artigiani. Lo sviluppo delle istituzioni comunali consentì a molte città di fiorire come centri indipendenti, gestiti dalle classi economicamente più influenti, e autonomi rispetto al sistema feudale rurale.[3]

Si svilupparono col tempo estese reti commerciali che legavano i centri italiani ad un bacino di relazioni dall'Asia all'Europa settentrionale. Le principali città commerciali italiane (Pisa, Venezia e Genova) si avvantaggiarono dell'espansione militare occidentale ( le ripetute crociate), a cui offrivano servizi logistici e finanziari. Frequentemente l'espansione coloniale e commerciale era intrapresa in maniera molto aggressiva tramite la pirateria.[3][5] Gli scambi commerciali alimentarono le capacità manifatturiere, anche nei settori come il tessile, tramite contatti con le Fiandre e l'Inghilterra, dove vi era la produzione tessile più sofisticata. Le città commerciali italiane importavano questi che erano i prodotti industriali di pregio dell'epoca, per riesportarli verso il bacino del Mediterraneo, da cui importavano poi spezie, seta, cotone e molti altri prodotti.[3] Lungo le rotte commerciali, in cui l'Italia era spesso centrale, viaggiavano conoscenze e innovazioni tecnologiche, che amplificarono l'impatto economico e sociale del commercio. Ci furono importanti innovazioni nei sistemi produttivi. La diffusione di contratti di affitto e mezzadria favorirono una economia agraria più orientata al mercato. Lo sviluppo dei sistemi legali consentì la crescita delle società mercantili e finanziarie.[1] Il ducato d'oro veneziano e il fiorino fiorentino divennero le principali valute per gli scambi commerciali in Europa. Le maggiori compagnie bancarie italiane (specialmente quelle fiorentine) operavano su una vasta scala internazionale.[3]

Pur tra grandi incertezze, è stato stimato che il PIL pro-capite italiano durante l'alto medio-evo fosse molto maggiore di quello degli altri paesi mediterranei e nord-europei, che in quell'epoca vissero invece una lunga stagnazione economica. La crescita economica in Italia produsse un chiaro miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.[1]

L'espansione economica di molte città europee durante i secoli XI-XIII è stata associata ad un boom nella costruzione di cattedrali. La costruzione di una cattedrale cittadina rappresentava uno dei più grandi investimenti in infrastrutture dell'epoca. I cantieri duravano decenni o anche secoli. L'avvio della costruzione del duomo di Siena risale ad almeno la fine del XII secolo. All'inizio del 1300 la floridezza economica della città stimolò un ambizioso progetto di espansione. Il progetto venne abbandonato dopo la peste del 1347. La nuova facciata incompiuta rimane a testimoniare plasticamente l'impatto di quella crisi economica e sociale.[6]

Nel 1347 la peste nera arrivò in Europa, uccidendone in pochi anni un terzo della popolazione. In Italia, questa catastrofe demografica fu molto accentata. Fu tuttavia seguita dopo pochi decenni da una rinascita economica. La mancanza di manodopera fece infatti innalzare i salari dei lavoratori in città (attraendovi più gente) e diminuire gli affitti agrari (beneficiando i contadini e indebolendo i feudatari). Il potere politico non era centralizzato, ma si stava trasformando sempre più in una molteplicità di centri e sistemi politici, tra i numerosi conflitti che divisero Chiesa e Impero, città e feudatari, e i centri tra loro. Questa decentralizzazione, che non era solo politica, ma anche culturale, diede una nuova direzione alla rinascita economica: favorì la crescita delle città piuttosto che il rinsaldamento del sistema feudale (come era accaduto durante la crisi demografica del II e III secolo d.C). Dopo la peste, crebbero ancora il commercio, la produzione manifatturiera, le università, le società corporative, la partecipazione dei ceti più poveri nell'economia, e le istituzioni giuridiche e culturali che permisero l'espansione dell'economia di mercato.[1]

Età moderna[modifica | modifica wikitesto]

Rinascimento (XVI secolo)[modifica | modifica wikitesto]

Nella seconda metà del 1500 le più ricche famiglie di commercianti, banchieri e armatori genovesi costruirono una serie di palazzi di residenza e rappresentanza lungo la Strada Nuova, fuori dal centro medioevale. Questo sviluppo urbanistico è la testimonianza fisica del picco dell'economia marittima e finanziaria genovese.[5]

Le ripetute ondate di peste che si succedettero tra il 1350 e il 1450 probabilmente dimezzarono la popolazione urbana italiana. L'indebolimento dei piccoli centri favorì l'espansione regionale delle principali città: Venezia, Milano, Firenze e Genova proiettarono una maggiore stabilità politica e territoriale. La ripresa economica si accentuò particolarmente in Italia centrale a partire dal 1450. Si diffusero la lavorazione della seta, e nuove industrie, come le armi da fuoco e la stampa. [7]

La crescita, che aveva dunque le sue radici nella crisi demografica dell'alto medioevo, produsse una florida economia rinascimentale, avanzata rispetto agli paesi europei. I settori di punta del territorio italiano erano il tessile (lavorati di lana e seta, ampiamente esportati), i servizi bancari e i trasporti marittimi. E' stato stimato che il reddito pro capite in Italia centro-settentrionale raggiunse un livello che sarebbe poi stato raggiunto nuovamente solo alla fine del XIX secolo. La crescita premiò l'elite: c'era una forte diseguaglianza economica. Questa espansione economica fu alla base della fioritura culturale ed artistica dell'epoca.[7]

Stagnazione del 1600[modifica | modifica wikitesto]

Nel corso del 1600 il sistema economico si indebolì. Olanda, Inghilterra e Francia assunsero un ruolo economico prominente in Europa e l'Italia perse la posizione dominante nelle esportazioni tessili, nelle intermediazioni finanziarie e nei trasporti marittimi. A causa del declino delle imprese cittadine, l'Italia divenne un paese importatore di manufatti anche tessili ed esportatore di prodotti agricoli primari (olio, grano, vino, lana e seta).[3]

La misura di questo declino è dibattuta e le stime degli storici rimangono incerte. Secondo alcuni si trattò di un vero declino, secondo altri ci fu una stagnazione economica che produsse un declino competitivo relativo ad altre economie europee. Le economie di Olanda e Inghilterra, e poi Francia e Germania, in quel periodo furono molto più dinamiche e si avviarono verso una più precoce rivoluzione industriale.[1]

Modello di mulino a seta bolognese. Dal secolo XV Bologna si affermò come il maggiore centro europeo di produzione di filati e veli di seta. Dal XVI secolo venne introdotto uno speciale mulino, alimentato da ruota idraulica, capace di meccanizzare il processo di incannatura e torcitura del filo di seta. La macchina è considerata come la più alta tecnologia europea prima della macchina a vapore e anticipa il sistema di fabbrica della Rivoluzione Industriale. Nel 1683 la città contava 119 mulini a seta. L'industria bolognese poi decadde nel corso del XVIII secolo.[4][8][9]

Gli storici hanno proposto diverse cause di questa evoluzione: le epidemie di peste, che provocarono un forte calo demografico nel corso del 1600; la crescente centralità del commercio transatlantico rispetto a quello mediterraneo; l'impatto delle guerre combattute da potenze straniere in Italia e della dominazione degli spagnoli al sud (che tassarono pesantemente i territori da loro controllati). Secondo altri storici, questi fattori da soli non sono sufficienti a spiegare la stagnazione italiana del 1600 perché molti di essi toccarono anche altri paesi europei che invece dimostrarono maggiore dinamismo economico. Sul piano politico, le piccole realtà regionali italiane non avevano una dimensione sufficiente per sostenere le proprie economie con adeguati interventi di politica monetaria e commerciale o investimenti nei trasporti. Questo svantaggiò gli attori economici italiani nella competizione commerciale, delle rotte mercantili e dell'espansione coloniale.[1]

E' stato inoltre ipotizzato che l'economia italiana del 1500 fu florida ma cresciuta in un modo sbilanciato che ebbe conseguenze: la rapida crescita dei settori economici di punta e della popolazione in quel periodo fece crescere i prezzi dei prodotti agricoli (perché ne aumentò la domanda) innalzando il rendimento delle terre; ciò avvantaggiò i proprietari terrieri e svantaggiò i settori più innovativi dell'economia. Col tempo, la crescente diseguaglianza economica, inasprita anche da una forte tassazione indiretta da parte delle piccole realtà politiche, limitò la domanda locale dei prodotti più innovativi, che non erano accessibili alla grande maggioranza della popolazione. Quindi la crescita non alimentò una domanda interna capace di sostenere lo sviluppo di industrie e servizi sofisticati. I fondamenti della crescita vennero quindi meno, contribuendo al declino nel secolo successivo.[1][4]

Sono stati pure proposti fattori culturali e istituzionali che hanno contribuito a ritardare la crescita del'economia di capitali e imprenditoriale italiana rispetto a quella di altri paesi europea nel corso del XVII secolo: una minore apertura culturale all'innovazione; e l'influenza di istituzioni conservatrici, quali le corporazioni e le piccole signorie locali, che regolavano rigidamente e difendevano lo status-quo, ostacolando l'innovazione produttiva.[1][4][10]

Napoli, piazza del mercato, XVII secolo. Dipinto di Micco Spadaro.

Questo insieme di fattori generò dunque una prolungata stagnazione economica. I capitali disponibili presso le classi urbane più ricche furono investiti più che in settori produttivi, in misura notevole in arte ed edifici religiosi e civili. Tali investimenti produssero l'esteso patrimonio artistico ed architettonico che l'epoca ha lasciato a sua testimonianza.[1] La stagnazione avviò una frantumazione delle relazioni economiche nell'area italiana, e una crescente divergenza tra nord e sud: il declino commerciale del nord fece sì che la produzione agricola meridionale cadesse nelle reti commerciali di Inghilterra, Francia e Paesi Bassi.[4]

Dal Settecento all'Unità[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Industria preunitaria lombarda.

Tra il Settecento e la metà dell'Ottocento, l'Italia rimase suddivisa in piccoli stati, molti dei quali sotto dominazione straniera (austriaca e francese): questo contesto non favorì la crescita e la competitività economiche e commerciali dell'area italiana. Tuttavia, alcuni stati italiani avviarono importanti riforme economiche e cominciarono a manifestarsi chiare differenze socio-economiche tra il nord ed il sud.[1]

La Lombardia, dominata dall'Austria, vide lo sviluppo dell'economia più diversificata tra gli stati italiani: agricoltura intensiva (con forti investimenti nell'irrigazione); produzione della seta grezza assieme all'industria di filatura; industrie metalmeccaniche (piccole ma importanti imprese tra cui Regazzoni, l'Elvetica, la Grondona, le industrie d'armi del bresciano, le ferriere del lecchese e di Dongo); numerose istituzioni bancarie (tra cui la Cassa di Risparmio delle Province Lombarde fondata nel 1823); una buona rete di trasporti ferroviari e stradali; e significativi investimenti nell'istruzione pubblica. Dal 1718 fu introdotto il catasto teresiano: questa riforma, che si protrasse per oltre quarant'anni, modernizzò profondamente il regime agrario. [4]

Filanda a Boffolara Ticinese: la Filanda Mylius, dipinto di Giovanni Migliara (1828).

Riforme amministrative di rilievo sociale ed economico vennero intraprese anche in Toscana e Piemonte.[1] In Piemonte la ricchezza non era limitata solo ai nobili, ma diffusa tra banchieri, commercianti e imprenditori tessili. In Veneto, dominato dall'Austria, non si seppe sviluppare un'agricoltura intensiva come in Lombardia, e superare la stagnazione indotta dal declino di Venezia. La Toscana, anch'essa dominata dagli Austriaci, rimase fondamentalmente un'economia agricola; c'erano piccole realtà industriali, ma le politiche commerciali fortemente liberali del Granducato non ne favorirono lo sviluppo. Livorno approfittò della liberalizzazione commerciale e divenne un vibrante porto-franco. Le antiche compagnie bancarie toscane invece non si svilupparono al passo dei tempi.[4]

A Genova la ricchezza accumulata in secoli di commercio rimase accentrata in un ristretto gruppo di banchieri che erano attivi in tutta Europa. Nel 1845 fu fondata la Banca di Genova, che poi costituirà la Banca Nazionale degli Stati Sardi, denominata dopo l'unificazione Banca Nazionale nel Regno d'Italia (in seguito Banca d'Italia). C'erano anche alcune rilevanti realtà industriali (tra cui Ansaldo, il Cantiere della Foce e I'Arsenale).[4]

Le amministrazioni pubbliche dello Stato della Chiesa, in Sardegna e dell Regno delle Due Sicilie rimasero arretrate. Vi furono conservati per molto tempo i regimi agrari tradizionali di stampo feudale, che produssero una forte concentrazione di beni economici: è stato stimato che alla fine del XVIII secolo 650 latifondisti laici e ecclesiastici controllassero il 60% del prodotto nazionale del meridione continentale.[4] Nel Regno delle Due Sicilie il regime feudale fu abrogato solo nei primi anni dell'Ottocento. Gli investimenti pubblici furono molto limitati in infrastrutture agricole (la produttività agricola meridionale dell'epoca è stata stimata ad un terzo di quella lombarda) e nei trasporti. Il sistema del credito rimase molto modesto. Ci furono tentativi di stabilire una base industriale in Campania, ma furono frutto di investimenti ed imprenditori stranieri piuttosto che locali; gli agrari locali sfruttarono il commercio dei prodotti agricoli, ma non diedero impulso ad investimenti manifatturieri significativi. A partire dal Congresso di Vienna (1814) vi si inasprirono la restaurazione e la repressione politica e sociale, tra cui un decadimento dell'istruzione pubblica.[1][4]

Anche in Sardegna l'amministrazione dei Savoia mantenne a lungo il latifondo di stampo feudale: fu bandito formalmente solo nel 1835-1839, contribuendo al perdurare dell'arretratezza economica e sociale.[4]

Il Risorgimento fu alimentato prevalentemente da fattori ideali e culturali, piuttosto che economici. La richiesta di partecipazione politica che esso veicolò tuttavia fu anche espressione del crescente desiderio dei ceti borghesi ed imprenditoriali di avere un maggiore peso politico. Parimenti, le aspirazioni di unificazione nazionale erano anche coerenti con le attese di uno stato-nazione indipendente, più grande ed efficace nel sostenere la crescita dell'economia di mercato e dei capitali, rispetto ai deboli stati regionali.[1]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u Felice, 2015.
  2. ^ Peter Temin, The Economy of the Early Roman Empire, in The Journal of Economic Perspectives, vol. 20, n. 1, 2006, pp. 133–151.
  3. ^ a b c d e f g Cipolla, 1997
  4. ^ a b c d e f g h i j k Zamagni, 2005
  5. ^ a b Pettinotti, Paola, Storia di Genova : dalle origini ai nostri giorni, Biblioteca dell'Immagine, 2017, ISBN 978-88-6391-266-1, OCLC 1020572259.
  6. ^ Eltjo Buringh, Bruce M.S. Campbell e Auke Rijpma, Church building and the economy during Europe’s ‘Age of the Cathedrals’, 700–1500 CE, in Explorations in Economic History, vol. 76, 2020, pp. 101316, DOI:10.1016/j.eeh.2019.101316.
  7. ^ a b Malanima, Paolo, Italy in the Renaissance: a leading economy in the European context, 1350-1550, in The Economic History Review, vol. 71, n. 1, 2018, pp. 3–30, DOI:10.1111/ehr.12650.
  8. ^ Il mulino da seta bolognese (o rotondo), su trama-e-ordito.blogspot.com.
  9. ^ Museo del patrimonio industriale di Bologna, Il segreto del mulino da seta alla bolognese (PDF), su informa.comune.bologna.it.
  10. ^ Toniolo e Bastasin, 2020.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]

Fonti enciclopediche[modifica | modifica wikitesto]

Documentari e lezioni video[modifica | modifica wikitesto]

Dati storici[modifica | modifica wikitesto]