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Antonio Ventimiglia Prades

Domenico Gagini e l'ingresso delle Madonie nel Rinascimento[modifica | modifica wikitesto]

Le fonti datano le opere di Domenico Gagini, lombardo proveniente dalla bottega toscana del grande Filippo Brunelleschi, in San Mauro e Geraci dal 1475 al 1480, esattamente in corrispondenza della signoria del marchese Antonio Ventimiglia. Il riferimento è alle sculture della Madonna della Porta nella chiesa di S. Maria La Porta di Geraci (1475), e alla Madonna del Soccorso, opera gaginesca di S. Maria dei Franchi in San Mauro Castelverde (1480), che si accompagna a quella vicina della chiesa di S. Mauro, cinquecentesca ma con basetta che le fu adattata di un cinquantennio anteriore, che attirò l'attenzione della critica d'arte Accascina per la data, 1477, con le sculture di due teste di cherubini e due profeti svolgenti un rotolo "di tal modellato da far subito pensare a Domenico Gagini". [1] La data della base scultorea gaginiana ci riporta a una pergamena coeva, del 14 agosto del 1477, in lingua volgare e scrittura corsiva umanistica, con tracce del sigillo di Antonio Ventimiglia. Questi infatti nel 1477 approva il progetto di inserire l'abbazia di S. Maria del Parto di Castelbuono - di patronato marchionale - nella Congregazione benedettina riformata di S. Giustina di Padova. [2] Il Gagini, giunto in Sicilia nel 1459 per resataurare i mosaici della Cappella Palatina di Palermo, proveniva dall'esperienza scultorea dell'Arco di Trionfo di Napoli, in cui si celebrava l'ingresso di Alfonso il Magnanimo nella capitale partenopea, insieme a Francesco Laurana, cittadino veneziano di origini dalmate. Il Laurana introduce l'architettura rinascimentale, nel 1468, nel portale della Cappella Bardi-Mastrantonio della chiesa di S. Francesco di Palermo su istanza del committente Antonio Bardi, eletto a più riprese pretore di Palermo, discendente dalla famosa famiglia mercantile fiorentina, nonché barone di Calcusa e Fontana Murata, feudi vendutigli il 29 settembre 1453, con ventennale patto di ricompra, dal genero del marchese Giovanni I, Luciano II Ventimiglia di Castronovo, marito della figlia illegittima Eleonora Ventimiglia, che quelle baronie portò in dote al marito, distaccandole dal marchesato di Geraci. Nella medesima chiesa di S. Francesco, intorno al 1441, il marchese Giovanni I Ventimiglia - insieme all'amico e compagno d'armi Giovanni Filangeri - fondava la Cappella dell'Immacolata Concezione come mausoleo familiare. Qui furono riutilizzati due sarcofagi romani del III-IV secolo, a testimonianza del gusto antiquario e classicista che ispirava i militari reduci dalla Napoli aragonese: Il tumulo di Giovanni figlio di Enrico di Ventimiglia che fu il primo che si nominò marchese di Geraci quasi dell'istessa forma fatto del tumulo del padre...vi si legge Ille iacet...Tumulo di Henrico Ventimiglia senza scritto di forma antica di marmo scrive il Cannizzaro nel XVII secolo[3] Vent'anni appresso, intorno al 1465, il Laurana stesso sembra coinvolto nell'edificazione del nuovo mausoleo dei Vetimiglia, spostato da Palermo a Castelbuono, nel cuore della signoria marchionale, con l'edificazione della Cappella di S. Antonio di Padova, esterna alla chiesa di S. Francesco:

La eccezionalità di questa cappella, finora quasi ignorata dalla critica, non può che nascere dall’incontro della volontà di un committente particolare quale fu Giovanni Ventimiglia, primo marchese di Geraci, con le capacità creative di un artista eccezionale quale fu Francesco Laurana, cui con buona probabilità va attribuita la sua ideazione, insieme forse ad alcune delle parti scolpite… Nell’immaginare il proprio mausoleo Giovanni Ventimiglia ha probabilmente in mente analoghe costruzioni già esistenti, edifici con una spiccata centralità, che preannunciano il Rinascimento e fra i quali, credo, una menzione particolare spetti alla cappella Caracciolo del Sole a Napoli[4]

Il figlio di Domenico, Antonello Gagini, dal 1504 al 1506 trova il tempo per un soggiorno a Roma presso Michelangelo, collaborando alla tomba di Giulio II , di ritorno a Palermo fu assunto nel 1507 da Simone I Ventimiglia, maestro marammerio della cattedrale di Palermo e nipote del marchese Antonio, per l'edificazione della monumentale tribuna:

Tribuna della Cattedrale di Palermo

. Doveva esser quella dal pavimento alla sommità di altezza di dieci canne e quattro palmi (m. 21.63), e di ampiezza quanto l'intero vano semicircolare della tribuna, a contar dalle due ultime colonne sotto il grand'arco esteriore di essa. Stabilivasi per allora , che , decorando tutto questo spazio di marmi con corrispondenti basi, pilastri, cornici ed ogni maniera di opportuni ornamenti , eravi a dar luogo a due ordini di statue, dodici per ciascuno, oltre di quelle della parte centrale in fondo, e tutte alte otto palmi (m. 2.06), collocate in lor nicchie fra' lor pilastri rispettivi. Ricorrer doveva nel primo i dodici apostoli in lor vari atti al vivo , con altrettante storie della lor vita e martini al di sotto, e negli spazi sovrastanti alle loro nicchie altrettanti angeli, ciascuno di quattro palmi (m. 1.03), in più che mezzo rilievo e con simboli in mano: nel secondo i quattro evangelisti, i quattro dottori ossien padri della Chiesa e quattro sante vergini, cioè S. Cristina, S. Agata, S. Lucia e S. Cecilia, con che al di sopra di dette dodici statue si desse luogo all'architrave con fregio e cornice, e nel fregio medesimo ad una schiera di angeli di oltre a mezzano rilievo e di altezza proporzionata a tre palmi (m. 0.77), conforme sempre al tenor del disegno. Nello spazio centrale in iondo, fra' detti due ordini, sul luogo appunto, dove sorgeva allora il seggio dell'arcivescovo dietro l'altare, era intanto a dar luogo in basso a due storie di Nostra Donna in corrispondenza a quelle degli apostoli, e poi ad una figura di lei sedente col figlio in grembo, da porsi in una nicchia o tribuna tutta di marmi, con fogliami, rosoni, angeli e tutt'altri opportuni lavori, e più su infino al sommo ad una grande storia, in più che mezzo rilievo, dell'Assunzione della medesima, con gli apostoli attorno, ed in alto Cristo in rilievo e in sembiante di accoglierne l' anima.[5]

La temperie culturale e l'ambiente familiare in cui agiscano i marchesi Giovanni e Antonio Ventimiglia sono contrassegnati dalla riscoperta dei temi del classicismo - occasionalmente presenti sin dal Trecento nell'architettura siciliana, influenzata dai monumentali resti della locale civiltà greco-romana -. Il giuramento al nuovo sovrano Giovanni II d'Aragona, come notato, vede accanto ai due Ventimiglia Antonio Pietro Barresi, barone di Pietraperzia e Militello, fratello di Tommaso - o Mase Barresi - duca di Castrovillari e conte di Terranova in Calabria, marito e erede di Giovanna Centelles, figlia di Antonio Centelles y Ventimiglia, conte di Collesano e Catanzaro, cugina consanguinea dei marchesi di Geraci. Lo stesso Mase Barresi, capitano d'armi in Calabria del re Alfonso il Magnanimo, il Barresi che gli umanisti di corte paragonano a Ercole e Atlante.

Nella seconda metà del Quattrocento Messina diviene il centro economico e culturale di una regione estesa alla Calabria - la 'Regione dello Stretto' -, dove è nominato viceré il valenzano Francesco Siscar, marito di Eufemia Ventimiglia nipote del marchese Giovanni, e dove Mase Barresi diviene il braccio armato del viceré nella guerra agli Angioini. Altro grande protagonista delle lotte per l'egemonia in Calabria, come osservato, è il nipote Antonio Centelles e lo stesso marchese Giovanni fu regio luogotenete generale nella Calabria sin dal 6 gennaio 1441. La stessa presenza di Antonio Ventimiglia, come capitano d'armi, in Messina e Valdemone tra il 1453 e il 1462 denota la costante presenza politica dei marchesi di Geraci nella vitale area culturale e economica - aperta ai commerci con l'Italia e il Nord Europa - all'epoca del passaggio da Napoli alla Sicilia dei maggiori esponenti del Rinascimento. Lo stesso pittore Antonello da Messina - che introduce in Italia la pittura a olio, basata su olio di lino e resina di larice - opera tra Calabria e Messina negli anni 1457-1465, dove dipinge il celebre Ritratto d'ignoto, che fu proprietà sin dal XVIII secolo dei baroni Piraino affittuari e poi vassalli dei Ventimiglia, viventi sin dal XVI secolo in Castelbuono[6]; un ritratto misterioso attribuito da alcuni al grande umanista e teologo francescano Francesco Vitali da Noicattaro, segretario di Ferdinando I di Napoli, arcidiacono di Siracusa e vescovo di Cefalù, da altri, come Roberto Longhi, a un locale barone. [7]

Il Pentittico di Castelbuono, attribuito al pittore Pietro Ruzzolone, in basso al centro il committente inginocchiato di fronte alla Madonna allattante, Giovanni I Ventimiglia (1383-1475)

Allo stesso Antonello o all'unico erede degno del maestro, Pietro Ruzzolone, si attribuisce il pentittico di s. Guglielmo dell'Abbazia di S. Maria del Parto, risalente al tempo di Giovanni I, ivi rappresentato: Non saprei altrimenti ad altro pittore attribuirla, giacché in Palermo e in Messina ed altrove in Sicilia dopo il famoso Antonello non trovo alcun di quel tempo, per quanto insigne maestro, che abbia giammai raggiunto cotanta eccellenza. [8]

L'attribuzione a Riccardo Quartararo, nel 1489, dell'opera di s. Guglielmo appare infatti quanto meno avventata se non infondata, sia per elementi stilistici sia storici; poiché Giovanni e Antonio a quella data sono da tempo defunti e i rispettivi nipoti e figli sono all'epoca in esilio, rientrando a Castelbuono soltanto l'anno successivo:

Il documento, pubblicato da F. Meli, Regesto cit., 1965, p. 379, attesta l’impegno preso da Niccolò di Randazzo pictor de civitate Montis Regalis con Reccardo de Quartarario di ingessare e dorare adeguatamente l’yconam Castriboni pictorandam per ipsum magistrum Reccardum”, della quale non si precisa né l’iconografia né la specifica destinazione, solamente le modalità del pagamento a Niccolò da parte del Quartararo, ivi compresa, venendo Niccolò a Castelbuono, la spesa di una cavalcatura. M. Andaloro (Riccardo Quartararo dalla Sicilia a Napoli, in ‘Annuario dell’Istituto di Storia dell’Arte’, Università degli Studi di Roma, a.a. 1974/75-1975/76, pp. 88-90) ha ritenuto di poter individuare l’opera in questione in un rovinatissimo polittico trasferito all’inizio del secolo scorso dalla chiesa di Sant’Antonio Abate, poi distrutta, alla Matrice nuova, raffigurante nel corpo centrale la ‘Madonna con il Bambino’ e ai lati ‘Sant’Antonio Abate’ e ‘Sant’Agata’, che però non presenta alcun punto di contatto con il profilo via via delineatosi del pittore, allora vicino ai cinquant’anni, né con quanto si verrà qui di seguito evidenziando.[9]

Antonello, prima di operare a Messina e Calabria, dal 1443, secondo l'umanista Summonte, è in Napoli, nella bottega del pittore Colantuono, al seguito dei siciliani che militano nell'esercito di re Alfonso, che in quell'anno accompagnano l'ingresso trionfale del re aragonese nella capitale partenopea. Antonello è nipote di Michele, proprietario di un brigantino collegato all'ambiente commerciale di Messina, cardine dei traffici mediterranei, in stretta relazione con gli ambienti fiamminghi, mentre Napoli è aperta agli influssi provenzali e borgognoni per il breve regno di Renato d'Angiò allontanato dagli Aragonesi. Lo stesso Antonio Ventimiglia, come osservato, entra in contatto con l'ambiente dei principi di Taranto e dei conti provenzali di Clermont tramite la moglie Margherita, aprendosi a tradizioni e esperienze esotiche insite nel cosmopolita ambiente commerciale messinese. Il suocero Tristano, conte di Copertino e Brie in Champagne, aveva sposato Caterina Orsini. Pons Guilhem de Clermont, cognato del Ventimiglia, nel 1462 è luogotenete generale di Roussillon e Cerdagne, nel 1465 luogotenente pur in Linguadoca - fino alla morte nel settembre 1474 - e gran ciambellano di Francia per conto di re Luigi XI di Francia[10] La prima azione di Luigi XI fu di sfruttare la crisi di successione nel regno di Aragona. In effetti, Alfonso il Magnanimo era morto nel 1458. Giovanni II, fratello del defunto, si contendeva il trono con il figlio Carlo di Viana, che Antonio e Ferdinando Ventimiglia avrebbero voluto re di Sicilia, in contrasto con il padre Giovanni II. Carlo di Viana fu ritrovato morto nel settembre del 1461, il che fece scattare una guerra civile tra Giovanni II e le città, in particolare Barcellona. Luigi XI tentò di allearsi con gli Stati della Catalogna. Di fronte al loro cortese rifiuto, egli si rivolse a Giovanni II, il quale gli cedette le entrate delle contee di Rousillon e Cerdagne in cambio del suo aiuto. In seguito al trattato di Baiona del 9 maggio 1463, stipulato con Giovanni II d'Aragona, Luigi XI inviò successivamente a sud-est due eserciti, di cui il secondo, comandato da Giacomo d'Armagnac, duca di Nemours, s'impadronì del Rossiglione.

Nel testamento del 1479, Antonello da Messina esplicita la propria adesione al movimento francescano dell'osservanza, dichiarando la volontà d'essere sepolto con l'abito del terz'ordine laicale, e avvicinandosi quindi al movimento che nei marchesi di Geraci aveva trovato i maggiori referenti siciliani.[11]

Eleonora Speciale, la madre di Antonio Pietro Barresi, il barone che condivide il procuratore De Benedictis con i marchesi di Geraci suoi parenti, intorno al 1470 commissiona a Francesco Laurana il busto del fratello Pietro Speciale.

Le relazioni di Antonio e Ferdinando Ventimiglia con il principe Carlo de Viana, mecenate e umanista traduttore dell'Etica Nicomachea, sono confermate pure dalla presenza del cugino Francesco Ventimiglia, figlio di Guido e nipote di Francesco II, nel 1439 in Navarra come maestre de hostal o maggiordomo di Agnes de Kleve, moglie di Carlo e regina consorte di Navarra, ovvero della nipote di Filippo III di Borgogna. Francesco era figlio di Isabel Navarro e nipote di Joan Navarro, segretario di Giovanni II d'Aragona padre di Carlo.[12]


  1. ^ M. Accàscina, Una madonna di Domenico Gagini a San Mauro Castelverde,
  2. ^ I. CARINI, Inventario delle pergamene che si comprendono nel tabulario del Monastero di S. Martino delle Scale, doc. n. 0866 (manoscritto conservato presso la sala di studio dell'Archivio di Stato di Palermo al numero 93),
  3. ^ V. Tusa, I sarcofagi romani in Sicilia, Palermo 1995, pp. 64-66,
  4. ^ E. Magnano di San Lio, Castelbuono capitale dei Ventimiglia, Catania 1996, pp. 44-45.
  5. ^ Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli 15. e 16.: memorie storiche e documenti, Palermo 1884, 2., pp.218-219.
  6. ^ O. Cancila, Nascita di una città. Castelbuono nel XVI secolo, Palermo 2013, p. 327.
  7. ^ Maria Accàscina, Indagini sul primo Rinascimento a Messina e provincia, in Scritti in onore di Salvatore Caronia, a cura della Facoltà di Architettura dell’Università di Palermo, Palermo 1966, pp. 9-24.
  8. ^ G. Di Marzo, La pittura in Palermo nel Rinascimento. Storia e documenti, Palermo 1899, p. 244.
  9. ^ F. Sricchia Santoro, Pittura a Napoli negli anni di Ferrante e di Alfonso duca di Calabria. Sulle tracce di Costanzo de Moysis e di Polito del Donzello, 'Prospettiva. Rivista di storia dell'arte antica e moderna', n. 159-160 (luglio-ottobre 2015), pp. 25-109, 91.
  10. ^ E. Martin, Chronique et généalogie des Guillem seigneurs de Clermont diocèse de Lodève et des diverses branches de leur famille, Marsiglia 1892, pp. 40-42, 136.
  11. ^ P. Weller, Pain and Pathos: franciscan ideologies and Antonello da Messina's images of Ecce Homo, in Visualizing sensuous suffering and affective pain in early modern Europe and the Spanish Americas, a cura di He. Graham, L. G. Kilroy-Ewbank, Boston 2017, p. 169.
  12. ^ F. Idoate, Catàlogo del Archivo general de Navarra. Catàlogo del la Seccion de Comptos. Documentos, Pamplona 1968, Tomos del 44. al 46. (1439-1450), doc. 246, 642.

Corrado fra leggende agiografiche e tradizioni popolari[modifica | modifica wikitesto]

La figura storica del duca Cono di Ivrea, nella quotidianità eporediese, è ancor oggi relativamente attiva; attraverso la festa patronale di san Savino e la fiera equina del 7 luglio. Narra la leggenda che, nell'anno 956, Corrado duca di Spoleto prelevò da una basilica a poche miglia da Spoleto le reliquie del santo vescovo Savino - "portando con sé il corpo del glorioso Martire e Vescovo S. Savino, che aveva collocato in una cassetta con entrovi i documenti, che ne constatavano l'identità" - e le trasportò a Ivrea - governata dal fratello Guido - per proteggere se stesso e la città piemontese dai pericoli di un'epidemia di "peste" allora in atto. Giunto il duca alle porte di Ivrea, le spoglie del santo iniziarono a essere fonte di miracoli e si meritarono così la venerazione da parte degli eporediesi. Iniziò quindi in quell’epoca la devozione della comunità di Ivrea per san Savino patrono principale della città, festeggiato - sino al 1749 - il 24 gennaio[1].

Lo scenario storico delle leggende[modifica | modifica wikitesto]

Nel 956 sappiamo che imperversava una epidemia di peste in Germania e Francia, ma non possediamo riferimenti nelle fonti italiche[2]. Peraltro altre epidemie, che potrebbero far da sfondo alla leggenda delle reliquie di s. Savino, si registrano nel 976 e nel 997, quando Corrado fu, rispettivamente, marchese di Ivrea e duca di Spoleto. Per il Settia l'arrivo delle reliquie a Ivrea sarebbe da porre tra il 936-940 - quando Anscario II, zio di Corrado, è duca di Spoleto - e il 959 a seguito della cacciata da Spoleto del duca Tebaldo II di Spoleto, da parte di Adalberto II, fratello di Corrado; "ad Spoletensem seu Camerini marchiam debellandam"[3].

  1. ^ " Giovanni Saroglia, Memorie storiche sulla chiesa d'Ivrea. Cenni biografici, Ivrea: Tomatis, 1881, pp. 36-37; Michele Curnis, Presenze di Savino fra letteratura e agiografia, "L'Arduino. Annuario di cultura e varia umanità", 1 (2013), p. 48.
  2. ^ Ferdinand Lot, Naissance de la France, Parigi 1948, p. 510.
  3. ^ La cronaca veneziana del diacono Giovanni, in Cronache veneziane antichissime, a cura di G. Monticolo, 1., Roma: Forzani, 1890, p. 137; Edoardo Manarini, I due volti del potere. Una parentela atipica di ufficiali e signori nel regno italico, Milano: Ledizioni, 2019, p. 75; Aldo A. Settia, L'alto medioevo, in Storia della Chiesa di Ivrea. Dalle origini al XV secolo, a cura di Giorgio Cracco, Andrea Piazza, Roma: Viella, 1998, p. 85-100.