Il giaciglio d'acciaio

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Il giaciglio d'acciaio
Titolo originaleThe Iron Bed
AutoreBen Pastor
1ª ed. originale2011
1ª ed. italiana2011
Genereracconto
Sottogenerethriller, storico, psicologico
Lingua originaleinglese
AmbientazioneStalingrado (URSS), dal 24 dicembre 1942 al 25 gennaio 1943.
Protagonistimaggiore Martin Bora
Coprotagonistisergente Nagel

Il giaciglio d'acciaio è un racconto della scrittrice italoamericana Ben Pastor. Narra la partecipazione all'assedio di Stalingrado di Martin Bora, ufficiale della Wehrmacht già protagonista di una serie di romanzi a sfondo giallo-storico, ambientati durante la Seconda guerra mondiale. Qui Bora è alle prese non con un'indagine, bensì con un'esperienza di tipo più personale.

Il racconto infatti fa parte di un'antologia in cui alcuni autori gialli italiani e stranieri pongono i rispettivi personaggi ricorrenti (tutti in qualche modo investigatori per caso) al centro di storie ove l'aspetto poliziesco manca totalmente, oppure si colloca sullo sfondo di vicende in cui i protagonisti rivelano soprattutto il proprio lato privato.

Struttura[modifica | modifica wikitesto]

Il racconto, preceduto da una breve nota editoriale che illustra le caratteristiche salienti del personaggio (a favore di chi eventualmente non conosca i romanzi) è narrato in prima persona dallo stesso Martin Bora.
Tutti i romanzi, anche se contengono lettere o stralci dal diario del protagonista, sono invece narrati in terza persona.

Titolo[modifica | modifica wikitesto]

Il titolo del racconto richiama il verso di una poesia di Federico García Lorca, parzialmente citata in esergo e anche nel corso della narrazione, in una lettera mai spedita che Bora scrive alla moglie Benedikta.

(ES)

«Verde que te quiero verde.
Verde viento. Verde ramas. [...]
Grandes estrellas de escarcha,
vienen con el pez de sombra
que abre el camino del alba. [...]
Quiero morir,
decentemente en mi cama.
De acero, se puede ser,
con las sábanas de holanda.»

(IT)

«Verde, ti desidero verde.
Verde vento. Verdi rami [...].
Grandi stelle di brina,
vengono con lo squalo d'ombra
che apre il cammino dell'alba [...]
Voglio morire,
decentemente nel mio letto.
D'acciaio, se è possibile,
con lenzuola di tela fine.»

Nel racconto l'idea del "giaciglio d'acciaio" come luogo in cui morire si lega anche allo sfondo dell'azione: Stalingrado, il cui nome significa appunto "città d'acciaio".

Incipit[modifica | modifica wikitesto]

«La strada che da Trakhenen va verso ovest, e porta al bivio qualche chilometro più in là, era quella che in estate da ragazzi percorrevamo spesso in bicicletta, mio fratello Peter e io. Al bivio si può scendere a sud in direzione di Grosswaltersdorf (che in quegli anni prima della germanizzazione conoscevamo ancora come Walterkehmen); oppure si prende il rettifilo che conduce a nord tra i campi, verso Gumbinnen. A un certo punto di questo percorso solitario c'è il cimitero russo della Grande Guerra, alle soglie del bosco. Peter e io ci spingevamo fin lassù a cercare bossoli, fibbie, frammenti di uniforme [...].»

Trama[modifica | modifica wikitesto]

È la vigilia di Natale del 1942: l'assedio di Stalingrado, la cui ultima fase è iniziata a novembre, si trascina stancamente. Per le forze superstiti della 6ª Armata tedesca le cose non si mettono bene: i russi hanno compiuto un accerchiamento quasi completo, immobilizzandole e minacciandole sempre più da vicino. Proprio quel giorno Martin Bora è stato promosso al grado di maggiore[1], ma ha anche ricevuto pessime notizie dal Quartier Generale: i tedeschi non riceveranno né rinforzi né soccorsi e dovranno continuare a cavarsela da soli, finché sarà possibile. È una sorta di implicita condanna a morte di cui Bora, per il momento, informa solo il suo sottoposto, il sergente Nagel.
Natale viene celebrato con sobrietà e tristezza, poi si torna alla situazione ormai consueta: spari dai cecchini, attacchi improvvisi, esplosioni, morti e feriti da entrambe le parti, numerosi suicidi tra le file tedesche.
Come ormai è sua abitudine Bora scrive il proprio diario, e alcune lettere alla famiglia. Ma si fa anche travolgere da pensieri e ricordi, da immagini del passato dominate - per contrasto con il biancore oppressivo della neve che lo circonda - dal colore verde: il verde delle foglie, dell'erba, di un abito della moglie, della vita, derivato in parte dalla suggestione contenuta nei versi iniziali di una ballata di Federico García Lorca.[2]
Dopo circa un mese la situazione è ancora invariata. il Quartier Generale cessa di inviare ordini, lasciando in pratica i reparti liberi di scegliere cosa fare o come morire. Non più obbligati a mantenere la posizione, Bora e i suoi uomini superstiti scelgono di cercare una via di fuga. Pieni di paura, ma anche di speranza, si apprestano ad uscire dalla città.

Cronologia[modifica | modifica wikitesto]

I fatti narrati nel racconto si estendono dal 24 dicembre 1942 al 25 gennaio 1943.

Edizione italiana[modifica | modifica wikitesto]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Ciò contrasta però con quanto narrato dal precedente racconto La finestra sui tetti, secondo il quale Bora era già maggiore a fine maggio del 1942.
  2. ^ Per il rapporto di Martin Bora con la Spagna e con l'opera di Federico García Lorca, si veda il romanzo La canzone del cavaliere

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]