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Rivolta di Genova
La rivolta in Portoria con Balilla, di Giuseppe Comotto
Data6 dicembre 1746 – 9 dicembre 1746
LuogoGenova
EsitoArmistizio del 9 dicembre 1746, ritirata degli Austriaci
Schieramenti
Comandanti
Antoniotto Botta AdornoNessun comandante, fu eletto capo-popolo Giovanni Carbone
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La rivolta di Genova del 5 dicembre 1746 è stata un'insurrezione avvenuta durante la guerra di successione austriaca a Genova nel quartiere di Portoria. I cittadini genovesi, infatti, insorsero contro gli austriaci e riuscirono a liberare la città dopo giorni di combattimenti. Il fatto è passato alla storia anche grazie alle azioni del giovane Balilla che per primo, con il lancio di pietre, si oppose al comando austriaco. Infine, simboli di libertà, amor di patria e coraggio, Balilla e la rivolta stessa hanno contribuito a formare le basi del pensiero Risorgimentale Italiano.

Antefatto[modifica | modifica wikitesto]

Maria Teresa d'Austria, arciduchessa regnante d'Austria dal 1740 al 1780

La rivolta avvenne durante un periodo di grande disordine politico in Europa, che vide susseguirsi una serie di guerre alla quale parteciparono le maggiori potenze dell' Europa settecentesca. Una di queste, la guerra di secessione austriaca, combattuta tra il 1740 e il 1748, vide alcuni Stati europei coalizzati contro l’Austria per impedire l’ascesa al trono imperiale di Maria Teresa, figlia di Carlo VI. L’imperatore, essendo privo di eredi maschi e rendendosi conto dell'impossibilità di averne, aveva abrogato la legge salica ( che escludeva le donne dalla successione al trono ) e stabilito, con la Prammatica Sanzione[1] il diritto alla successione anche per la discendenza femminile. La Prammatica Sanzione, che assicurava la successione alla figlia Maria Teresa, era stata riconosciuta dalle maggiori potenze europee. Ma quando Carlo VI morì, nel 1740, il nuovo re di Prussia Federico II [2], gli elettori Carlo Alberto di Baviera e Augusto III di Sassonia, il re di Spagna ed il re di Sardegna non si ritennero vincolati dai patti. La Prammatica Sanzione risultò dunque inutile nella lotta per il potere in Europa: tuttavia essa rimaneva l'unica rocca di Maria Teresa, l'unica cosa che proclamava l'unità delle sue terre. Federico II si mosse per primo ed occupò la Slesia, allora parte del ducato d’Austria. Seguendo la sua tradizionale linea anti-asburgica, anche la Francia entrò in campo, a fianco appunto della Prussia, della Spagna, della Baviera, della Sassonia e del Regno di Napoli. A favore di Maria Teresa intervennero invece l’Inghilterra, l’Olanda e Regno di Sardegna. La piccola Repubblica di Genova aveva poco a che vedere con questo conflitto, anche se poi, come vedremo,sarà profondamente conivolta in esso. La guerra fu combattuta su diversi fronti, in particolare in Germania, in Italia, in Belgio e nelle colonie.

L'invasione[modifica | modifica wikitesto]

Ritratto del comandante austriaco Antoniotto Botta Adorno

Nella prima metà del 700', la repubblica di Genova stava vivendo un periodo di difficoltà, viste le mire espansionistiche che le potenze Europee avevano su di lei. Durante il conflitto, con il trattato di Aranjuez del 1° maggio 1945, aveva aderito all'alleanza franco-ispanico-napoletana. La città viveva ormai da due secoli un periodo di totale neutralità e la scelta di entrare in guerra fu dovuta alla necessità di trovare un forte difensore in armi sia per avere una difesa in guerra, sia per domare la rivolta in Corsica che durava da sedici anni e alla speranza di strappare qualche territorio ai Savoia. La Genova del Settecento, infatti, aveva sempre ricoperto un ruolo di comparsa, gelosa del suo isolamento e impaurita dalla visione espansionistica dei piemontesi verso il proprio porto. Genova perciò dichiarò guerra soltanto al Regno di Sardegna, sapendo che non poteva mettersi in conflitto con l'Impero Austriaco. Tuttavia nel 1746 venne invasa proprio dalle truppe austriache, dopo che il Generale spagnolo, il marchese di Las Minas, aveva rifiutato di unirsi alle truppe Francesi contro l'esercito austriaco, lasciando così Genova esposta all'offensiva asburgica. Gli austriaci erano comandati da Antoniotto Botta Adorno il quale aveva il desiderio di vendicare il padre, patrizio genovese, che era stato condannato in contumacia alla pena capitale e alla confisca dei beni proprio dalla Repubblica di Genova stessa. Il 5 settembre gli austriaci si presentarono sotto le mura di Genova che, consapevole della propria inferiorità, chiese la pace. Il Botta Adorno accettò, costringendola a sottostare a una serie di dure restrizioni. Genova dovrà cessare ogni ostilità, consegnare al nemico le porte della città, cedergli le proprie artiglierie, lasciare libero il passaggio nel territorio alle truppe austriache, mandare a Vienna il doge e sei senatori a implorare il perdono e soprattutto pagare un fortissimo tributo di guerra: tre milioni di scudi d’argento, una somma pari alle entrate che la repubblica percepiva in cinque-sei anni. I patti suddetti dovevano essere accettati entro ventiquattro ore. Genova perciò fu costretta ad accettare le pesanti condizioni e a pagare l'indennità in tre rate: una entro due giorni, la seconda entro otto giorni e la terza entro quindici giorni. Genova, non avendo tale disponibilità economica, chiese uno sconto, ma il Botta Adorno non solo rifiutò, ma alzò la quota di un altro milione, mettendo in ginocchio la città, che dovette aumentare la pressione finanziaria e peggiorare le già difficili condizioni del basso popolo.[3]

La rivolta[modifica | modifica wikitesto]

La statua di Balilla,quartiere di Portoria, Genova

Gli Austriaci si comportavano in maniera arrogante, erano violenti e maltrattavano i cittadini. Il 5 dicembre dello stesso anno, però, dopo mesi di sofferenze, quasi casualmente si presentò l'occasione per cambiare le sorti della città. Un reparto austriaco, infatti, stava trasportando un mortaio attraversando il quartiere Portoria, quando questo, improvvisamente, rimase impantanato nel fango. L'ufficiale ordinò con arroganza ai popolani presenti di rimuoverlo dal fango e non ottenendo risposta arrivò ad usufruire della forza. All'ordine, tuttavia, rispose un giovane ragazzo di appena 11 anni, Giovan Battista Perasso, conosciuto in seguito come Balilla, che affrontò gli invasori con il lancio di una pietra, al grido «Che l’inse?» cioè «Comicio io?», «La comincio?», o secondo altre testimonianze,[4] «La rompo?», seguito poco dopo dalla folla che riunitasi intorno al mortaio mise in fuga il reparto austriaco. Il giorno seguente alcuni soldati austriaci si presentarono nuovamente sul posto per rimuovere il mortaio, ma furono accolti da sassate e fucilate e furono costretti a fuggire nuovamente. Il popolo quindi cominciò a farsi coraggio, riuscì a procurarsi le armi, a tirar su barricate e a rispondere agli spari degli invasori. La rivolta durò tre giorni, con gli austriaci che ribattevano con forza. «Il Botta ha la testa dura, ma il popolo l'ha più dura di lui » disse un nobile genovese.[5] Il 9 dicembre giunsero ad un armistizio. Il popolo insorto si era già organizzato in un Quartier generale del popolo , che dopo poco tempo verrà trasformato in Assemblea del popolo , una sorta di governo parallelo che prendeva decisioni militari e diplomatiche ed era indipendente dal governo ufficiale rinchiuso a Palazzo Ducale e completamente impotente.[6] La tregua fu utile per rifornirsi di armi e munizioni ma il Botta Adorno, pur avendo chiesto aiuto a distaccamenti vicini, non vide giungere i soccorsi e decise di lasciare momentaneamente la città. Quando un garzone di osteria, eletto capo-popolo, Giovanni Carbone, ottenne le chiavi della città le riconsegnò al doge dicendo: « Queste sono le chiavi che con tanta franchezza loro signori serenissimi hanno dato ai nostri nemici; procurino in avvenire di meglio conservarle, perchè noi con il nostro sangue le abbiamo recuperate » [7]. La guerra però non finì qui. I Genovesi sapevano che gli Austriaci sarebbero tornati, e nonostante la perdita di quattro mila uomini, si organizzarono in maniera tale da respingere i loro attacchi con la costruzione di palizzate, la riparazione delle mura e l'istituzione di una milizia cittadina, che raggiunse i quindici mila uomini. Pur subendo alcune sconfitte pesanti, Genova non si arrese e riuscì a respingere definitivamente gli Austriaci anche grazie al fatto che questi, ormai decimati, vennero a sapere che le milizie Franco-Ispaniche stavano muovendo in difesa della Repubblica. Per evitare una disfatta, allora, ritirarono definitivamente l'idea di conquistare la città. Genova era perciò salva, grazie al coraggio dei suoi cittadini che, insorgendo contro gli invasori, erano riusciti a liberarla.

Personaggi che contribuirono alla rivolta[modifica | modifica wikitesto]

L'azione di Balilla non fu l'unico gesto eroico della rivolta: altri genovesi si distinsero per il loro coraggio. Uno di questi fu Gian Battista Ottone, detto Giabatta, artigiano che aveva una bottega in città. Durante la rivolta vedendo passare davanti alla sua bottega due austriaci carichi di oggetti preziosi, prese il fucile e li uccise. Il gesto si sparse rapidamente ed in poco tempo si trovò a capo di una grande folla che marciava per riconquistare la porta di San Tommaso, riuscendo con successo.[8] Oltre a lui, il già citato Giovanni Carbone, Andrea Uberdò, detto lo Spagnoletto, il pescivendolo Alessandro Traverso detto Giobbo, il merciaio Carlo Parma, Carlo Bava e Tommaso Assereto . Fu dunque la volontà della plebe a portare avanti la rivolta, dato che i piani alti della società Genovese si erano facilmente piegati al volere dei conquistatori, senza tentativi di difesa. L'aristocrazia infatti, asserragliata a palazzo Ducale, attendeva gli esiti della rivolta, temendo da una parte il saccheggio degli austriaci e dall'altra che l'insurrezione del popolo potesse portare al rovescio del governo.

La fine della guerra[modifica | modifica wikitesto]

Due anni dopo la rivolta, nonostante la resistenza di Maria Teresa (che non voleva terminare il conflitto per non lasciare agli avversari alcuni territori quali la Slesia), con la pace di Aquisgrana ( 1748 ) la corona imperiale fu riconosciuta proprio a Maria Teresa ed al suo consorte Francesco di Lorena. Federico II ottenne il riconoscimento dell’annessione della Slesia al regno di Prussia. Per quanto riguarda l’Italia, questa subì il maggior numero di mutamenti; l'Austria tornò in possesso di Milano, il regno di Sardegna Ottenne la Savoia e Nizza, la Spagna cedette il ducato di Parma e Piacenza a Filippo di Borbone, fratello del re di Napoli Carlo che rimaneva in possesso dei regni di Napoli e Sicilia. Per il resto tutti i contendenti mantennero i loro possedimenti di partenza, senza alcun guadagno né perdita se non quella di uomini. I fatti di Genova risuonarono nelle orecchie dell'opinione pubblica Europea, tanto che i giornali dell'epoca[9] esaltarono il coraggio del popolo e sottolinearono la debolezza e l'inettitudine della classe dirigente, totalmente inerme di fronte ai fatti ma pronta a mettersi dalla parte della fazione vincitrice. Per un momento, infatti, sembrò che il potere potesse passare nelle mani del popolo, dato che l'aristocrazia si era comportata in maniera vile mentre il popolo aveva dato grande prova di sé, ma non fu così. Questo infatti si fece nuovamente ammaliare dalle vecchie istituzioni, dai nobili (o come si facevano chiamare loro, dai Magnifici)[10], che promettevano loro nuova prosperità economica, carità ma anche la forca.

Cosa rimane della rivolta e del nome Balilla[modifica | modifica wikitesto]

Copertina di una pagella del 1933

La rivolta non fu un avvenimento importante solo per la liberazione della città, ma fu l'esempio di uno spirito ribelle, libero, che sarà la base dei moti rivoluzionari che il secolo successivo scuoteranno l'Europa e soprattutto l'Italia con il Risorgimento. La rivolta infatti è stata ed è ancora considerata un esempio di grande eroismo collettivo, di cui Genova e l'Italia vanno fieri.[11] Non è un caso se il giovane patriota Goffredo Mameli, nella sua più celebre opera divenuta l'inno d'Italia, canta : « I bimbi d'Italia / si chiaman Balilla »[12]. L'azione di Balilla infatti è rimasta alla storia per la volontà di difendere i propri concittadini, la propria città, la propria patria dagli invasori, e la rivolta uno stimolo per le generazioni future a lottare per la propria libertà, contro chi cerca di ostacolarla. Nel Novecento Balilla continuò a essere uno dei simboli dell'italianità: la Fiat gli dedicò un'utilitaria, il regime fascista un sommergibile e un Ente per l'educazione dei bambini. Il fascismo infatti aveva l'intenzione di creare un popolo di guerrieri e iniziare gli italiani all'educazione militare. Per questo nacque nel 1926 l'Opera Nazionale Balilla che visionava i giovani dividendoli in diversi gruppi in base all'età. A Balilla venne anche dedicata una canzone, cantata nelle scuole fasciste, per raccontarne le gesta: «Fischia il sasso,/il nome squilla/ del ragazzo di Portoria /e l'intrepido Balilla/ sta gigante nella storia./Era bronzo quel mortaio/che nel fango sprofondò/ma il ragazzo fu d'acciaio/ e la Madre liberò ». Nel 1929 venne scritto inoltre un inno patriottico genovese intitolato « Che l'inse?» cantata da una squadra di Trallalero chiamata Balilla Portoria.[13]

L'identità di Balilla in verità non è mai stata accertata, infatti solitamente ci riferiamo a un Gian Battista Perasso nato a Genova in Portoria nel 1435, ma in verità l'Almanacco Ligure attesta l'esistenza di un altro Gian Battista Perasso detto il Balilla di Pratolongo Montobbio. Nella moderna Genova la via dedicata a Balilla è dedicata a un Gian Battista Perasso nato nel 1729, identificabile con il Balilla di Montobbio. Sono stati fatto molti studi, ma nessuno ha ancora la certezza dell'identità di Balilla, anche per il fatto che dopo la rivolta per circa un centinaio di anni nessuno si era mai preoccupato di individuare il nome del ragazzo, rinvenuto poi tramite annali e racconti tramandati di generazione in generazione tra le famiglie genovesi. Ciò che sappiamo è che da quel momento è nato un simbolo con il nome di Balilla, modello storico della riscossa contro lo straniero, eroe giovane, popolare, disinvolto e istintivo.[14]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ La Prammatica Sanzione indica un certo tipo di decreto imperiale che poteva essere promulgato autonomamente dall'imperatore. C'erano state altre Prammatiche Sanzioni ma quella del 1713 fu redatta da Carlo VI per assicurare il riconoscimento da parte dell'Europa, della salita al trono della figlia. Crankshaw, 2017, p.17.
  2. ^ Federico II di Prussia detto il Grande, è stato imperatore dal 1740 al 1786, anno della morte. Fu uno dei personaggi più illustri del tempo, amante della musica e di idee illuministe era soprannominato re filosofo.
  3. ^ Assereto, 2010, p.18-20.
  4. ^ Assereto, 2010, p.22-23. Assereto cita un passo tratto da "Gli annali d'Italia" di Ludovico Antonio Muratori.
  5. ^ Montanelli, 1970, p.413.
  6. ^ Assereto, 2010, p.29-30.
  7. ^ "Il garzone che umiliò il doge"
  8. ^ Una targa posta in Piazza Campetto, dove Ottone aveva la propria bottega, lo ricorda citandone il fatto.
  9. ^ Si parla delle prime gazzette, instant book e pamphlet
  10. ^ Assereto,2010,p.41
  11. ^ Assereto, 2010, p.1
  12. ^ Quarta strofa dell'inno d'Italia, Mameli, 1848.
  13. ^ Il testo della canzone: Salve o balilla / Figgiêu tutto ardimento / Impavido te steto / Què l'epico momento/ Te steto in grande eroe/ n'a storica giornà/ Quande lazzù in portoia/ se ghe affondôu o mortà// Che l'inse che l'inse / Coraggio sciù figgiêu/ Che l'inse che l'inse / Sciù femmose do chêu/ A schiavitù no a voëmmo / L'an dito i nostri poë/ Evviva a nostra zena / Evviva a libërta// Via da zena i barbari / Forte ti të crioù/ E comme n'a scintilla / Sê tutto sullêvou/ Lea ogniun terribile / Pe ciasse e carrogin/ Se combatteiva tutti / Dai grendi ai ciù piccin// Che l'inse che l'inse / Coraggio sciù figgiêu/ Che l'inse che l'inse / Sciù femmose do chêu/ A schiavitù no a voëmmo / L'an dito i nostri poë/ Evviva a nostra zena / evviva a libërtë/ Vivià pê sempre o figgiô / De zena e in te l'istoia/ E o crio sô fatidico / Ribelle de portoia/ Indietro no se torna/ l'an scrito in sciù trentin/I nostri combattenti / Do piave e do tormin/Che l'inse che l'inse / Curaggio sciù figgiêu/ Che l'inse che l'inse / Sciù femmose do chêu/A schiavitù no a voëmmo / L'an dito i nostri poë/ Evviva a nostra zena / Evviva a libërtë
  14. ^ Assereto, 2010, p.55-56

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Giovanni Assereto, 1746. La rivolta antiaustriaca e Balilla, Roma-Bari, Editore Laterza, Edizione del Kindle, 2010.
  • Gervaso Montanelli, L'Italia del Settecento, Milano, Rizzoli, 1970. Capitolo 23.
  • Edward Crankshaw, Maria Teresa D'Austria, Varese, Mursia, 2017. Capitoli 1, 6.

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Collegamenti esterni[modifica | modifica wikitesto]