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Antonia Bernardini (Roma, 14 settembre 1934Napoli, 31 dicembre 1974) è stata una vittima italiana della violenza manicomiale e protagonista della chiusura del manicomio giudiziario di Pozzuoli.


Il 27 dicembre del 1974, Antonia Bernardini, internata nel manicomio giudiziario di Pozzuoli (Na) da oltre quattordici mesi a seguito di un banale diverbio, diede fuoco al materasso del letto di contenzione al quale era legata "come Cristo in croce" da 44 giorni consecutivi. Soccorsa in ritardo, fu ricoverata in gravi condizioni nel reparto ustionati dell'Ospedale Cardarelli di Napoli, dove morì il 31 dicembre del 1974. La notizia della sua morte, resa pubblica i primi giorni di gennaio del 1975, e l'incredibile sequenza che aveva portato al suo arresto, aprì un importante discussione sulla stampa che durò molti mesi e portò all'attenzione dell'opinione pubblica il tema dei manicomi giudiziari e civili e l'esigenza del loro superamento. Lo scandalo che derivò da questa vicenda fu decisivo nel determinare la chiusura del manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli. [1]

Il 9 luglio 2021, il Comune di Napoli, con la delibera di Giunta comunale n. 294[2], ha deciso di intitolarle una piazza “Piazzale Antonia Bernardini”, nel quartiere Avvocata, nello spazio antistante l'ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli


Biografia[modifica | modifica wikitesto]

La vita nella periferia romana[modifica | modifica wikitesto]

Nata a Roma, nel 1934, Antonia visse una infanzia difficile nella periferia romana in un contesto familiare dominato da un padre violento. A seguito di crisi notturne che la portavano a svegliarsi urlando nel cuore della notte venne portata ancora minorenne nel manicomio civile di Santa Maria della Pietà. Lì non fu formulata nessuna diagnosi, secondo quando scritto da Roberto Leonardis «la diagnosi dei sanitari fu poco meno di un consiglio: “Sposandosi le passerà tutto”». [3]

Il matrimonio con Salvatore, un giovane bersagliere di leva al Forte Tiburtino, originario di una cittadina della provincia campana, Afragola, e la nascita della figlia Gabriella, a soli sedici anni, non migliorarono le condizioni di Antonia che viveva con la figlia e la sorella in una casupola al Tiburtino Terzo. «Antonietta aveva perennemente una specie di esaurimento nervoso» ricorda la sorellastra, Lidia. «Ogni tanto le capitava di mettersi a urlare e si buttava per terra. Gridava che stava morendo. Quando la crisi finiva, la portavamo al Santa Maria. Altre volte era lei stessa che si faceva ricoverare».[3]

Nonostante le altalenanti condizioni di salute, fisica e psichica, e la successiva separazione dal marito, Antonia, con l'aiuto del fratello e con lavori precari, conduceva una vita dignitosa e a crescere da sola la figlia. Nel 1958, a 24 anni, il 13 febbraio subì un primo ricovero nell'ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi di Napoli che terminò il 28 giugno 1958, senza che vi fosse una diagnosi compiuta, limitandosi i sanitari a parlare di distimia e di improvvise crisi di pianto. Seguiranno, negli anni a venire, altri periodi di ricovero, a Roma e Reggio Emilia.

Separatasi dal marito, Antonia ritornò nel manicomio di Napoli quattordici anni dopo, il 24 ottobre del 1972. Mentre era diretta ad Afragola (Na) da alcuni parenti del marito, si sentì male lungo la strada e venne accompagnata dalla polizia in Ospedale. In cartella i medici annotarono «è notevolmente ansiosa, ma abbastanza lucida e coerente». Il suo secondo ricovero al Bianchi durerà sette mesi, dal 24 ottobre 1972 al 23 maggio 1973. Nella nota di ricovero, la diagnosi restò inalterata rispetto all'internamento del 1958. Antonia risultava affetta da «distimia – stato di sub eccitamento». Al momento delle dimissioni Antonia dichiarò di stabilirsi a Roma, ma una volta dimessa venne nuovamente ricoverata al Santa Maria della Pietà (Roma) da dove fu poi dimessa con la diagnosi di «psicosi maniaco depressiva» il 30 agosto 1973. [4]

Il diverbio nella stazione di Roma termini e l'arresto[modifica | modifica wikitesto]

Il12 settembre 1973, mentre era in fila alla biglietteria della stazione di Roma Termini, Antonia Bernardini ebbe un alterco con un uomo in coda dopo di lei che le aveva intimato di sbrigarsi. Dopo una breve colluttazione, in cui si intromise anche un terzo individuo, l'uomo si qualificò come carabiniere in borghese e la pose in stato di arresto. Il referto medico riscontrò per l'agente una «lesione da morso di donna 3° superiore braccio sinistro, guaribile in quattro giorni». Inizialmente reclusa nel carcere femminile di Rebibbia, venne trasferita il giorno successivo nel manicomio di Santa Maria della Pietà di Roma perché, secondo il parere del consulente psichiatrico, la detenuta era in stato di agitazione psicomotoria ed era «pericolosa per sé e per gli altri, particolarmente aggressiva». Il 17 settembre il pubblico ministero Claudio Vitalone, dopo averla interrogata, convalidò l'arresto e dispose la custodia cautelare presso il manicomio. Il 10 ottobre Antonia fu dimessa e fece ritorno nella sezione femminile del carcere di Rebibbia. Il 24 ottobre 1973, dalla direzione di Rebibbia, arrivò una richiesta di trasferimento. Nonostante le terapie «il comportamento di questa detenuta non è migliorato: continuo stato di agitazione psicomotoria con elementi confusionali per cui è pericolosa per sé e per gli altri». La detenuta, secondo la direzione del carcere, non poteva essere ricoverata in infermeria perché disturberebbe il personale e le altre detenute. Perciò proponeva il trasferimento di urgenza in manicomio giudiziario.[5]

Nel manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli[modifica | modifica wikitesto]

Il 26 ottobre, dunque, Antonia Bernardini fu condotta, con un'automobile della Croce Rossa, nel manicomio criminale di Pozzuoli. Per la direttrice di Rebibbia «è stata trasferita a Pozzuoli perché al Santa Maria della Pietà non l'avrebbero certamente rivoluta».[6]

Appena entrata, Antonia fu subito legata al letto di contenzione per cinque giorni, sino al 31 ottobre, e fu reclusa nella sezione “Agitate e coercite”

Il 23 gennaio 1974 Antonia sollecitava la decisione dell'udienza. Questo il testo di una a lettera di poche righe, conservata nel fascicolo processuale e indirizzata al pubblico ministero del quale sbaglia anche il cognome.

«Egregio Giudice, Claudio Vitellone desidererei che lei si interessa della mia situazione in quanto sono 120 giorni che mi trovo carcerata. Dato che il mio reato consiste nell'avere oltraggiato un poliziotto, però la mia attenuante è che questo poliziotto era in borghese, e non mi ha presentato il tesserino, perciò anche lui ha mancato. Deve capire che per risolvere la mia situazione basta la sua firma per la mia libertà provvisoria e poi io alla libertà mi potrò interessare per avere la libertà definitiva. Io mi sento bene in salute e aspetto la sua risposta della Grazia che tanto desidero. In attesa la ringrazio e la saluto Antonia Bernardini» [7]

Il 29 gennaio 1974, l'assistente sociale rispondeva così a una lettera scritta dalla figlia Gabriella : «Ho appena ricevuto la sua lettera – scrive l'assistente – e mi affretto a risponderle: sua madre è sottoposta ad osservazione psichiatrica che si concluderà entro breve tempo (forse un mese), dopo di che tornerà al carcere di Roma». L'assistente sociale spiegava alla figlia di Antonia che il reato della madre era di aggressione a pubblico ufficiale «per i particolari non sono al corrente, ma oramai non credo abbiano molta importanza. Questo avvicinamento le permetterà di essere vicina a sua madre in maniera costante ed è di questo che ora sua madre ha bisogno, del suo sostegno, del suo conforto, del suo interessamento». Poiché il ritorno di Antonia nel carcere di Rebibbia era previsto a breve, «non credo – scrive – che sia più il caso di iniziare la pratica per il viaggio gratuito a Pozzuoli. […] Per quanto riguarda la posizione giuridica devo dirle che sua madre è imputata ciò significa che dovrebbe avere un avvocato che la difenda, se non può nominare personalmente (e pagare) un avvocato, si può nominare un avvocato di ufficio (gratuito)». Suggerisce, infine, alla figlia di rivolgersi, quando la madre sarà rientrata a Roma, a una assistente sociale del comune e la saluta anche da parte della madre [7]

Il 23 febbraio 1974 la direzione di Pozzuoli ritienne che le crisi di eccitamento siano «sempre ben dominabili con terapie neuroplegiche» e propose la conclusione dell'osservazione e il ritorno nel carcere di Rebibbia. A nulla valsero i successivi solleciti (4 aprile, 1 luglio, 9 agosto). Solo il 23 settembre il presidente della IV Sezione del Tribunale di Roma, presso la quale dovrebbe svolgersi il processo, emise finalmente l'ordinanza di dimissione dal manicomio di Pozzuoli e dispose il trasferimento al carcere di Rebibbia. La disposizione del Tribunale però non venne comunicata alla direzione del manicomio di Pozzuoli che ad ottobre che richiese al Tribunale una copia del provvedimento.

Il 30 ottobre fu notificato alla Bernardini di comparire in udienza, fissata per il 12 dicembre 1974

Il 22 novembre dal Tribunale confermando il dispositivo del giudice adottato il 23 settembre. Il giorno stesso (con nota 5995), la direzione di Pozzuoli comunicava che «da circa venti giorni la Bernardini era nuovamente eccitata euforica logorroica con idee di grandezza. Pertanto era impossibilitata a comparire in udienza e a provvedere utilmente alla propria difesa». [8]

Fu legata al letto di contenzione dal 14 novembre sino al 27 dicembre 1974 nella sezione Agitate e Coercite, senza alcuna motivazione in cartella clinica.

Le fiamme legata al letto di contenzione - Ci legavano come Cristo in Croce

Alle 15.30 del 27 dicembre 1974 Antonia Bernardini, con un'autoambulanza scortata dagli agenti del commissariato di Pozzuoli, fu ricoverata in prognosi riservata all'Ospedale Cardarelli di Napoli, con ustioni di terzo grado sul 55% del corpo, al braccio, al tronco e al fianco destro, Ad ora di pranzo, mentre era legata al letto di contenzione della sezione “Agitate e Coercite” da 44 giorni consecutivi, dopo aver chiesto a lungo dell'acqua, con dei fiammiferi che aveva nascosto, aveva dato fuoco per protesta alle lenzuola e al materasso, approfittando del fatto che i legacci le consentivano di muovere le braccia. Quando dopo diversi minuti le vigilatrici si accorsero del fumo che proveniva dalla stanza di contenzione intervennero senza slegarla dal letto, ma provando a spegnere le fiamme con dell'acqua e delle coperte e spingendo il letto nel corridoio. Quando le fiamme furono domate, i medici del manicomio si accorsero che la gravità delle ustioni era tale da rendere necessario un ricovero.

Antonia Bernardini rimase lucida fino al momento del ricovero. Seppur sedata, il 28 dicembre al magistrato Renato Vuosi che si recò in Ospedale per interrogarla, prima che perdesse conoscenza rilasciò questa dichiarazione

«Sono stata spinta a fare quello che ho fatto perché ero sempre legata e lavoravo come una bestia. C'è una suora Anna Teresina che mi metteva ai lavori forzati e diceva “ti ricatto” e mi faceva i dispetti». «Per gli altri c'era la fettina di carne e per me no... Per me piangono i mattoni... Mi facevano sempre lavorare e Suor Teresina mi ricompensava con il giubbotto e le punture... otto fiale al giorno di Faseina forte... era una cura che mi aveva messo lei... non il dottore... il prof. Tempone veniva ogni otto giorni e suor Teresina era sempre presente quando dovevo parlare con il dottore. Ci legavano come Cristo in Croce».

«Avevo i cerini con me. Ero legata... era ora di pranzo... ho chiamato per avere un bicchiere d'acqua per smuoverli e costringerli a venire ho dato fuoco al lenzuolo. Non mi hanno soccorso... mi hanno soccorso alla fine». Non sa dire chi sia stato il primo a soccorrerla, pur legata ai piedi e alle braccia, ha «acceso un solo cerino ed il materasso di gommapiuma ha preso fuoco. L'ho fatto perché chiamavo (...) chiamavo e non mi davano l'acqua (...) per la disperazione». Ha acceso il fuoco «mettendo la scatola da un lato sulla coscia e facendo slittare il cerino». A darle i fiammiferi una delle internate “prosciolte” della quale non rivela il nome. [9]

Il 31 dicembre 1974, alle ore 16.15, Antonia Bernardini si spense per arresto cadiocircolatorio.

Le reazioni dell'opinione pubblica – il manicomio in televisione[modifica | modifica wikitesto]

Il 5 gennaio 1975 la notizia della morte e la sua atrocità fu riportata con evidenza dalla stampa nazionale.

Il titolo de La Stampa fu: «Bloccata nella camicia di forza si libera e si dà fuoco» [10]

L'Unità «Senza soccorsi muore bruciata al letto di contenzione» [11]

II Mattino, il maggiore quotidiano napoletano, pubblicò la notizia nella terza colonna della prima pagina con il titolo «Legata a letto muore bruciata nel manicomio di Pozzuoli [12]. Accompagnava l'articolo Sergio Piro, segretario regionale della Campania di Psichiatria Democratica, con un editoriale dal titolo «Il Medioevo è tra noi» in cui scriveva «Di fronte ad una nuova manifestazione della violenza addizionale manicomiale, in tutto il suo nudo orrore e in tutta l'angoscia che dal fatto ci deriva, (...) è difficile mantenere un rigore nella valutazione complessiva del malato mentale e l'impegno di concretezza nel proporre un'alternativa assistenziale profonda e decisiva»

Il Corriere della Sera riportò la notizia n modo più sintetico, contrapponendola al buon esempio del manicomio civile di Firenze «Pozzuoli: si dà fuoco nel manicomio e muore. Firenze: ospedale psichiatrico senza muri»[13]

Il Roma, quotidiano napoletano, riportò la notizia in prima pagina, terza colonna con il titolo «Bruciata viva sul letto di contenzione».[14]

«In questa storia di una innocente arsa viva c'è tutto. Questa donna aveva “addosso” lo Stato tutto intero. Ogni pezzo di questo Stato, con una perfetta convergenza di meccanismi, ha concorso a perseguitarla e a ucciderla, in poco più di un anno.[15]

«Il letto di contenzione è uno strumento di tortura, e il malato contenuto può (...) urlare sino a morire senza che nessuno accorra alle grida, alle richieste di aiuto: perché tutto ciò che accade in manicomio fa parte, per definizione, della malattia e, per definizione, non esprime alcun rapporto con la realtà. Se i malati si agitano o gridano, racconta Basaglia, nessuno accorre alle loro urla, nemmeno se un letto brucia «perché un pazzo legato al letto di contenzione non può nuocere, quindi non ha bisogno di niente, quindi se urla che urli pure, poi la smetterà. Questa è la logica del manicomio».[16]

Il 8 gennaio 1975, la deputata socialista Maria Magnani Noya, depositò la prima interrogazione parlamentare al ministro di Grazia e Giustizia, sulla morte di Antonia Bernardini. Vuoleva sapere le ragioni per le quali «immotivatamente» era rinchiusa in manicomio, quale giudizio il ministro avesse sul comportamento del direttore, quali provvedimenti intendesse assumere nei confronti dei responsabili. [17]

Il giorno successivo, 9 gennaio, anche tredici deputati del Partito Comunista Italiano interrogarono il ministro di Grazia e Giustizia, chiedendo, tra l'altro, chiarimenti sulla «detenzione illegale».[18] . Anche al Senato a firma due senatori del Partito Socialista, Agostino Viviani e Paolo Mariano Licini, fu presentata una interrogazione [19]

Mentre i principali quotidiani nazionali ricostruivano progressivamente l'avvio della inchiesta della procura, la trasmissione «AZ un fatto come e perché» programma RAI di approfondimento giornalistico dedica la puntata del 19 gennaio alla storia di Antonia Bernardini. Così milioni di persone videro i luoghi dove Antonia Bernardini aveva vissuto e il manicomio in cui aveva perso la vita, scoprendo tra immagini e frammenti di vita manicomiale, l'esistenza e l'uso del letto di contenzione.

Il 14 febbraio, nel rispondere in Senato alle interrogazioni parlamentari, il sottosegretario alla giustizia Renato Dell'Andro, ricostruendo gli eventi dichiarò che «già allo stato della legislazione vigente, l'episodio non doveva accadere» e «che ne devo necessariamente sottolineare la gravità». Eppure osservò «che forse alle illiceità oggettive riscontrate si sono aggiunte anche circostanze davvero sfortunate che tutte hanno collaborato alla produzione dell'evento». [20]

Il 20 marzo 1975, Francesco Corrado, direttore del manicomio giudiziario di Pozzuoli, per dimostrare alla stampa che il suo manicomio non è un “lager” organizzò un “tour” con i giornalisti e le telecamere al termine del quale diede fuoco ad un materasso nel cortile, per dimostrare che la colpa di quanto accaduto era dovuta al fatto che i materassi non erano ignifughi. Mentre i giornalisti erano impegnati nelle redazioni scrivere il resoconto della visita, in serata giunse la notizia che una internata che i giornalisti avevano incontrato durante la visita, Teresa Quinto, si è suicidata. [21]

Fu l'episodio che segna definitivamente la sorte del manicomio, già al centro di critiche per i numerosi precedenti emersi di violenza e abbandono. Il Ministero dispone la chiusura entro il mese di maggio e il trasferimento delle internate in quello di Castiglione delle Stiviere.

L'inchiesta della Procura della Repubblica e il primo processo 1976-77[modifica | modifica wikitesto]

Conclusi gli interrogatori e depositata la perizia su come si sono sviluppate le fiamme, Il giudice istruttore Felice Di Persia, a metà agosto, chiese al pubblico ministero Renato Vuosi, alla luce di quanto emerso dall'istruttoria, di «sciogliere le riserve circa il modo di contestazione dei reati agli imputati».

A essere imputati erano il direttore Francesco Corrado, il vice- direttore Giuseppe Tempone, Suor Giuseppina Coppola. e tre vigilatrici Maria D'Agostino, Angela Di Fraia e Rosa Tesone. A queste ultime il magistrato contesta il reato di omicidio colposo (art. 589 c.p.). Secondo l'accusa la loro colpa consisteva «in negligente imprudenza ed inosservanza delle norme, delle disposizioni ministeriali e degli ordini di servizio relativi alla custodia e vigilanza delle internate loro affidate, in qualità di addette alla prima sezione dell'Ospedale Psichiatrico femminile di Pozzuoli».

Secondo l'accusa non si erano accertate che la Bernardini, legata al letto di contenzione, non disponesse di fiammiferi o comunque non avevano evitato che altre internate glieli fornissero, non sorvegliando con «la doverosa e necessaria diligenza e continuità la Bernardini in modo da impedire che la stessa potesse compiere atti lesivi della propria persona e dar fuoco al letto» e infine non si sono accorte in tempo delle fiamme non riuscendo così a intervenire.

Al direttore Corrado e al suo vice Tempone, era contestata la riduzione in schiavitù. Corrado era accusato di avere, quale direttore, «disposto, consentito o comunque tollerato che le internate venissero sottoposte a misure di contenzione senza che ne ricorresse l'assoluta necessità, per periodi di tempo previamente illimitati, al di fuori di un costante controllo sanitario diretto a limitare la durata del perdurare della effettiva necessità e ad ordinare appena possibile la cessazione, ed altresì consentendo (...) che la internata Bernardini Antonia ed altre dodici internate venissero sottoposte a misura di contenzione senza che ricorressero le condizioni di necessità (...) senza costante controllo sanitario e per un periodo di tempo illimitato».

Lo stesso capo di imputazione era mosso verso Tempone, accusato non solo di aver disposto la contenzione ma anche di aver disposto il mantenimento della misura illimitatamente, sapendo di doversi per più giorni allontanare dall'Istituto. I due sono anche accusati di avere con la loro condotta concorso «a cagionare la morte della internata Bernardini Antonia che, spinta dallo stato di esasperazione predetto dalle condizioni di costrizione in cui era stata posta illegittimamente, dava fuoco al materasso del letto di contenzione ed allo svilupparsi dell'incendio non poteva sfuggire alle fiamme né attuare alcuna misura di difesa perché legata con fascette ai polsi alle spalle ed ai piedi rimanendo così divorata dalle fiamme».

Infine, suor Giuseppina Coppola era accusata di abuso di autorità contro detenuti, per avere, in qualità di superiore delle suore infermiere e responsabile dei servizi infermieristici «disposto l'attuazione di misure di contenzione nei confronti delle internate al di fuori dei necessari controlli del medico psichiatra, senza la vigilanza di questi e senza che ne ricorresse la stretta necessità» e per avere consentito, (trasmettendo poi l'ordine ricevuto da Tempone il 24 dicembre 1974 alla suora infermiera addetta alla prima sezione) «che nei giorni 25, 26, 27 dicembre le internate della prima sezione venissero sottoposte a misure di coercizione al di fuori di ogni controllo dello psichiatra e per un tempo previamente illimitato.»

il 15 marzo 1976, il giudice istruttore, su richiesta del pubblico ministero del 12 gennaio, al termine degli interrogatori, dispose il definitivo rinvio a giudizio per gli imputati. [22]

La condanna in primo grado[modifica | modifica wikitesto]

Il processo di primo grado cominciò Il 3 giugno 1976 presso il Tribunale di Napoli, VII sezione penale.

Il 17 giugno 1977 Il collegio giudicante presieduto da Tullio Grimaldi, composto da Antonio Maione e Giuseppe Maria Cosentino, dopo una camera di consiglio di tre ore, «Letti gli art. 483-488-489 c.p.p. dichiara D'Agostino Maria, Tesone Rosa, Di Fraia Angelina, Coppola Giuseppina Rosa, Corrado Francesco e Tempone Giuseppe colpevoli dei reati loro rispettivamente ascritti (...)»

La Corte condannò tutti gli imputati condannando Corrado a quattro anni di reclusione (due per omicidio colposo, due per abuso d'autorità), e lo psichiatra Tempone (divenuto vicedirettore del manicomio criminale di Aversa) a quattro anni e sei mesi (due anni per omicidio colposo, due anni e sei mesi per abuso di autorità e falso). I due medici furono, inoltre, interdetti dai pubblici uffici e dall'esercizio della professione per cinque anni. I giudici infliggono, prevedendo però la sospensione della pena, un anno e sei mesi a ciascuna delle tre vigilatrici (per omicidio colposo) e un anno a Suor Coppola (abuso d'autorità). Tutti gli imputati furono condannati al pagamento delle spese processuali e al risarcimento del danno per la figlia Gabriella e per il fratello di Antonia. [23]

L'assoluzione in appello 1979[modifica | modifica wikitesto]

Il 4 aprile 1979, dopo cinquantuno mesi e quattro giorni dalla morte di Antonia Bernardini, la Corte di Appello di Napoli presieduta da Antonio Mastursi e composta da Pasquale Procaccini e Lorenzo Petroni, di fronte al Procuratore Francesco Vaccarella, chiudese la vicenda giudiziaria legata alla morte di Antonia lasciando la stessa senza alcun responsabile.

«La Corte di Appello di Napoli, Sezione Penale III, visto l'art. 523 c.p.p., in riforma della sentenza 17/6/1977 del Tribunale di Napoli, appellata da D'Agostino Maria, Tesone Rosa, Di Fraia Angelina, Coppola Giuseppina, Corrado Francesco e da Tempone Giuseppe, assolve la D'Agostino, la Tesone e la Di Fraia dal reato loro ascritto per insufficienza di prove; assolve altresì la Coppola, il Corrado ed il Tempone dai reati di cui agli Artt. 608 e 586 c.p. loro rispettivamente ascritti perché il fatto non sussiste. Assolve infine il Tempone dal reato ex art. 479 c.p. perché il fatto non costituisce reato».

In questo passaggio si può ritrovare il più complessivo impianto della sentenza d'appello che assolve tutti gli imputati giudicati colpevoli nel processo di primo grado. “Per effetto del clamore sollevato dalla tragica fine della Bernardini, si ritenne di dover porre sotto accusa tutto il sistema (e le persone che lo adottarono e lo praticarono) di cura e di organizzazione del manicomio giudiziario, senza peraltro poter corroborare quell'accusa con indizi qualificanti e certi. In tal guisa gli addebiti di ricorso a mezzi contenitivi ingiustificati (…) rappresentano soltanto una tesi accusatoria non suffragata da elementi compiuti e certi di prova. Ed è quanto mai opportuno ribadire che l'accusa, genericamente formulata contro il Tempone, il Corrado e la Coppola, ha avuto un solo risultato concreto, quello, cioè, di anticipare i tempi di chiusura dell'Istituto di Pozzuoli che, per le sue condizioni ambientali […] per le notevoli attrezzature di cui disponeva e per i sistemi di cura che vi si praticavano, non meritava certo tanto clamore di cronaca, non certo benevola». [24]

Il sostituto procuratore Vaccarella, il giorno successivo, il 5 aprile 1979, propose il ricorso in Cassazione contro la sentenza, ma il 4 luglio, a fronte della rinunzia del Procuratore Generale di Napoli, la Corte dichiarò inammissibile il ricorso presentato.

Una strada per Antonia[modifica | modifica wikitesto]

Il 10 ottobre 2020 In occasione della giornata mondiale per la Salute mentale, la Cooperativa Lazzarelle ha promosso l'appello al Sindaco di Napoli[25], sottoscritto da 25 donne cui hanno aderito un migliaio di firmatari, per intitolare una strada ad Antonia Bernardini. La proposta, dopo un lungo iter amministrativo, è stata accolta dal Comune di Napoli con la delibera n. 294 del 9 luglio 2021.

Vicende analoghe[modifica | modifica wikitesto]

Il 13 agosto 2019 Elena Casetto venti anni, ricoverata presso il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) dell'Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo è morta per l'incendio del letto di contenzione cui era legata.[26] L'analogia con il caso della Bernardini è stato ripreso tra l'altro nello speciale in due puntate di Rai News Spotlight, coordinato da Valerio Cataldi, di Alessandra Solarino e Maria Elena Scandaliato, andato in onda il 4 giugno 2021[27].

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ D.S Dell'Aquila – A. Esposito, Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio, Sensibili alle foglie, 2017 (ISBN 9788898963775)
  2. ^ Comune di Napoli - Delibere della Giunta, su www.comune.napoli.it. URL consultato il 25 agosto 2021.
  3. ^ a b R. Leonardis, “Antonietta brucia”, in Panorama n. 457, 23 gennaio 1975, p. 68
  4. ^ Dell'Aquila -Esposito, op.cit., p. 19
  5. ^ Dell'Aquila -Esposito, op.cit., p.31
  6. ^ in R. Leonardis, cit., p. 70
  7. ^ a b Dell'Aquila -Esposito, op.cit.,p.55
  8. ^ Dell'Aquila -Esposito, op.cit. p.57
  9. ^ Dell'Aquila – Esposito pag. 61
  10. ^ in la Stampa del 5 gennaio 1975
  11. ^ l'Unità, 5 gennaio 1975, articolo firma di Eleonora Puntillo
  12. ^ articolo a firma di Ciro Paglia, il Mattino, 5 gennaio 1975
  13. ^ Corriere della Sera, 5 gennaio 1975
  14. ^ articolo a firma di Mario Falconio, in il Roma del 5 gennaio 1975
  15. ^ Luigi Pintor su il Manifesto del 7 gennaio 1975
  16. ^ Franco Basaglia su il Corriere della Sera l'8 gennaio 1975
  17. ^ Interrogazione (3-02987) depositata nella Seduta 318 dell'8 Gennaio 1975, VI Legislatura, Camera dei Deputati, URL consultato il 27 agosto 2021
  18. ^ Interrogazione (3-03009) (a firma dei deputati Accreman, Coccia, Spagnoli, Capponi,Bentivegna Carla, Fabbri, Seroni Adriana, Ciai, Tivelli Anna Maria, Stefanelli , Perantuono, Vetrano, Benedetti, Riela) depositata nella Seduta 319 del 9 Gennaio 1975, VI Legislatura, Camera dei Deputati, URL consultato il 27 agosto 2021
  19. ^ Interrogazione (3-1430) depositata nella seduta, n. 370, del 9 gennaio 1975, Senato della Repubblica, VI legislatura URL consultato il 27 agosto 2021
  20. ^ Senato della Repubblica, VI legislatura, Resoconto seduta del 14 febbraio 1975 URL consultato il 27 agosto 2021
  21. ^ Articolo non firmato, “Non è un lager affermano, ma in serata ne muore un'altra”, in Roma, 21 marzo 1975,p.7, U. Munzi, “A Pozzuoli, lager psichiatrico”, in Corriere della Sera, 21 marzo 1975, p. 2; M. Caruso, C. Paglia, “I medici del manicomio di Pozzuoli «umiliati e offesi» vogliono dimettersi”, in Il Mattino, 21 marzo 1975, p. 6; B. Rubino, “Pozzuoli: una ricoverata s'impicca nel manicomio”, in Il Mattino, 21 marzo 1975, pp. 1-2
  22. ^ Dell'Aquila-Esposito, op.cit. p.211
  23. ^ Sentenza Tribunale di Napoli n. 7569 del 17 giugno 1977, depositata in cancelleria il 22 luglio 1977
  24. ^ Sentenza Corte di Appello di Napoli n.1849/79 del 4 aprile 1979, depositata il 15 giugno 1979, p. XXVI
  25. ^ Luca Leva, La proposta di “Lazzarelle”: «Una strada per Antonia, vittima di violenza psichiatrica» | Comunicare il sociale, su comunicareilsociale.com. URL consultato il 25 agosto 2021.
  26. ^ Fabio Viganò, Il dramma di Elena, morta bruciata a 19 anni nel letto d'ospedale: 2 indagati, su BergamoNews, 30 dicembre 2020. URL consultato il 25 agosto 2021.
  27. ^ Spotlight. Storie di contenzione, Antonia ed Elena, su Rainews, 4 giugno 2021. URL consultato il 25 agosto 2021.

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