Rivolta dei Bersaglieri

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La rivolta dei Bersaglieri fu una sommossa scoppiata nel giugno 1920 ad Ancona e poi diffusasi in altre zone d'Italia, che ebbe come protagonista il corpo dei bersaglieri del regio esercito italiano.

L'innesco della rivolta fu il rifiuto di un gruppo di bersaglieri di partire per l'Albania, dove il porto di Valona era occupato da un corpo di spedizione italiano che, a causa della ferma resistenza albanese e di un'epidemia di malaria[1], necessitava di truppe di rinforzo. La rivolta dei soldati si trasformò subito in sommossa popolare che da Ancona si diffuse in altre città del centro e del nord del paese. L'evento è inserito nel contesto del biennio rosso, caratterizzato dallo scontro politico violento tra opposte fazioni; in quanto fu una ribellione armata, è uno degli episodi più significativi del biennio. La natura della rivolta è stata caratterizzata dalla forte presenza anarchica, repubblicana e comunista nella città di Ancona, testimoniata anche dal fatto che Errico Malatesta spesso aveva soggiornato in città.

Lo svolgimento

Lo scoppio

Lo stesso argomento in dettaglio: Corpo di spedizione italiano in Albania.
Il luogo ove la rivolta ebbe inizio: la Caserma Villarey

Ad Ancona, all'interno della caserma Villarey era di stanza l'11º Reggimento bersaglieri. Durante la notte tra il 25 e il 26 giugno del 1920 i soldati di questa caserma assunsero il controllo della caserma disarmando i propri superiori, perché temevano di essere inviati in Albania, dove era in corso l'occupazione italiana e dove duri scontri opponevano le truppe italiane agli albanesi. I bersaglieri di Villarey avevano infatti osservato in porto la presenza del piroscafo Magyar e sospettavano, a ragione, che fosse arrivato per trasportarli a Valona. I bersaglieri contrastarono per vari giorni le forze di polizia e i carabinieri che le amministrazioni locali, e poi anche il governo nazionale, inviarono per sedare la rivolta.

Per la seconda volta Ancona era teatro di una rivolta popolare con ripercussioni nazionali; i moti precedenti, del 1914, sono noti con il nome di Settimana rossa.

I bersaglieri agirono di concerto con le organizzazioni politiche anarchiche, repubblicane e socialiste della città[2], che prontamente diffusero la sommossa nelle vie e nelle piazze della città, alzando barricate e opponendosi alle forze dell'ordine, al grido di Via da Valona!.

L'estensione

L'estensione della rivolta da Ancona ad altre città italiane (26-29 giugno 1920)

Scontri violenti si susseguirono per vari giorni e si estesero da Ancona (dove si contarono decine di feriti ed oltre venti morti) ai comuni limitrofi (Santa Maria Nova, Montesicuro, Aguliano, Polverigi, Chiaravalle) ad altre città delle Marche (Pesaro, Fano, Senigallia, Jesi, Macerata, Tolentino, San Severino, Civitanova, Porto Civitanova - ove un manifestante fu ucciso -, Monte San Giusto, Recanati, Fermo)[3][4], della Romagna (Rimini, Forlimpopoli, Forlì e Cesena)[3][4] e dell'Umbria (Terni e Narni)[4]. In questi centri si proclamarono scioperi e manifestazioni di massa per rafforzare il rifiuto dei bersaglieri di partire per l'Albania e per ottenere il rimpatrio dei soldati già inviati. Si volevano anche bloccare le forze dell'ordine che il Governo stava inviando ad Ancona, e per questo motivo venivano bloccate le linee ferroviarie.

A Milano fu proclamato uno sciopero per solidarietà alla rivolta di Ancona e un corteo raggiunse la locale caserma dei bersaglieri per manifestare l'opposizione alla partenze di altre truppe per l'Albania; simili decisioni furono prese a Cremona[4]. A Roma fu proclamato uno sciopero generale ad oltranza, appena due giorni dopo dallo scoppio della rivolta, nonostante il parere contrario della confederazione del lavoro e del Partito Socialista Italiano[4] che non si riconoscevano in questi moti scoppiati spontaneamente.

A Pesaro i dimostranti manifestarono nei pressi della stazione (ove era fermo un treno carico di armi) e di fronte alla vicina Caserma Cialdini, per spingere i soldati ad agire come i bersaglieri di Ancona. Mentre il piazzale era affollatissimo, dalla Caserma si sparò con la mitragliatrice sui manifestanti, provocando la morte di Luigi Cardinali (di Montelabbate) e vari feriti[3][5]. Si temeva infatti che la caserma fosse invasa e che seguisse la sorte della caserma dei bersaglieri di Ancona. I manifestanti, per protestare contro l'uccisione, incendiarono allora l'abitazione del comandante della caserma ed occuparono la polveriera[6].

Gabriele D'Annunzio scrisse un documento diretto ai bersaglieri di Ancona, in cui esprimeva la sua totale incomprensione per la loro rivolta; egli scrisse tra l'altro[7]:

«E si dice che voi vi siate ammutinati per non imbarcarvi, per non andare a penare, per non andare a lottare. [...] Si dice che voi, Bersaglieri dalle piume riarse al fuoco delle più belle battaglie vi rifiutate di rientrare nella battaglia, mentre l'onore d'Italia è calpestato da un branco di straccioni sobillati e prezzolati. È vero? Non può essere vero.»

Antonio Gramsci disse invece:

«La parola d'ordine per il controllo dell'attività governativa ha portato agli scioperi ferroviari, ha portato all'insurrezione di Ancona»

Mussolini attaccò invece il partito socialista incolpandolo di "aver tarpato le ali" alla vocazione in Adriatico dell'Italia "facendo il gioco degli slavi[8]

Interno della Caserma Villarey

L'intervento del governo

A mezzogiorno dello stesso giorno 26, un ufficiale riusciva a riprendere il controllo della caserma Villarey, impossessandosi della mitragliatrice che era stata posta davanti al portone[9]. Ancona però era ormai tutta in rivolta e così le altre città italiane che avevano aderito alla protesta.

Il governo ed il re giunsero allora alla decisione di inviare da Roma ad Ancona le Guardie Regie per soffocare la rivolta, in quanto le truppe di stanza in città avevano manifestato segni di fraternizzazione con i rivoltosi. Venne allora indetto lo sciopero generale delle ferrovie, allo scopo di impedire alle guardie di giungere ad Ancona. Facendo ricorso alla precettazione, il governo riuscì comunque ad inviare un treno verso la sede della rivolta, ma giunto alla periferia della città fu bersaglio dei rivoltosi che uccisero diverse guardie sparando attraverso i finestrini.

Dopo questi gravi fatti il governo ordinò di sparare sul centro cittadino con i cannoni della Cittadella[3] e di bombardare la città da cinque cacciatorpediniere che erano state inviate per porre fine alla sommossa[9]. Il 28 giugno la rivolta era ormai completamente domata, sia per i bombardamenti, sia per il maggior armamento delle forze dell'ordine ed il cospicuo rinforzo che quelle di stanza in città ricevettero da altre località circonvicine.[10]

La rivolta dei Bersaglieri fu uno degli ultimi episodi in cui il proletariato fece sentire le sue ragioni, appena due anni prima della Marcia su Roma.

I processi che seguirono, nonostante le accuse fossero gravissime, ebbero sentenze sorprendentemente miti, tranne quella comminata a Casagrande detto Malatesta, che ebbe sei anni di reclusione militare. Per non inasprire il clima accesissimo del momento, e per la paura di scatenare nuove sommosse, si adottò la formula del "reato di folla", non imputabile ai singoli. Per ciò che riguarda i bersaglieri solo pochi ebbero condanne, tra i cinque anni agli otto mesi[9].

Le conseguenze

La rivolta provò al governo Giolitti che il paese non avrebbe ancora sostenuto l'occupazione dell'Albania. il 2 agosto 1920, il governo Giolitti e il governo provvisorio albanese firmarono un accordo, il "protocollo di Tirana", col quale si riconosceva l'integrità territoriale dell'Albania ed il rimpatrio delle truppe in Italia. L'Italia avrebbe conservato solo l'isolotto di Saseno. Il testo del patto diceva: L'Italia si impegna a riconoscere e difendere l'autonomia dell'Albania e si dispone senz'altro, conservando soltanto Saseno, ad abbandonare Valona[4].

Personalità coinvolte

Monaldo Casagrande, detto Malatesta capeggiò la rivolta all'interno della caserma[4]. Fra i rivoltosi che presero contatto con i bersaglieri vi era Antonio Cieri a capo del movimento anarchico di Ancona e impiegato alle Ferrovie in città, e che, non riuscendosi successivamente a dimostrare giudizialmente la sua presenza, fu semplicemente trasferito alle ferrovie di Parma.[11] Dalle testimonianze appare chiaro che la rivolta fu innescata da un gruppo di militari anarchici presenti all'interno del reggimento e che riuscirono a coinvolgere la maggior parte dei soldati grazie anche al forte spirito di corpo che caratterizza i bersaglieri.[12]

Fra gli insorti vi erano pure Albano Corneli, allora socialista ed amico di Antonio Gramsci, che sosteneva la necessità dell'ingresso da parte delle squadre di autodifesa comuniste nel Fronte Unito degli Arditi del Popolo, Guido Molinelli [13], Mario Alberto Zingaretti[14], Angelo Sorgoni[15], Aristodemo Maniera[16] che poi entreranno a far parte della resistenza durante la seconda guerra mondiale.

Nell'immediato prosieguo degli eventi, Ancona fu zona di scontri durissimi fra squadristi da una parte ed Arditi del Popolo, anarchici, repubblicani, socialisti, comunisti e legionari e/o ex legionari fiumani.[17]

Canto della rivolta dei Bersaglieri

Raffaele Mario Offidani, che poi diventò noto con lo pseudonimo di Spartacus Picenus, compose le parole di un canto che diventò l'inno della rivolta dei Bersaglieri. Lo si cantava sull'aria di Santa Lucia lontana, che è del 1919, ma con alcune modifiche. Dopo che l'Italia aggredì la Grecia dell'ottobre 1940 la canzone fu riadattata nel testo e ritornò in auge. Si riporta qui sotto il testo più vicino a quello originario, che ebbe varie versioni.[4]

Soldato proletario che parti per Valona
non ti scordar del popolo d'Ancona
che volle col suo sangue la tua liberazione
sol con la ribellione sorge radiosa la libertà.

Andiamo via senza indugiar dal sol dell'Albania
lasciamo la malaria, il massacro e la fame
a morte il governo infame che in questo inferno ci trascinò.

Soldato proletario che mamma tua lasciavi
e schiavo andavi a trucidar gli schiavi
no, non è là il nemico, tra i bei monti e i mari,
lungi non lo cercare il tuo feroce tiranno è qui!

Andiamo via senza indugiar dal sol dell'Albania
lasciamo la malaria, il massacro e la fame
a morte il governo infame che in questo inferno ci trascinò.

Note

  1. ^ Giolitti, nelle sue memorie, parla di circa cento morti al giorno tra le truppe italiane a Valona, a causa della malaria, come riportato in M. Paolini, I fatti di Ancona e l'11º Bersaglieri (giugno 1920), in "Quaderni di Resistenza Marche", n. 4 novembre 1982.
  2. ^ da fiammecremisi
  3. ^ a b c d Vedi la pagina
  4. ^ a b c d e f g h Ruggero Giacomini La Rivolta dei Bersaglieri e le Giornate Rosse. I moti di Ancona dell'estate 1920 e l'indipendenza dell'Albania (Edito dall'Assemblea legislativa della Regione Marche nel 2010)
  5. ^ La rivolta di Pesaro (1920), in Marche, rivista della giunta regionale anno 2000, n°31
  6. ^ Vedi la pagina
  7. ^ Vedi la pagina
  8. ^ Vedi la pagina
  9. ^ a b c Paolini, I fatti di Ancona e l'11º Bersaglieri (giugno 1920), in "Quaderni di Resistenza Marche", n. 4 novembre 1982.
  10. ^ Vedi la pagina da fiammecremisi
  11. ^ Eros Francescangeli, Arditi del Popolo
  12. ^ Eros Francescangeli Arditi del Popolo
  13. ^ Guido Molinelli, su siusa.archivi.beniculturali.it. URL consultato il 26 aprile 2015.
  14. ^ Mario Alberto Zingaretti, su geocities.com (archiviato dall'url originale; seconda copia archiviata).
  15. ^ Angelo Sorgoni, su geocities.com (archiviato dall'url originale; seconda copia archiviata).
  16. ^ Aristodemo Maniera, su geocities.com (archiviato dall'url originale; seconda copia archiviata)., Aristodemo Maniera, nasce a Castellamare Adriatico, Pesaro), il 5 8 1903, diventa capitano di lungo corso, aderisce al PCdI, è un militante degli Arditi del Popolo, nel 1922 è condannato ed incarcerato, uscito dal carcere trova lavoro quale operaio alla Fiat, viene licenziato per motivi politici e ripara in Francia nel 1929. Partecipa alla guerra di Spagna con le Brigate Internazionali raggiungendo il grado di ufficiale, nella battaglia di Jarama viene ferito ed dopo La Retirada, viene internato nel Campo d'internamento di Le Vernet. Partecipa alla Resistenza in Francia ed Italia, gli viene assegnata la medaglia d'argento al valor militare e diviene deputato alla Costituente.
  17. ^ "Emilio Lussu scriveva che gli ex combattenti erano tutti dei socialisti potenziali: avevano maturato una concezione internazionalista in trincea... Per capire la contraddittorietà, ma anche la sincerità di quelle tensioni ideali, pensa alle simpatie che la rivoluzione Russa riscuote tra molti legionari Fiumani!... Si tratta di una pagina di storia che poi è stata “accomodata” e nascosta, ma fa pensare... Perché per il fascismo era importante appropriarsi anche dell’esperienza Fiumana? È semplice: perché il fascismo non aveva la storia del partito socialista, non aveva dietro di sé la cultura cattolica del partito popolare, non aveva neppure le vecchie tradizioni risorgimentali dei liberali; si trattava di un movimento nuovo, che si muoveva solo nella logica della presa del potere, privo di solide radici ideologiche o simboliche, che cercava di “mettere il cappello” ad un’ampia fetta di popolazione in cui era percepibile un disagio istintivo... Il fascismo aveva, insomma, l’esigenza di appropriarsi di una “storia” altrui, non avendone una propria..." da intervista di Ivan Tagiaferri morte alla morte di Ivan Tagliaferri

Bibliografia

  • Ruggero Giacomini, La rivolta dei bersaglieri e le Giornate Rosse - I moti di Ancona dell'estate del 1920 e l'indipendenza dell'Albania, Assemblea legislativa delle Marche, Ancona 2010.
  • Paolini M., I fatti di Ancona e l'11º Bersaglieri (giugno 1920), in "Quaderni di Resistenza Marche", n. 4 novembre 1982.

Voci correlate

Collegamenti esterni