Moti di Genova

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Disambiguazione – Se stai cercando un riferimento al sacco di Genova avvenuto il 30 maggio 1522, vedi Andrea Doria.

Il sacco di Genova è il nome di un episodio storico accaduto tra giovedì 5 aprile e mercoledì 11 aprile 1849 che ebbe tra i protagonisti che si posero alla vana difesa della città, il geologo e uomo politico italiano Lorenzo Pareto - comandante della Guardia Civica - e lo studente universitario e militare a Custoza Alessandro De Stefanis.

In seguito all'armistizio firmato il 25 marzo a Vignale (quartiere di Novara) da Vittorio Emanuele II di Savoia, succeduto al padre Carlo Alberto dopo la sconfitta di quest'ultimo a Novara, ed il generale austriaco Josef Radetzky, nel capoluogo ligure il malcontento popolare sfociò nei cosiddetti moti di Genova.

I tumulti cittadini portarono ad una momentanea restaurazione di un governo autonomo nell'antica (e rimpianta da molti abitanti) capitale della Repubblica di Genova e il generale Alfonso La Marmora venne inviato a sedare la rivolta.

Dopo alcuni giorni di violenti scontri, il 5 aprile la città venne bombardata per trentasei ore, senza alcun preavviso, un vascello inglese, il Vengeance, comandato da Lord Hardwicke, intervenne a favore dei piemontesi cannoneggiando la città, i soldati di sua maestà britannica presero la batteria del molo e da lì continuarono il bombardamento.

La Marmora, giunto di fronte alla porta della Lanterna, simbolo cittadino, fingendo di voler trattare con gli assediati, attaccò senza preavviso i difensori conquistando quella posizione, quindi i piemontesi conquistarono con l'inganno anche il palazzo del Principe e dopo una notte di strenua resistenza i difensori di Villa Bonino dovettero cedere a duecento bersaglieri.

La battaglia vide anche l'intervento di un brigantino americano in favore dei rivoltosi, animati da spirito repubblicano, e l'eroica azione di Alessandro De Stefanis che venne ferito nel tentativo di riprendere il Forte Begato, nonostante si fosse nascosto in un casolare, venne raggiunto da un manipolo di bersaglieri che infierirono sul giovane provocandone la morte dopo ventotto giorni di agonia.

I Genovesi confidavano molto sull’arrivo della Divisione Lombarda, composta da volontari, che avrebbe potuto modificare gli avvenimenti; la divisione era comandata dal generale Manfredo Fanti il quale, nonostante la volontà dei suoi soldati di portare aiuto a Genova, si operò, riuscendovi, a non far giungere il soccorso alla Città.

Razzie nella città conquistata

Durante il pesante bombardamento del 5 aprile le truppe piemontesi presero di mira le abitazioni civili e persino l'ospedale di Pammatone (già Portoria ed oggi Piccapietra), sparando a raffica dalle batterie di San Benigno; gli inglesi, dal canto loro, continuarono il bombardamento, in particolare della zona di San Teodoro. I genovesi riuscirono a resistere fino all'11 aprile all'occupazione della città da parte di un esercito di 25.000-30.000 uomini.

Durante questo periodo, la soldataglia, con ammirevoli eccezioni come narrato dall'anonimo di Marsiglia, si abbandonò alle più meschine azioni contro la popolazione civile, violentando donne ed uccidendo padri di famiglia e fratelli che si opponevano allo scempio, sparando alle finestre alla gente che vi si affacciava e correndo per le strade al grido di I Genovesi son tutti Balilla (riferendosi alle gesta del giovane patriota genovese Giovan Battista Perasso celebre per il grido di invito alla rivolta Che l'inse?, Che dia inizio?), non meritano compassione, dobbiamo ucciderli tutti; oppure: denari, denari o la vita, a cui fecero seguito irruzioni e predazioni.

Neppure i luoghi sacri vennero risparmiati e le argenterie razziate; i prigionieri, anche quelli che si erano arresi, vennero uccisi o stipati in celle anguste e costretti addirittura a dissetarsi della propria urina. A seguito di quanto accaduto, i cittadini genovesi, non sono più stati tenuti a prestare servizio militare nei bersaglieri, a meno che non ne facessero richiesta personalmente.

Il re "galantuomo"

Vittorio Emanuele II scrisse (originale vergato in lingua francese) al generale La Marmora:

«Mio caro generale,
vi ho affidato l'affare di Genova perché siete un coraggioso. Non potevate fare di meglio e meritate ogni genere di complimenti.

Spero che la nostra infelice nazione aprirà finalmente gli occhi e vedrà l'abisso in cui si era gettata a testa bassa.

Occorre molta fatica per trarla fuori ed è proprio suo malgrado che bisogna lavorare per il suo bene; che ella impari per una volta finalmente ad amare gli onesti che lavorano per la sua felicità e a odiare questa vile e infetta razza di canaglie di cui essa si fidava e nella quale, sacrificando ogni sentimento di fedeltà, ogni sentimento d'onore, essa poneva tutta la sua speranza. Dopo i nostri tristi avvenimenti, di cui avrete avuto i dettagli in seguito a un mio ordine, non so neppure io come sia riuscito in mezzo a tante difficoltà a trovarmi al punto in cui siamo. Ho lavorato costantemente notte e giorno, ma se ciò continua così ci lascio la pelle, che avrei voluto piuttosto lasciare in una delle ultime battaglie.

Parlerò alla deputazione con prudenza; saprà tuttavia la mia maniera di pensare. Vedrete le condizioni; mi è stato necessario combattere con il Ministero, perché Pinelli spesso si mostra molto debole.

Penso di lasciarvi ancora qualche tempo a Genova; fate tutto quel che giudicherete opportuno per il meglio. Ricordatevi, molto rigore con i militari compromessi. Ho fatto mettere De Asarta e il Colonnello del Genio in Consiglio di guerra. Ricordatevi di far condannare dai tribunali tutti i delitti commessi da chiunque e soprattutto nei confronti dei nostri ufficiali; di cacciare immediatamente tutti gli stranieri e di farli accompagnare alla frontiera e di costituire immediatamente una buona polizia.

Ci sono pochi individui compresi nella nota, ma si dice che occorre clemenza. Informateci su ciò che succederà, sullo stato della città, sul suo spirito, su coloro che hanno preso più parte alla rivolta, e cercate se potete di far sì che i soldati non si lascino andare a eccessi sugli abitanti, e fate dar loro, se necessario, un'alta paga e molta disciplina soprattutto per coloro che vi inviamo; saranno seccati di non arrivare a tempo.

Conservatemi la vostra cara amicizia, e conservatevi per altri tempi che, a quanto credo, non saranno lontani, in cui avrò bisogno dei vostri talenti e del vostro coraggio.

Li 8 aprile 1849
Vostro affezionatissimo
Vittorio»

La targa alla memoria

Il 26 novembre 2008, il consiglio comunale di Genova, su richiesta del Movimento Indipendentista Ligure, ha fatto apporre sulla statua del re Vittorio Emanuele II in piazza Corvetto, una targa che ricorda i tragici fatti dell'aprile 1849[1].

Il testo della targa recita:

«NELL'APRILE 1849
LE TRUPPE DEL RE DI SARDEGNA VITTORIO EMANUELE II
AL COMANDO DEL GENERALE ALFONSO LA MARMORA
SOTTOPOSERO L'INERME POPOLAZIONE GENOVESE
A SACCHEGGI BOMBARDAMENTI E CRUDELI VIOLENZE
PROVOCANDO LA MORTE DI MOLTI PACIFICI CITTADINI
AGGIUNGENDO COSI' ALLA FORZATA ANNESSIONE
DELLA REPUBBLICA DI GENOVA AL REGNO DI SARDEGNA DEL 1814
UN ULTERIORE MOTIVO DI BIASIMO
AFFINCHE' CIO' CHE E' STATO TROPPO A LUNGO RIMOSSO
NON VENGA PIU' DIMENTICATO
IL COMUNE DI GENOVA POSE»

Note

  1. ^ Marco Preve, Savoia, la secessione di Tursi, su ricerca.repubblica.it, La Repubblica, 23 novembre 2008.

La targa non è posta "sul" monumento, ma fa bella mostra sul marciapiede di fronte alla statua medesima, lato levante. (Mauro Morganti).

Bibliografia

Lo stesso argomento in dettaglio: Bibliografia su Genova.

Collegamenti esterni