Māyā

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Arthur Bowen Davies, Maya, lo specchio delle illusioni (1910)

Il sostantivo femminile sanscrito māyā (in devanāgarī माया), ricorrente in diverse dottrine filosofiche e religiose dell'antica India, ha il significato originario di «creazione» delle apparenze fenomeniche, e conseguentemente di «illusione».

Come nome proprio, Maya designa anche la madre di Gautama Buddha e la dea Lakṣmī.

Origine del termine e suoi significati[modifica | modifica wikitesto]

Māyā significa dunque originariamente "creazione" . Deriva dal verbo[1] sanscrito nell'accezione di "misurare", "distribuire", "foggiare", "ordinare", "costruire".

Nei Veda con il termine māyā si indica il potere da cui ha origine il mondo materiale. Questo potere è proprio dei deva e degli asura che lo utilizzano per trasformare una propria ideazione in una forma concreta, attenta ed efficiente come suggerisce il termine italiano "arte"[2].

Nel Ṛgveda (XV/X secolo a.C.), mediante māyā Varuṇa misura e distribuisce la terra ordinando il mondo fisico:

(SA)

«imām ū ṣvā̍surasya̍ śrutasya̍ mahīm māyāṁ varuṇasya pra vocam māneneva tasthivām antarikṣe vi yo mame pṛthivīṁ sūryeṇa»

(IT)

«Io voglio celebrare questa grande forza misteriosa di Varuṇa, l'illustre che, collocandosi in piedi nello spazio mediano, ha misurato da un capo all'altro la terra, come se il sole fosse un metro.»

(Ṛgveda V, 85,5. Traduzione di Saverio Sani in Ṛgveda, Venezia, Marsilio, 2000, pag. 147)

Sempre nel Ṛgveda Indra usa la māyā per cambiare il proprio aspetto fenomenico:

«Con i poteri della propria māyā Indra si presenta in differenti forme»

(Ṛgveda VI, 47,18)

Con la riflessione teologica e filosofica posteriore ai Veda, in particolare quella delle Upaniṣad (IX/VIII secolo a.C.) si avvia l'intuizione che la realtà fenomenica per sua natura differenziata, proceda da una singola realtà assoluta identificata come Brahman:

Così, ad esempio, il Samāvidhāna Brāhmaṇa:

(SA)

«brahma ha vā idam agra āsīt tasya tejoraso 'tyaricyata sa brahmā samabhavat sa tūṣṇīṃ manasādhyāyat tasya yan mana āsīt sa Prajāpatir abhavat»

(IT)

«In origine vi era il Brahman soltanto; poiché il succo della sua forza si espandeva, divenne Brahmā. Brahmā meditò in silenzio con la mente e la sua mente divenne Prajāpati»

(Samāvidhāna Brāhmaṇa (I,1,3))
(SA)

«yathā somyaikena mṛtpiṇḍena sarvaṃ mṛnmayaṃ vijñātaṃ syāt vācārambhaṇaṃ vikāro nāmadheyaṃ mṛttikety eva satyam yathā somyaikena lohamaṇinā sarvaṃ lohamayaṃ vijñātaṃ syāt vācārambhaṇaṃ vikāro nāmadheyaṃ loham ity eva satyam yathā somyaikena nakhanikṛntanena sarvaṃ kārṣṇāyasaṃ vijñātaṃ syāt vācārambhaṇaṃ vikāro nāmadheyaṃ kṛṣṇāyasam ity eva satyam evaṃ somya sa ādeśo bhavatīti»

(IT)

«"Come è mai, o venerabile, questo insegnamento?". "O caro, come da una zolla d'argilla si conosce tutto ciò che è fatto d'argilla: la forma particolare è questione di parole, è un nome, la realtà è una sola, l'argilla; “o caro, come da una palla di rame si conosce tutto ciò che è fatto di rame: la forma particolare è questione di parole, è un nome, la realtà è una sola, il rame; "o caro, come da un temperino per unghie si conosce tutto ciò che è fatto di ferro: la forma particolare è questione di parole, è un nome, la realtà è una sola, il ferro - così, o caro, è questo insegnamento"»

(Chāndogya Upaniṣad VI,1,4-6. Traduzione di Carlo Della Casa in Upaniṣad, Torino, Utet, 1983, pagg. 241-2)

Ne consegue che le forme fenomeniche (meya) prodotte dall'attività creatrice dei deva, ovvero da māyā, sono solo illusioni: māyā.

Nella Śvetāśvatara Upaniṣad, appartenente al Kṛṣṇa Yajurveda (Yajurveda nero), una Upaniṣad vedica piuttosto tarda, coeva o di poco precedente al Buddhismo e antesignana dello Induismo, l'attività della māyā è propria del grande Signore (maheśvaraṃ) imperituro.

(SA)

«chandāṃsi yajñāḥ kratavo vratāni bhūtaṃ bhavyaṃ yac ca vedā vadanti asmān māyī sṛjate viśvam etat tasmiṃś cānyo māyayā saṃniruddhaḥ māyāṃ tu prakṛtiṃ vidyān māyinaṃ tu maheśvaraṃ tasyāvayavabhūtais tu vyāptaṃ sarvaṃ idaṃ jagat»

(IT)

«Strofe, offerte, sacrifici, voti, passato, futuro, ciò che dicono i Veda: da ciò il mago (māyin) crea tutto questo universo e in ciò l'altro (l'anima individuale) è tenuto dai lacci dell'illusione (māyā). Bisogna dunque sapere che l'illusione è la natura e il grande Signore (maheśvaraṃ) è il mago. Tutto questo mondo è compenetrato di entità che sono particelle di lui»

(Śvetāśvatara Upaniṣad IV, 9-10. Traduzione di Carlo Della Casa in Upaniṣad, Torino, Utet, 1983, pag. 408)

Il Buddhismo Mahāyāna, propugnatore fin dai primi Prajñāpāramitāsūtra (I secolo a.C./I secolo d.C.) della dottrina dello śūnyatā ovvero della "vacuità" di proprietà inerente dei fenomeni (nulla esiste di per sé in quanto tutto è impermanente e correlato agli altri fenomeni), intende la māyā come illusione del mondo fenomenico ovvero come realtà convenzionale (vyāvahārika) che nasconde la realtà assoluta (pāramārtika).

Il velo di Maya[modifica | modifica wikitesto]

Arthur Schopenhauer

Con l'espressione Velo di Maya, coniata da Arthur Schopenhauer nel suo Il mondo come volontà e rappresentazione, si intendono diversi concetti metafisici e gnoseologici propri della religione e della cultura induista e ripresi da vari filosofi moderni. Arthur Schopenhauer nella propria filosofia sostiene che la vita è sogno e che questo "sognare" sia innato (quindi la nostra unica "realtà") e obbedisca a precise regole, valide per tutti e insite nei nostri schemi conoscitivi.

Questo «velo» come quello di Iside, di natura metafisica e illusoria, separando gli esseri individuali dalla conoscenza/percezione della realtà (se non sfocata e alterata), impedisce loro di ottenere moksha (cioè la liberazione spirituale) tenendoli così imprigionati nel saṃsāra, ovvero il continuo ciclo delle morti e delle rinascite. Similmente alla metafora della caverna di Platone, l'uomo (e quindi l'umanità) è presentato come un individuo i cui occhi sono coperti fin dalla nascita da un velo; quando se ne libererà, la sua anima si risveglierà dal letargo conoscitivo (o avidyã, ignoranza metafisica) e potrà contemplare finalmente l'essenza della realtà.

Le numerose ed eterogenee correnti induiste attribuiscono significati e funzioni differenti a questo concetto: le correnti dualistiche (ad esempio gli Hare Krishna) la interpretano come il «velo» che impedisce all'essere individuale di riscoprire la propria relazione con Dio, che essi identificano con Krishna; mentre presso le scuole moniste (come, ad esempio, l'Advaita Vedānta) questo «velo» è rappresentato dall'identificazione con il corpo, con la mente, con l'intelletto e con la propria individualità, il senso dell'io (ahamkara), ovvero tutto ciò che ricopre e riveste l'Ātman (unica entità eterna ed immortale), impedendo di riconoscere la propria identificazione con esso ed illudendo così l'anima individuale di essere un individuo distinto dal tutto.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Classe 2, parasmaipadam (attivo).
  2. ^
    (EN)

    «For the Vedic authors, māyā denoted the faculty that transforms an original concept of creative mind into concrete form, a faculty of immense proficiency and shrewdness such as is suggested by the English word craft. In the Vedas, performances of māyā are mainly ascribed to divine beings, devas (“gods”) or asuras (“countergods”).»

    (Teun Godrian. Encyclopedia of Religion, vol.9. NY, Macmillan, pag. 5794)

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