Agesilao Milano

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Versione del 31 mar 2016 alle 18:33 di Generale Lee (discussione | contributi) (Annullata la modifica 79909285 di 95.234.136.111 (discussione))
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
Agesilao Milano

Agesilao Milano (San Benedetto Ullano, 12 luglio 1830Napoli, 13 dicembre 1856) è stato un militare italiano, che attentò alla vita del re delle Due Sicilie Ferdinando II. L'attentato si inserisce in un contesto di continue agitazioni che precedettero l'impresa dei Mille.

Biografia

Inizi

Nacque in una famiglia umile di origini arbëreshë, da Benedetto, sarto, e Maddalena Russo, possidente. Il padre, affiliato alla Carboneria, passò un certo periodo nel carcere di Castelvetere a causa delle sue idee liberali. Milano intraprese i primi studi sotto l'egida di suo zio Domenico, sacerdote. Successivamente, studiò a Cosenza nel Collegio di San Demetrio Corone ed entrò nell'esercito borbonico, soprattutto per mantenere la famiglia.

Ben presto, deluso dal trattamento ricevuto, cominciò a tramare contro il governo, schierandosi dalla parte del nascente movimento mazziniano e partecipando alle rivolte calabresi del 1848. Arrestato e condannato al carcere duro, venne amnistiato nel 1852 e tenuto sotto sorveglianza. Dopo un periodo di crisi religiosa, pensando di intraprendere la carriera ecclesiastica, anche per motivi economici, fu arrestato con l'accusa di complotto contro la corona durante una visita di Ferdinando II a Cosenza ma venne assolto.

Milano iniziò a premeditare il suo assassinio, incolpandolo di aver represso nel sangue i moti rivoluzionari, nonché ostile ad una forma di governo costituzionale. Nonostante i suoi precedenti, ottenne il rientro nell'esercito borbonico, chiedendo di sostituire il fratello Ambrogio, sorteggiato per il servizio di leva, e riuscì ad arruolarsi nel 3º battaglione Cacciatori, che gli permise di stare vicino al sovrano.

L'attentato e la condanna

Attentato di Agesilao Milano

L'8 dicembre del 1856, giorno dell'Immacolata Concezione, Ferdinando II assistette a Napoli alla Santa Messa con tutta la famiglia, gli alti funzionari governativi e molti nobili del suo seguito. Dopo la celebrazione, il sovrano passò in rassegna, a cavallo, allo sfilare delle truppe (25.000 soldati) sul Campo di Marte.

Fu allora che Milano, rotte le righe, si lanciò contro il re e, non potendo caricare tempestivamente il suo fucile, riuscì a ferirlo con un colpo di baionetta, che fu attutito dalla fonda delle pistole sospese sulla sella del cavallo, ma fu comunque profondo. L'aggressore stava per scagliare un secondo colpo ma Francesco de La Tour, colonnello degli ussari, intervenne immediatamente e lo scaraventò a terra, permettendone l'arresto. Il re se la cavò con un grosso spavento e la sera stessa fu salutato con tripudio e feste grandi dal popolo per lo scampato pericolo.

All'imputato furono sequestrati alcuni oggetti, tra cui una Bibbia in greco, una copia di De regimine principum di Tommaso d'Aquino e alcune poesie di sua composizione. Sottoposto ad una crudele tortura di sei ore,[1] fu poi processato per direttissima pochi giorni dopo. Milano motivò la sua azione dichiarando «di non aver contro S. M. nessuna ragione di odio e di vendetta particolare, ma averlo fatto per essere ai suoi occhi il re tiranno da cui doveva liberarsi la nazione».[2]

Esecuzione e conseguenze

Fu condannato a morte il 12 dicembre dello stesso anno. L'avvocato che lo difese ufficiosamente, Giocondo Barbatelli, presentò la domanda di grazia al re, il quale la respinse e non volle neanche ricevere l'avvocato di persona.[3] Milano fu impiccato il giorno dopo in Piazza del Mercato, al grido di «Viva Dio, la religione, la libertà e la Patria»;[4] il suo corpo fu gettato nella fossa comune del cimitero della contigua Chiesa del Carmine.

Dopo l'attentato, le repressioni della polizia borbonica diventarono più autoritarie, soprattutto ai danni dei calabresi. Due colleghi di Milano, che erano a conoscenza dei suoi piani sebbene non vi presero parte, furono coperti dagli amici e, in seguito, imbarcati su un vascello inglese.[5] Dopo l'inasprimento della reazione monarchica, avvennero episodi sospettati di terrorismo.

Il 17 dicembre a Napoli scoppiò una polveriera militare, provocando la morte di 17 persone e la distruzione di una batteria di artiglieria; si pensò ad una vendetta in onore dell'attentatore ma fu una combustione accidentale di alcuni razzi incendiari.[6] Il 4 gennaio 1857 esplose la fregata Carlo III, in partenza da Napoli verso la Sicilia, dove Luigi Pellegrino, un rivoluzionario sbarcato da Malta nel dicembre 1856, stava cercando di fomentare una rivolta nei pressi di Catania.[7][8] Si registrarono circa 40 morti e numerosi feriti. Anche qui si pensò ad un complotto liberale ma la causa è da attribuirsi ad un tentativo di furto di polvere da sparo, ad opera di un ladro inesperto che provocò la strage con una candela accesa.[9]

Benché si trattasse di incidenti, i provvedimenti divennero sempre più aspri: vi furono arresti a Napoli e in Calabria, sfratto di studenti e espulsione di numerosi militari che facevano parte dello stesso reggimento di Milano. Non sfuggirono alla reclusione anche i fratelli dell'attentatore, Camillo e Ambrogio, e alcuni compagni del Collegio di S. Demetrio.[9]

Dopo la morte

Ferdinando II rimase scosso dal fallito attentato, preoccupato che la baionetta dell'attentatore fosse avvelenata, e ciò lo segnò definitivamente, costringendolo a recarsi a Napoli più di rado. Quasi quattro anni dopo, durante la degenza che lo condusse alla morte, il Re chiese al chirurgo Capone di controllare se la ferita al petto infertagli dal Milano si fosse infiammata. Il Chirurgo lo rassicurò che la cicatrice era intatta e senza segni di infiammazione e suppurazione, e concluse qualificando Milano come un infame. Il Re rimproverò il chirurgo: «non si deve dir male del prossimo; io ti ho chiamato per osservare la ferita e non per giudicare il misfatto; Iddio lo ha giudicato, io l'ho perdonato. E basta così».[10]

Se i borbonici lo dipinsero come un criminale e traditore, i repubblicani lo esaltarono come un eroe nazionale. Milano venne elogiato da Carlo Pisacane e Giuseppe Garibaldi, mentre Cavour ripudiò il suo atto.[11] Quando Garibaldi entrò a Napoli nel 1860, uno dei primi provvedimenti fu quello di riconoscere un vitalizio mensile di 30 ducati alla madre, e una dote di 2000 ducati alle sorelle di Milano. Il gesto di Garibaldi suscitò le polemiche di Francesco II, figlio di Ferdinando II, che da Gaeta, mentre era assediato dalle truppe sabaude, inviò una formale protesta a tutte le corti europee, costringendo il governo di Torino ad abrogare il decreto di Garibaldi qualche mese dopo.[12]

Note

  1. ^ Pasquale Villani, Agesilao Milano o Il martire di Cosenza, L.Chiurazzi, 1866, p.71
  2. ^ Archivio storico per la Calabria e la Lucania, Volumi 25-26, 1956, p.411
  3. ^ Raffaele De Cesare, La fine di un regno: parte 1, S. Lapi, 1900, p.171
  4. ^ Domenico Cassiano, Risorgimento in Calabria, Marco, 2003, p.178
  5. ^ Raffaele De Cesare, La fine di un regno: parte 1, S. Lapi, 1900, p.172
  6. ^ Raffaele De Cesare, La fine di un regno: parte 1, S. Lapi, 1900, p.174
  7. ^ Società siciliana per la storia patria (Palermo), pag 178, Archivio storico siciliano, Volume 50, 1930
  8. ^ Emanuele De Marco, pag. 36 e seguenti, La Sicilia nel decennio avanti la spedizione dei mille, Monaco e Mollica, 1898
  9. ^ a b Raffaele De Cesare, La fine di un regno: parte 1, S. Lapi, 1900, p.175
  10. ^ Michele Topa, Così finirono i Borbone di Napoli, Fratelli Fiorentino
  11. ^ Giacomo Margotti, Memorie per la storia de'nostri tempi dal congresso di Parigi nel 1856 ai primi giorni del 1863, Unione tipogr. editrice, 1863, p.223
  12. ^ Michelangelo Mendella, Governo e cospirazioni a Napoli in età borbonica, Fratelli Conte Editori, 1987, p.64

Bibliografia

  • Raffaele De Cesare, La fine di un regno: parte 1, S. Lapi, 1900
  • Eugenio Floritta, Rivoluzione e tirannide, Stamperia e leg. clamis E Roberti, 1863