Utente:Menchino

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Menchino prova a dare, saltuariamente, il suo contributo a Wikipedia dal 2011.

Perché Menchino[modifica | modifica wikitesto]

In questa storia, ogni riferimento a personaggi esistenti o a fatti realmente accaduti è forse casuale. Ma la racconto.

Menchino abitava a Crespole, forse tra la fine del '700 e l'inizio dell'800. Questo Menchino ha in comune col calciatore Domenico Neri solo il soprannome. Infatti il nostro eroe si chiamava Domenico B., ma tutti lo ricordano come Menchino. La sua storia non è stata mai scritta, e va bene così. È però stata tramandata dai discendenti e a volte la si può sentir raccontare tra le castella della Svizzera pesciatina.

Si dice che Menchino non fosse molto alto, ma che era forte e ben tarchiato; soprattutto, si dice che avesse un caratteraccio; irascibile e violento. Si dice anche che sua moglie fosse peggio di lui. All'epoca la vita lavorativa su quei monti dell'Appennino toscano era dura. Gli uomini trascorrevano gran parte della giornata nei campi o nei boschi - castagneti soprattutto. All'ora del desinare le loro donne portavano il cibo per il pranzo. Un giorno sua moglie non andò, come invece fecero le altre; e Menchino non la prese bene. Nuovamente, un altro giorno la moglie non portò il desinare. Alla sera Menchino tornò a casa infuriato, prese un bastone e con un colpo le spezzò entrambe le braccia. Da allora a Menchino non mancò mai il cibo a mezzogiorno - un cibo povero, il più delle volte erano necci.

Un giorno Menchino si trovava vicino alla chiesa del suo paese. In mano aveva un correggiato; presumibilmente era la stagione della battitura, forse quella del grano. Gli uomini del paese erano a lavorare tra i castagneti o nei campi. Non sappiamo perché lui fosse nei pressi del castello, dove solitamente in giornata si trovavano solo ragazzi, vecchi e donne. Si racconta però che giunse una banda di giovani provenienti da un paese vicino - pare dalla Serra, il paese chiamato dai suoi abitanti "la Sera", per quella strana pronuncia della doppia erre usata da quelle parti - che iniziò a provocare i presenti e a infastidire bambini e donne. Menchino prese le difese dei "crespoli", ma si trovò subito circondato dalla banda straniera. Armato di correggiato, riuscì a tenera a bada le soverchianti forze nemiche per un po', roteando lo strumento a tutta forza, fino a quando la calocchia non si spezzò contro il muro all'angolo della chiesa. A quel punto fu messo sotto, riempito di botte e accoltellato in fondo alla schiena, alcuni dicono su un gluteo, altri usano un termine più volgare. Lasciato Menchino a terra, la banda partì.

Serra pistoiese, 2010

Tempo dopo, Menchino lasciò Crespole e si trasferì in una casa costruita attorno a un antico seccatoio per le castagne sopra al paese di Lanciole, in una località chiamata "l'Arco", forse per la forma che aveva una sorgente o un corso d'acqua.

Passarono molti anni e giunse l'età napoleonica. Forse Napoleone era già a Sant'Elena, o forse aveva da poco vinto ad Austerlitz quando Menchino, oramai vecchio, andò in un lontano paese di quelle sue montagne a rifare le lame di asce, scuri accette e altri strumenti agricoli (i vecchi, quando raccontavano questa storia, sapevano dire esattamente quale paese fosse e quanto tempo ci volesse per arrivarci a piedi - io queste cose non me le ricordo).

Sulla via del ritorno incrociò un uomo più giovane, a cavallo. Il cavaliere chiese al vecchio indicazioni sulla strada per andare a Pontito, evitando Crespole perché, disse, quello era un postaccio. Menchino, che era nato a Crespole e ora stava sopra a Lanciole, non diceva mai a nessuno da dove venisse; non diceva proprio che il suo nome fosse "Nessuno", ma - come Ulisse - era sempre un po' diffidente e un po' prudente. Accompagnò dunque il discorso dicendo che sì, a Crespole la gente era "poco bona". Il cavaliere, tronfio, al quel punto raccontò le sue gesta di gioventù; lui sì che l'aveva fatta pagare a quelli di Crespole: una volta - disse - ce n'era addirittura uno che voleva fare il gradasso, ma lui l'aveva sistemato per le feste. "Avete fatto proprio bene!", esclamò Menchino che a quel punto non aveva più dubbi su chi fosse la persona che gli si trovava davanti: era l'uomo che lo aveva accoltellato tanti anni prima. Menchino fornì le indicazioni per i sentieri che evitavano Crespole e si propose di fare un pezzo di strada assieme, fino a un certo bivio. Sulla via, a un certo punto chiese di fare una breve sosta per cercare nel bosco dei legacci e un bastone, con la scusa di dover legare meglio gli arnesi per portarli con meno fatica sulle spalle; «sapete, sono vecchio», sottolineò. Il cavaliere lo attese. Menchino si scelse bene un solido tronchetto di castagno e dopo un po' tornò sul sentiero con un randello tagliato di fresco: colpì deciso il cavaliere e lo uccise a bastonate. Si dice che il cavallo storno fosse stato visto senza il cavaliere che non tornava, il cui corpo venne ritrovato dopo molto tempo. Menchino non raccontò a nessuno questa storia. La raccontò solo al prete in punto di morte, in una specie di confessione fatta da un uomo che aveva sempre creduto poco nella Chiesa e nei suoi rappresentanti. Il segreto della confessione non fu rispettato; la moglie la venne a sapere e la vicenda venne poi raccontata dai suoi figli ai nipoti di Menchino; che la raccontarono ai loro figli; poi i figli dei nipoti di Menchino la raccontarono ai loro figli; e così via, fino agli anni '70 del '900.

Menchino ebbe vari figli. Tanto era piccolo e cattivo lui, tanto era buono, alto e forte il figlio Fiore, quello che con le due braccia riusciva a far suonare contemporaneamente le due campane più grosse del campanile di Lanciole. Biancone, un altro figlio, aveva quel soprannome per il fisico possente; pare che si trasferì verso Pontito, dove una stirpe di discendenti del vecchio Menchino sarebbe poi stata presente.

Fiore ebbe altri figli; tutti lavoravano in quella casa dell'Arco, ma più spesso passavano molti mesi, talvolta diversi anni, andando a lavorare come migranti stagionali altrove. Come quel figlio di Fiore che si chiamava Raffaello che, come Giovanni, uno dei figli di Raffaello, andò a far carbone in Corsica, sapone a Marsiglia, lavorò nelle miniere di gesso in Algeria e alla costruzione della linea ferroviaria Berlino-Bagdad nell'Impero ottomano. Fino al 1914 quando con lo scoppio della Prima guerra mondiale tornò alla casa di Lanciole. Negli anni quella casa era stata ingrandita, ma era sempre tanto scomoda, con tredici forse quindici stanze incastonate alla rinfusa e sempre fredde. Al fianco c'era la stalla per la mucca, lo stabbiolo per il maiale; poi conigli, polli e qualche altro animale. Ma quella casa conteneva piccoli tesori, oggetti provenienti da tutto il Mediterraneo e altrove, come solidi libri scritti in cirillico, volumi illustrati, tanti romanzi, con una preferenza per i francesi e i russi dell'800; e poi arnesi di tutti i tipi, sassi e oggetti speciali raccolti nei boschi, utensili costruiti a mano. In quella casa le donne erano analfabete ma non gli uomini, che sapevano recitare l'Orlando furioso a memoria e conoscevano a memoria pezzi delle cantiche di Dante. Le sere d'inverno le passavano a veglia raccontando storie, episodi dell'Odissea, novelle, storielle o storie di vita, come ad esempio quella di Menchino. Le donne avevano una predilezione per il canto; canzoni lunghissime, con melodie ora perse e forse rintracciabili nei canzonieri dei canti popolari. Questi contadini piccolissimi proprietari, con i risparmi dei lavori a giro per il mondo, avevano piano piano comprato qualche ettaro di terra cercando di oltrepassare la soglia della produzione per l'autoconsumo, nel sogno di una irraggiungibile indipendenza economica, cercata coltivando castagne e vendendo farina dolce, coltivando un po' di grano, patate e altro, e allevando bestie in un lavoro continuo che però permetteva solo un accesso limitato al mercato per ricavare soldi, quei soldi che non bastavano mai. Anche le loro donne migravano periodicamente per lavorare, come la matrigna della moglie di Giovanni, Plinia. Plinia veniva dal padule di Fucecchio. Figlia di mezzadri, primogenita, sua mamma era morta col parto. La seconda moglie del padre ebbe sette o otto figli e ogni volta che partoriva partiva per la Francia a fare la balia da latte; Plinia fece da mamma a quello stuolo di fratelli e sorelle, crescendo un po' da sola un po' con tanta gente attorno. Tutti la chiamarono sempre Primia, con la erre, perché era la prima. Anche lei faceva l'operaia stagionale come quando andava sui monti per la raccolta delle castagne; fu in una di quelle occasioni che conobbe Giovanni, pochi anni dopo la Prima guerra mondiale. La Grande Guerra Giovanni la fece tra gli alpini, Battaglione Edolo, pare. Rimase sepolto sotto una valanga, forse durante la "Santa Lucia nera" del 13 dicembre 1916. Si salvò grazie allo zaino che usava come cuscino durante la notte. Dopo molte ore, o giorni (non sappiamo dopo quanto) fu ritrovato e venne estratto dalla neve; raccontava che italiani e austriaci si erano aiutati. Grazie ai suoi meriti militari si trovò promosso di grado, lui che era partito col grado più basso; ma rifiutò la promozione perché - lo raccontò al figlio maggiore - non voleva rischiare di prendersi una fucilata alla schiena dai soldati semplici, come talvolta capitava a chi dava ordini (questo raccontava; ora è difficile scriverlo nei libri di storia perché non si trovano fonti per queste specifiche vicende di vita al fronte). Nel 1917 ebbe un problema a un piede. Gli scarponi militari non erano mai del numero giusto e l'unghia di un alluce si incarnì; venne ricoverato nell'ospedale da campo proprio il giorno prima della partenza del suo reparto per un'offensiva; da quella offensiva tornarono vivi solo in due; il terzo sopravvissuto fu Giovanni, grazie al piede malato. Nell'ultima fase della guerra divenne assistente di fotografi e cinedocumentaristi di guerra; tornò dal fronte con scatole piene di pellicole con filmati inediti, poi andati tutti perduti. Giovanni e Primia ebbero due figli e in qualche modo riuscirono a sopravvivere al fascismo. Primia, da vecchia, si sarebbe vantata di non aver mai donato la fede nuziale al duce. L'uscita dalla Seconda guerra mondiale fu durissima. Il vecchio mondo crollò. I campi e i castagneti non rendevano più nulla; il prezzo della farina di castagne scese a livelli insostenibili per chi la produceva. Tutti partirono e molti non tornarono, o tornarono periodicamente per le feste o qualche settimana di vacanza. La grande trasformazione fu pagata a caro prezzo, un prezzo morale, che distrusse per sempre quel mondo. A distruggerlo furono soprattutto quelli che ne facevano parte, che non ne volevano più sapere di necci, di freddo, di mancanza di calorie e di desiderio inestinguibile di dolci e mobilità sociale.

Negli anni '70 le montagne di Lanciole e di quelle valli avevano colori e odori diversi da quelle dei tempi di Menchino. I castagneti erano stati distrutti per farne legna da vendere, col crollo dell'economia della castagna. I boschi erano stati abbandonati o trasformati in bosco ceduo. I tradizionali percorsi delle emigrazioni stagionali si erano modificati... Questo lo racconterò meglio un'altra volta. Ora dobbiamo tornare da Menchino.

Dunque, negli anni '70 sopra a Lanciole viveva il Verla, o l'Averla: così era soprannominato Berto fin da ragazzo. Berto non era esattamente il suo nome, ma Berto aveva un cane, Trilli; Trilli non ha nessun ruolo in questa vicenda del racconto di Menchino, ma è una figura importante per altre storie e quindi va ricordato. Un giorno il Verla era a cena fuori casa con altra gente di vari paesi di quelle montagne. A un tavolo vicino sentì raccontare la storia di Menchino. Fecce un sobbalzo, perché quella storia l'aveva sentita raccontare tante volte da piccolo, a veglia o altrove. Si trattava di discendenti del suo Menchino che raccontavano questa storia; venivano dalla linea di Biancone, non di Fiore; il racconto era costruito con alcune interessanti varianti che a conoscerle nei dettagli oggi si farebbe la gioia degli studiosi di storia orale e degli antropologi.

La domenica dopo a casa del Verla arrivò il fratello, più grande ed emigrato a Firenze da diverso tempo; anche lui aveva viaggiato, non in Germania ma in Somalia, negli anni '50. La strana epopea di Menchino fu raccontata di nuovo e venne sentita dai figli dei due fratelli, quelli nati negli anni del boom economico, quelli che alla televisione guardavano lo sceneggiato Radici, con Kunta Kinte e i racconti dei suoi discendenti. I figli che guardavano la televisione, leggevano i fumetti e giocavano con cerbottane e soldatini poi l'hanno raccontata ai loro figli, quelli nati a fine '900 o nel nuovo secolo che guardavano YouTube, leggevano blog e giocavano ai videogame, ma con la grande difficoltà di dover ricostruire a parole un mondo che non esisteva più e che avevano vissuto solo per via indiretta. Come si fa a raccontare il dolore del riccio di castagne sulla punta delle dita oggi? Come si fa a descrivere il freddo pungente delle notti d'inverno nelle case di montagna e il male ai bracci quando si torna con le cataste di legna? Come si può capire la fatica del portare un maialino (vivo) sulle spalle per chilometri in un sentiero di montagna?

Non lo so. E va bene così. Intanto ho raccontato questa storia. Che forse non è vera. Forse sì, in parte. A me piace. Spero di non aver annoiato chi è giunto fino a qui.

Quando mi sono iscritto a Wikipedia stavo pensando a Menchino, a come avrei potuto spiegare a lui Wikipedia. Per questo ho scelto questo nickname.

Proverò a collaborare saltuariamente, scrivendo delle cose che un po' conosco. Lo feci per la prima volta nel 2011; l'ho rifatto adesso nel 2017. Poi continuerò il racconto di Menchino, o di cose simili. Adesso vado a dormire che domani è lunedì e si è fatto tardi.

Buon lavoro a tutti e a tutte.

Pagine create[modifica | modifica wikitesto]

Passato e presente. Rivista di storia contemporanea

Antologia Vieusseux

Pagine in prova[modifica | modifica wikitesto]

Zapruder. Rivista di storia della conflittualità sociale

Traduzioni[modifica | modifica wikitesto]

Julien Luchaire (FR => IT)

Contributi più significativi su alcune pagine[modifica | modifica wikitesto]

Bocci-Bocci

Istituto Francese di Firenze

Institut Français de Naples