Utente:Riottoso/Sandbox8

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Contesto storico[modifica | modifica wikitesto]

Con lo scoppio del conflitto, la fine della campagna di Polonia e la dichiarazione di guerra di Gran Bretagna e Francia alla Germania nazista, fra il novembre 1939 e il marzo 1940 caddero definitivamente anche le ultime speranze di pace in Europa. In quei mesi di stasi operativa sul fronte occidentale, definiti dalla storiografia come "strana guerra", le forze armate tedesche occuparono in aprile prima la Danimarca e successivamente la Norvegia, assicurandosi una via sicura per l'importazione di metallo svedese e anticipando così i piani anglo-francesi tesi a impedirlo. La campagna nel nord rientrava nel piano strategico tedesco per la conquista dell'occidente: protetta alle spalle dalla conquista della Polonia e della Cecoslovacchia, nonché dal trattato di non aggressione con l'Unione Sovietica e coperta sul fianco meridionale dall'alleanza con l'Italia, con l'occupazione della Norvegia la Germania allontanò anche lo spauracchio del blocco navale britannico e iniziò i preparativi per l'attacco risolutore ad occidente[1]. L'attacco alla Francia ebbe inizio il 10 maggio 1940, cogliendo di sorpresa anche l'alleato italiano: Benito Mussolini, come accadde per l'invasione della Polonia non venne informato dei preparativi di guerra, e ricevette la notizia solo alle cinque del mattino di quello stesso 10 maggio per mano dall'ambasciatore tedesco a Roma Hans Georg von Mackensen[2]. La notizia dell'inizio dell'offensiva non fece piacere al duce, anche se a von Mackensen disse che «approvava toto corde l'azione di Hitler» e inviò subito a Berlino un vago messaggio che il conte Galeazzo Ciano definì «caldo ma non impegnativo», ma che era nei fatti un passo importante verso la via dell'impegno bellico[3].

L'Italia entra in guerra[modifica | modifica wikitesto]

Mussolini nell'agosto 1939 fu messo di fronte alla scelta di scendere o meno in campo a fianco di Adolf Hitler, ma conscio dell'impreparazione del proprio esercito e dell'industria italiana, optò per l'ambigua posizione di «non belligeranza», che mantenne fino al giugno 1940[4]. Mussolini sapeva bene che l'Italia non era in grado di sostenere una guerra europea, e questa fu la giustificazione più ovvia che portò alla non belligeranza (anche se al paese venne raccontato ben altro), con cui Mussolini ammise implicitamente il fallimento della politica di potenza che aveva condotto ben al di sopra delle capacità del paese[5]. D'altro canto lo stesso Mussolini sapeva che l'Italia non poteva «rimanere neutrale per tutta la durata della guerra, senza dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di una Svizzera moltiplicata per dieci»[5], e tale prospettiva non poteva essere ammessa, restava la speranza di poter condurre una «guerra parallela» che avrebbe consentito all'Italia fascista di raccogliere qualche guadagno territoriale senza perdere la faccia[6]. La notizia dell'offensiva tedesca fece rimanere gli italiani col fiato sospeso, tutti più o meno consapevoli che da essa dipendevano le sorti dell'Europa e dell'Italia in primo luogo, e portò in Mussolini una serie di reazioni contrastanti che «con gli alti e bassi tipici del suo carattere» continuarono ad accavallarsi rendendolo incapace di prendere una decisione che sentiva di dover prendere e voleva prendere, ma alla quale tutto sommato, cercava di sottrarsi[7]. Contemporaneamente la diplomazia europea si impegnò per evitare che Mussolini scendesse in campo: per impreparata che fosse l'Italia, il suo apporto sarebbe potuto essere decisivo per piegare la resistenza francese e avrebbe potuto creare grosse difficoltà anche alla Gran Bretagna. Il 14 maggio, su insistenza francese, Franklin Delano Roosevelt indirizzò a Mussolini un messaggio dai toni concilianti per dissuadere il dittatore italiano dall'entrare in guerra, e due giorni dopo anche Winston Churchill seguì l'esempio del presidente americano, ma con un messaggio dai toni meno concilianti e più intransigente, in cui avvertiva che l'Inghilterra non avrebbe desistito dalla lotta, qualunque fosse stato l'esito della battaglia sul continente[8].

Le risposte di Mussolini ad entrambi i messaggi confermarono che il duce voleva rimanere fedele alla scelta fatta con l'alleanza con la Germania e agli obblighi "d'onore" che essa comportava, ma privatamente Mussolini non aveva ancora raggiunto la certezza sul da farsi e se nemmeno se fosse venuto il momento «giusto» per intervenire[9]. Pur parlando continuamente di guerra con Ciano e con gli altri suoi collaboratori ed essendo profondamente colpito dai successi tedeschi, durante le due settimane precedenti l'attacco tedesco ad occidente e fino almeno al 27-28 maggio (se si esclude una improvvisa convocazione dei tre sottosegretari militari la mattina del 10 maggio), non risulta che i colloqui con i responsabili con le forze armate avessero avuto alcun incremento, e nulla faceva presagire un immediato intervento[10]. Il crollo della Maginot, la mancata «seconda Marna» e Dunkerque convinsero l'opinione pubblica e le classi politiche e militari che la Francia e l'Inghilterra avessero ormai perso la guerra, e in questo clima particolare nacque il timore di «arrivare tardi» che faceva un tutt'uno con la convinzione che la guerra sarebbe stata brevissima[11]. In quegli ultimi giorni di maggio Mussolini ebbe una decisiva virata verso l'intervento: il 26 il duce ricevette una lettera da Hitler e contemporaneamente un rapporto inviato a Roma dal ministro Dino Alfieri sul suo colloquio con Hermann Göring. Entrambi produssero nel dittatore una forte impressione, tanto che Ciano annotò sul suo diario «Si propone di scrivere una lettera ad Hitler annunciando il suo intervento per la seconda decade di giugno»[12]. Il 28 maggio Mussolini comunicò a Pietro Badoglio la decisione di intervenire contro la Francia, e la mattina successiva si riunirono a Palazzo Venezia i quattro vertici delle forze armate, Badoglio e i tre capi di stato maggiore Rodolfo Graziani, Domenico Cavagnari e Francesco Pricolo: in mezz'ora tutto fu definitivo. Mussolini comunicò ad Alfieri la sua decisione[13], e il 30 maggio comunicò ufficialmente la decisione a Hitler di entrare in guerra il 5 giugno. Il giorno dopo il führer rispose di posticipare di qualche giorno l'intervento e quindi in un altro messaggio del 2 giugno, von Mackensen comunicò a Mussolini che la richiesta di posticipare l'azione era ritirata e anzi, sarebbe stato gradito un anticipo[14]. Così si giunse al 10 giugno: alle 16:30 Ciano fece convocare a palazzo Chigi gli ambasciatori francese e britannico, André François-Poncet e Percy Loraine, e comunicò loro la dichiarazione di guerra, e alle 18 dal balcone di Palazzo Venezia, Mussolini annunciò l'avvenuta dichiarazione di guerra al popolo italiano[15].

Le reazioni internazionali[modifica | modifica wikitesto]

Forze contrapposte[modifica | modifica wikitesto]

La situazione delle forze armate italiane[modifica | modifica wikitesto]

La prospettiva di una guerra in Europa fu accolta con scarso entusiasmo dai gruppi industriali e da una buona parte degli stessi vertici fascisti, sebbene le più alte personalità del regime, non escluso il sovrano, avevano approvato la linea di condotta tracciata da Mussolini il 31 marzo 1940, che prevedeva di entrare in guerra il più tardi possibile, in modo da sfruttare la situazione e evitare una guerra lunga insopportabile per il paese. Le divergenze divennero più importanti quando Mussolini manifestò la propria intenzione di intervenire in anticipo rispetto al termine previsto del 1943, ma nulla poterono le opposizioni di Vittorio Emanuele III e di Badoglio motivate dall'impreparazione del Regio Esercito e da un giudizio prudente delle vittorie tedesche in Francia[16]. Mussolini al contrario, ritenendo quelle vittorie decisive, e prospettando una ormai prossima la capitolazione delle forze armate francesi, non attribuì importanza alle insufficienze della forze armate; secondo Mussolini le vittorie tedesche erano il chiaro presagio dell'imminente fine della guerra, per cui i disastrosi rapporti degli esponenti delle forze armate e le insufficienze economico-industriali non avevano più importanza[17]. I vertici militari riconobbero quindi l'inadeguatezza del paese ad affrontare una guerra e allo stesso tempo non presero posizione dinanzi all'intervento, ribadendo la loro fiducia nel genio di Mussolini e rimettendosi alle sue decisioni. In questo senso mancava un comando unico e autorevole delle forze armate che avesse un'effettiva autorità nei confronti del duce, il quale proprio per questo motivo non lo aveva mai voluto, facendo così rimanere le tre forze armate autonome e rivali, senza una strategia comune che desse loro maggior peso[18].

In caso di guerra i preparativi vennero delineati nel piano P.R.12 messo a punto dallo stato maggiore dell'esercito nel febbraio 1940, che prevedeva una condotta strettamente difensiva sulle Alpi Occidentali, e offensive in condizioni favorevoli in Jugoslavia e in Egitto, Gibuti e Somalia britannica. Si trattava di indicazioni di massima per la dislocazione delle forze disponibili, non di piani operativi, per i quali veniva data libertà di improvvisazione al duce[19]. Mancava una strategia complessiva, obiettivi concreti e un'organizzazione della guerra[20], e tutto ciò fu evidente fin da subito, quando dopo la dichiarazione di guerra lo stato maggiore generale il 7 giugno diramò l'ordine 28op.: «A conferma di quanto comunicato nella riunione dei capi di stato maggiore tenuta il giorno 5 [giugno] ripeto che l'idea precisa del duce è la seguente: tenere contegno assolutamente difensivo verso la Francia sia in terra che in aria. In mare: se si incontrano forze francesi miste a forze inglesi, si considerino tutte forze nemiche da attaccare; se si incontrano solo forze francesi, prendere norma dal loro contegno e non essere i primi ad attaccare, a meno che ciò ponga in condizioni sfavorevoli.» In base a quest'ordine l'aeronautica ordinò di non effettuare alcuna azione offensiva, ma solo di compiere ricognizioni aeree mantenendosi in territorio nazionale[21], e altrettanto fecero l'esercito e la marina, la quale non aveva alcuna intenzione di uscire dalle acque nazionali, salvo per il controllo del canale di Sicilia, ma senza garantire le comunicazioni con la Libia[22]. Tutti i piani dell'esercito italiano, dall'Ottocento al 1940, prevedevano per un'ipotetica guerra contro la Francia un'atteggiamento difensivo sulle Alpi, cercando eventuali sbocchi offensivi sul Reno in appoggio ai tedeschi o nel Mar Mediterraneo. Ma nel giugno 1940 si delinearono subito le deficienze della guerra fascista a cominciare dall'impostazione strategica: con le brillanti vittorie tedesche a nord era inutile e impraticabile un attacco italiano lungo il Reno[23], mentre sul mare la flotta italiana, nonostante il promemoria di Mussolini del 31 marzo prevedesse una «offensiva su tutta la linea nel Mediterraneo e fuori», non aveva nessuna intenzione di muoversi dai porti[22]. Ciò nonostante vennero concentrate lungo il confine due armate, la 1ª Armata comandata dal generale Pietro Pintor e la 4ª Armata del generale Alfredo Guzzoni, che assieme costituivano il Gruppo armate ovest al comando del principe Umberto. Un totale di 22 divisioni per circa 300.000 uomini e 3000 cannoni, con grossi concentramenti di forze di riserva nella Pianura Padana senza precise disposizioni strategiche. «L'Italia entrava in guerra senza essere attaccata, né sapere dove attaccare, addensava le truppe alla frontiera francese perché non aveva altri obiettivi»[24].

L'esercito francese[modifica | modifica wikitesto]

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Bocca, pp. 126-128.
  2. ^ De Felice, p. 794.
  3. ^ De Felice, p. 795.
  4. ^ Bocca, pp. 50-53.
  5. ^ a b Rochat, p. 239.
  6. ^ Rochat, p. 240.
  7. ^ De Felice, p. 798.
  8. ^ De Felice, pp. 799-801.
  9. ^ De Felice, p. 803.
  10. ^ De Felice, p. 804.
  11. ^ De Felice, p. 818.
  12. ^ De Felice, p. 824.
  13. ^ De Felice, p. 834.
  14. ^ De Felice, pp. 837-838.
  15. ^ De Felice, pp. 840-841.
  16. ^ Faldella, p. 76.
  17. ^ Faldella, pp. 77-78.
  18. ^ Rochat, pp. 240-241.
  19. ^ Rochat, pp. 242-243.
  20. ^ Rochat, p. 244.
  21. ^ Faldella, pp. 165-166.
  22. ^ a b Rochat, p. 243.
  23. ^ Rochat, pp. 247-248.
  24. ^ Rochat, p. 248.