Utente:Midlander/Sandbox1

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«testo citato»

[1]

Situazione prima dell'Unità[modifica | modifica wikitesto]

=Controversie[modifica | modifica wikitesto]

L'origine delle differenze economiche e sociali tra le regioni italiane è da tempo controversa, anche a causa delle implicazioni ideologiche e politiche. La corrente storeografica maggioritaria sostiene che le differenze tra le diverse aree della penisola fossero già molto marcate al momento dell'Unità: l'agricoltura intensiva della pianura Padana, l'impulso alla costruzione di strade e ferrovie del Piemonte, e il ruolo del commercio e della finanza vengono contrapposti all'impostazione di tipo feudale che ancora caratterizzava il Regno delle Due Sicilie. Altre correnti storiografiche, invece, tendono a valorizzare l'originalità del Sud e ad attribuirne l'impoverimento alle politiche perseguite dal nuovo stato uniitario.[2]

Mappa del XIX secolo del Regno delle Due Sicilie

Agricoltura e Industria[modifica | modifica wikitesto]

La situazione dell'Italia preunitaria era, in genere, svantaggiata rispetto quella degli altri Stati dell'Europa occidentale. In un paese relativamente sovrappopolato e povero di materie prime, l'economia era profondamente basata sull'agricoltura.

Il censimento del 1861 8 milioni di occupati nell'agricoltura contro 3 milioni di occupati nell'industria e nell'artigianato, dei quali oltretutto l'80% circa erano donne occupate solo stagionalmente, . Il livello di produttività delle differenti regioni era però radicalmente diverso, sia per cause naturali che per le tecniche adottate.

Nel Sud, i corsi d'acqua principali sono di origine appenninica: riforniti dalle piogge invernali, sono soggetti a forte stagionalità, che la disponibilità di acqua soprattutto nei mesi estivi. Questo da un lato riduce le possibilità di coltivazione, dall'altro limita la velocità di crescita della vegetazione, rendendo l'ecosistema più fragile rispetto all'erosione e al secolare disboscamento. La limitata estensone delle terre coltivabili era ridotta ulteriormente dalla presenza di paludi, dove le malattie infettive portate dagli anofeli costringeva le popolazioni a ritirarsi sulle colline, a distanze dai campi che potevano raggiungere anche i 20 chilometri.

Soprattutto, nel Regno delle due Sicilie il metodo di coltivazione era basato sul sistema feudale: latifondi coltivati da braccianti producevano grano per il solo autoconsumo. Gli aristocratici che li possedevano non vivevano nei loro possedimenti e trovavano disdicevoli occuparsi della loro gestione. Di conseguenza non avevano interesse a investire nel migliorare le tecniche produttive o in colture più redditizie come l'ulivo o i frutteti, che potevano diventare produttivi anche dopo una decina di anni, preferendo la coltivazione annuale del grano, anche su terreni inadatti. L'alto prezzo risultante e le barriere doganali scoraggiavano il commercio.

Al contrario il nordest del paese aveva almeno in parte recepito le tecniche della rivoluzione agricola del nordeuropa, introdotte nel corso delle campagne napoleoniche. L'agricoltura era praticata da fattori nel Nord e da mezzadri in Toscana, e alimentata dai capitali delle città, che agivano come centri finanziari. La legislazione delle acque era più avanzata e l'intensa canalizzazione permetteva la cultura intensiva del riso, che poteva essere esportato.[3]


===fuffa===.

In queste condizioni,

L'alto prezzo risultante e le barriere doganali scoraggiavano il commercio.


In queste condizioni, la coltivazione intensiva


= industria[modifica | modifica wikitesto]

Livello di industrializzazione delle province italiane nel 1871. Fonte: Banca d'Italia, elaborazione: Wikipedia

     Oltre 1.4

     Da 1.1 a 1.4

     Da 0.9 a 1.1

     Fino a 0.9

Nel secolo del ferro e del carbone, l'idustria doveva ancora fiorire in un paese che mancava di entrambi. Il basso costo della manodopera, la difficoltà di accesso ai capitali e la mancanza di esperienza tecnica scoraggiavano l'acquisto di macchinari. La totalità dei contadini del sud era analfabeta, e in Lombardia l'istruzione obbligatoria di due anni sarebbe arrivata soltanto nel 1859.

L'industrializzazione era trainata dalla tessitura meccanizzata, che si era diffusa a partire dal 1816 ovunque fosse disponibile un corso d'acqua corrente, e che sarebbe esplosa con l'arrivo del telaio a vapore. I prodotti principali erano la seta lombarda e piemontese, fondamentali per l'esportazione, e la lana, che ricevette in Piemonte un forte impulso nel 1855 per la produzione delle divise per la guerra di Crimea.

La seconda maggiore industria destinata all'esportazione, era l'estrazione dello zolfo siciliano, usato per la polvere da sparo. Tale produzione, nella quale erano impegnati importanti capitali inglesi, rimase preponderante fino all'affacciarsi della concorrenza dello zolfo degli Stati Uniti.

I diversi modelli di sviluppo[modifica | modifica wikitesto]

A partire dal 1850, con Cavour come primo ministro, venne impressa in Piemonte una radicale accelerazione, con lo scopo dichiarato di portare l'Italia al livello delle maggiori potenze europee. Il codice venne riformato sul modello di quello francese, più avanzato ma decisamente centralista. Venne fondata una nuova banca per fornire credito alle imprese industriali e vennero ridotti significativamente i dazi, in media del 10%, da confrontare con anche il 100% presente nel Sud. Vennero inviati tecnici in Inghilterra per studiare lo sviluppo bellico, e venne dato un forte sviluppo alle infrastrutture: il Canale Cavour, iniziato nel 1857, rese fertilissima la regione di Vercelli e Novara, le ferrovie vennero ampliate tanto che nel 1859 il Piemonte possedeva metà del chilometraggio dell'intera penisola, e la galleria del Moncenisio permise presto di raggiungere Parigi in un solo giorno di viaggio.[4]

Nel clima di restaurazione successivo al 1848 il Regno delle due Sicilie mancò delle riforme liberali del Piemonte, perseguendo una politica più conservatrice.

Nel campo dei trasporti vennero conseguiti alcuni primati sorprendenti, come la prima nave a vapore in Italia e il primo ponte di ferro. Ma all'investimento in strade e ferrovie, reso difficile dall'entroterra collinoso, venne soprattutto preferito il trasporto marittimo, facilitato dalla significativa estensione delle coste tanto che la flotta mercantile borbonica divenne la terza in Europa per numero di navi e per tonnellaggio complessivo[5]. L'innaugurazione nel 1839 degli 8 km della Napoli-Portici, prima ferrovia italiana, aveva suscito grande entusiasmo. Tuttavia, solo 20 anni dopo le ferrovie settentrionali si estendevano per 2035 km, mentre Napoli era collegato soltanto con Capua e Salerno, totalizzando un 98 km di linea ferrata.[6] Analogamente, secondo Nicola Nisco, nel 1860 erano privi di strade e quindi di fatto irraggiungibili ben 1621 paesi su 1848.

La penuria di capitali era sentita ovunque, ma particolarmente al Sud, dove i risparmi venivano immobilizzati in terreni o in monete preziose. Nel saggio "Nord e Sud", Nitti rileva che quando le monete degli stati preunitari vennero unificate, al sud vennero ritirate 443 milioni di monete di vari metalli, da confrontare con i 226 milioni di tutto il resto d'Italia (vedere tabella seguente).[7]

Stato Numero monete circolanti (milioni) Percentuale moneta circolante
Regno delle Due Sicilie 443,3 65,7%
Stato Pontificio 90,7 14%
Granducato di Toscana 85,3 12,9%
Regno di Sardegna 27,1 4%
Venezia 12,8 1,9%
Lombardia 8,1 1,2%
Parma e Modena 1,7 0,3%

La sostituzione consentì di ritirare diversi tipi di metalli preziosi, generando la sensazione di una vera espropriazione[senza fonte], tanto che ancora nel 1973 Antonio Ghirelli sostiene che 443 milioni di lire d'oro siano "finiti al Nord".[8].resta da verificare se le monete siano state sostituite con banconote e chi ha acquisito l'equivalente in metallo[attenzione].

Va ricordato che lo sviluppo del Piemonte ebbe un prezzo: i conti pubblici vennero gravemente inficiati sia dallo sforzo di modernizzare l'economia che dalle guerre di unificazione. Con la nascita dell'Italia unita il passivo di bilancio del Regno di Sardegna fu incamerato nelle casse del neonato Stato italiano.

L'analisi storica del divario tra Nord e Sud è stata dibattuta per oltre un secolo; gli studi quantitativi al confronto sono piuttosto recenti, e mostrano una situazione articolata a seconda degli indicatori considerati.

Nel marzo 2007 la Rivista di Economia Politica ha publicato una raccolta di saggi[9] che analizzano i dati regionali noti dal 1871 in poi. I risultati da un lato tendono a ridimensionare le differenze economiche tra le varie regioni, dall'altro confermano quanto noto sulla minore produttività dell'agricoltura meridionale[10], e mostrano un'inferiorità relativa negli indici di sviluppo sociale[11].

Vittorio Daniele e Paolo Malanima[12], si concentrano sul PIL pro capite come indicatore del benessere nelle varie regioni italiane, arrivando a concludere che la distribuzione dei redditi non fosse particolarmente differenziata al momento dell'Unità, in quanto "quando il prodotto pro capite declina e si approssima al livello della sussistenza, per differenze notevoli fra aree regionali non c'è spazio". Il diverso reddito tra le regioni sarebbe quindi dovuto alla maggiore densità di popolazione del Nord, superiore in media di 15 unità per km quadrato rispetto al sud. Essi concludono:

«Il caso dell'Italia è particolarmente interessante sotto questo profilo, dato il rilievo con cui la crescita ineguale [dei prodotti pro capite] si è presentata dall'epoca dell'unità politica del paese. Le presente ricerca e quelle recenti sulla crescita ineguale dell’Italia inducono a ritenere:

— che divari rilevanti fra regioni, in termini di prodotto pro capite non esistessero prima dell’Unità;

— che essi si siano manifestati sin dall’avvio della modernizzazione economica (più o meno fra il 1880 e la Grande Guerra);

— che si siano approfonditi nel ventennio fascista;

— che si siano poi ridotti considerevolmente nei due decenni fra il 1953 e il 1973;

— che si siano aggravati di nuovo in seguito alla riduzione dei tassi di sviluppo dell’economia dai primi anni ’70 in poi.»

Uno studio del 2010 di Banca d'Italia[13] analizza l'andamento industriale a livello di singole province, concludendo che:

«A livello provinciale, il legame tra industria e successo economico in generale è più tenue di quanto presumesse la precedente letteratura. [..] L'ulteriore disaggregazione rinforza la principale ipotesi revisionista suggerita dalle stime regionali. Gli indicatori provinciali confermano infatti che una decade dopo l'Unità le antiche capitali politiche rimasero il centro delle manifatture (artigianali), che le aree sotto-industrializzate erano le periferie adriatiche e ioniche delle entità più grandi, e che l'arretratezza industriale del Sud, evidente alla vigilia della Grande Guerra, non era eredità della storia preunitaria dell'Italia»

Secondo entrambi gli studi, le differenze tra i redditi individuali sarebbero quindi minime all'Unità, quando gli stessi sono appiattiti su livelli di sussistenza. Le divergenze inizierebbero invece a comparire nell'ultimo scorcio di secolo, all'epoca della seconda industrializzazione sotto il Governo Giolitti, fino a raggiungere un massimo assoluto nel 1951 per poi decrescere. E' interessante però osservare come la "questione meridionale" fosse conclamata almeno dal 1870.


  1. ^ Salvatore Francesco Romano, Storia della questione meridionale, Edizioni Pantea, 1945, pag. 42. ISBN non esistente
  2. ^ http://www.noisefromamerika.org/index.php/articoli/1482
  3. ^ Mack Smith, Storia d'Italia dal 1861 al 1997, Laterza, 1997, pag. 5. ISBN non esistente
  4. ^ Mack Smith, Storia d'Italia dal 1861 al 1997, Laterza, 1997, pag. 29, 59. ISBN non esistente
  5. ^ Mario Di Gianfrancesco, La rivoluzione dei trasporti in Italia nell'età risorgimentale, 1979, L'Aquila, pp. 151 ss.
  6. ^ http://www.miol.it/stagniweb/fs101.htm
  7. ^ Nicola Zitara, Nascita di una colonia, Jaka Book, 1971, pag. 36.
  8. ^ Antonio Ghirelli, Storia di Napoli, Einaudi, 1973 [1]
  9. ^ http://www.rivistapoliticaeconomica.it/2007/mar-apr/
  10. ^ (IT) Giovanni Federico, Ma l’agricoltura meridionale era davvero arretrata? (PDF), in Rivista di Politica Economica, Marzo-Aprile 2007.
  11. ^ (IT) Emanuele Felice, I divari regionali in Italia sulla base degli indicatori sociali (1871-2001) (PDF), in Rivista di Politica Economica, Marzo-Aprile 2007.
  12. ^ (IT) Vittorio Daniele, Paolo Malanima, Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004) (PDF), in Rivista di Politica Economica, Marzo-Aprile 2007.
  13. ^ (EN) Carlo Ciccarelli, Stefano Fenoaltea, Through the Magnifying Glass: Provincial Aspects of Industrial Growth in Post-Unification Italy (PDF), in Quaderni di Storia Economica, Luglio 2010.