Utente:Elechim/Sandbox3

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Alla fine di marzo il fronte in stallo passava attraverso la città distrutta e sia il Castello, sia il disagevole saliente che dalla Testa di Serpente passava verso monte Castellone e colle Abate, erano sotto controllo alleato (sebbene in alcuni punti le linee fossero a ridosso di capisaldi tedeschi)[1]. A nord di Cassino le truppe francesi furono rimpiazzate in questo periodo dalla 4ª Divisione dell'8ª Armata e successivamente dai neozelandesi che, così, ebbero modo di riposare dopo i duri scontri sostenuti[2].

Un B-26 durante un'azione di bombardamento delle linee di comunicazione tedesche nei pressi di Piteccio

Dietro il fronte la popolazione civile continuava a soffrire. Oltre alle numerose vittime causate dal fuoco di entrambi gli schieramenti, molti furono i morti per malaria, propagatasi dopo l'inondazione della vallata del Rapido e con l'accumularsi dei cadaveri[3]. Nel frattempo, nelle retrovie, avevano cominciato a circolare le prime accuse mosse ai nordafricani francesi, in particolare verso i goumier (le truppe da montagna marocchine irregolari, utilizzate sempre più massicciamente dal generale Juin) che avevano commesso stupri e saccheggi su vasta scala. Juin ricevette numerose proteste sul comportamento dei suoi uomini e persino Papa Pio XII intervenne tanto che, nei giorni della liberazione di Roma, alle truppe alleate di colore fu impedito di partecipare[4]. Il sottotenente Norman Lewis, ufficiale addetto alla raccolta informazioni della 5ª Armata, riferì di numerose brutalità e stupri anche fino ad Afragola, perpetrati pare da nordafricani insubordinati[5]. Le "marocchinate" furono un evento poco comprensibile per le popolazioni rurali italiane che, perciò, svilupparono una memoria condivisa del trauma caratterizzata anche da mediazione culturale, sociale e politica, credenze popolari, superstizioni e distorsioni della realtà[6]. Una testimone raccontò di «soldati scuri di pelle che indossavano gonnellini come divisa» e, molto spesso, nelle memorie delle donne abusate, soldati di diverse nazionalità come indiani e mongoli furono definiti indistintamente tutti «marocchini»[7]. Paradossale fu la contemporanea percezione dell'occupante tedesco, causa di stenti e privazioni che, a posteriori, furono giustificate quali effetti collaterali di irrinunciabili esigenze militari – motivazione di più immediata comprensibilità[8]. Le accuse assunsero nei mesi successivi una certa consistenza, al punto da dover essere gestite con particolare cautela: il corrispondente Leonard Marsland Gander del The Daily Telegraph osservò che «I goumiers sono diventati una leggenda, oggetto di aneddoti di cattivo gusto [...] non c'è resoconto dei loro stupri o di altre malefatte che non sia troppo strampalato per essere riferito come vero»[9].

Napoli era intanto divenuta l'ideale contraltare ai pericoli e alla bruttura del fronte. I ristoranti sul lungomare erano aperti, il Teatro di San Carlo rimasto indenne offriva spettacoli e si potevano fare gite fino all'Isola di Capri[10]; inoltre pullulavano i bordelli, meta assai frequentata che, tuttavia, era sorgente di malattie veneree: si dovette promuovere una rete di "stazioni di profilassi" che, a stento, contenne nel marzo 1944 un'epidemia di gonorrea[11]. Dalla fine del 1943 si era riaffacciato il tifo esantematico, debellato nell'inverno-primavera 1944 mediante l'impiego su vasta scala del DDT[12]. Le condizioni della popolazione, comunque, rimasero misere: comuni erano povertà, prostituzione e criminalità sfacciata[13]. L'amministrazione militare alleata si trovò costretta a garantire ai civili l'indispensabile per la sopravvivenza e il mantenimento della sicurezza pubblica, nonché a dedicarsi al ripristino del porto, dell'impianto idroelettrico e della rete ferroviaria (infrastrutture utili alla campagna in corso). Questi sforzi non impedirono tuttavia l'affermarsi di un fiorente mercato nero e di lucrosi traffici di forniture rubate agli Alleati; un bollettino dello Psychological Warfare Bureau dell'aprile 1944 riportò che componevano il 65% del reddito procapite napoletano[14][15].

Roma, febbraio 1944. Un Panzer V Panther tra via Emanuele Filiberto e viale Alessandro Manzoni.

Anche nel resto della penisola la vita quotidiana era dura e desolante, sia a causa della predatoria occupazione tedesca e delle operazioni antipartigiane (alle quali contribuirono i reparti della RSI) sia in ragione della prolungata campagna di bombardamenti aerei statunitensi, volta a disarticolare la griglia stradale e ferroviaria per ostacolare la Wehrmacht: da metà marzo a metà maggio 1944 essa contò 50000 missioni e 26000 tonnellate di bombe sganciate. Roma era stata dichiarata città aperta, ma l'esercito tedesco vi aveva installato comandi militari e ne sfruttò la rete viario-ferroviaria per le proprie necessità militari; di conseguenza gli Alleati si sentirono legittimati a colpire dal cielo obiettivi sensibili con la precisione che gli strumenti dell'epoca consentivano, suscitando così indignazione tra la popolazione[16][17]. In città la repressione era affidata al comando della Gestapo di via Tasso e alle SS che torturavano i prigionieri, catturati anche grazie all'azione delle milizie fasciste, soprattutto della Banda Koch che godeva di grandi poteri, totale impunità e che commise svariati crimini[18]. Dal gennaio 1944, inoltre, si inasprirono le misure di controllo e la persecuzione degli ebrei, mentre la massa di sfollati, la mancanza di acqua e luce, la scarsità di alimenti incrementavano il mercato nero, le ruberie, i tumulti e il tasso di mortalità (specie tra i bambini). I tedeschi, con la complicità e l'appoggio dei fascisti repubblicani, si dedicarono inoltre al rastrellamento di uomini abili al lavoro e alla repressione della resistenza che, il 23 marzo 1944, mise comunque a segno un inaspettato attentato dinamitardo a Roma – atto cui gli occupanti risposero con l'eccidio delle Fosse Ardeatine, molte delle cui vittime furono prelevate da via Tasso e dal carcere di Regina Coeli con la collaborazione attiva del funzionario di polizia Pietro Caruso[19][20][21]. In generale il fenomeno resistenziale, proprio dall'inverno 1944, si era confermato un'ulteriore minaccia alle linee di comunicazione e di rifornimento tedesche[16]: si è calcolato che in primavera interessasse ormai più di 70000 individui, operanti in buona parte in Italia settentrionale attraverso sabotaggi, imboscate e attacchi mordi-e-fuggi. Addirittura, secondo il maresciallo Alexander, al 22 maggio i tedeschi avevano dovuto distaccare sei divisioni per controbattere l'imperante guerriglia[20] e il feldmaresciallo Kellering ammise che «la quota di perdite da parte tedesca è stata assai più elevata di quella delle bande»[22].

Il sistema logistico tedesco in Italia, dunque, era compromesso al punto tale che i rifornimenti al Gruppo d'armate C furono sempre più esigui. Le decimate divisioni schierate a Cassino erano carenti di tutto, compresi disinfettanti, sapone, insulina, cerotti, insetticidi, foraggio, ferri e chiodi per i cavalli; la penuria di carburante si era fatta critica sullo scorcio del 1943, sì che i meccanici cercarono di ricavarlo dalle vinacce e dall'acetone delle fabbriche di vernici. Ordini severi imposero il limite di 40 km/h agli automezzi e, persino, si sperimentarono ruote in legno per risparmiare gli pneumatici. In più i reparti tedeschi erano bersaglio della numerosa artiglieria alleata, ben rifornita di munizioni, che rendeva azzardati anche gli spostamenti per recare l'acqua in prima linea. Particolarmente famigerata divenne la cosiddetta Senke der Tode ("valle della morte"), in realtà uno stretto passaggio che si snodava dalle retrovie tedesche all'abbazia. Il paracadutista Werner Eggert ricordò come «[...] molti dei nostri uomini morirono nel corso di quella salita di un'ora o della discesa, che ne richiedeva mezza»[23][24].

  1. ^ Parker, p. 294.
  2. ^ Parker, p. 304.
  3. ^ Parker, pp. 294-295.
  4. ^ Parker, p. 295.
  5. ^ Lewis, p. 171.
  6. ^ Ponzani, p. 228.
  7. ^ Ponzani, p. 229.
  8. ^ Ponzani, p. 233.
  9. ^ Leonard Marsland Gander, citato in Jean Christophe Notin La Campagne d'Italie, Librarie Académique Perrin, 2002, p. 500. Vedi: Parker, p. 296.
  10. ^ Parker, p. 243.
  11. ^ Parker, p. 245.
  12. ^ Porzio, p. 44.
  13. ^ Parker, p. 241.
  14. ^ Porzio, pp. 43, 45.
  15. ^ Lewis, p. 143.
  16. ^ a b Morris, p. 349.
  17. ^ Atkinson, p. 584.
  18. ^ Atkinson, pp. 557-558.
  19. ^ Atkinson, pp. 557-558.
  20. ^ a b Charles F. Delzell, I nemici di Mussolini. Storia della Resistenza in Italia, Roma, Castelvecchi, 2013, pp. 314-320, ISBN 978-88-6944-105-9.
  21. ^ Giorgio Bocca, Storia dell'Italia partigiana. Settembre 1943-maggio 1945, Milano, Mondadori, 1996, pp. 288-292, ISBN 88-04-43056-7.
  22. ^ Kesselring, p. 274.
  23. ^ Parker, p. 303.
  24. ^ Atkinson, p. 529.