Utente:DerfelDiCadarn87/Robot nella cultura giapponese

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Storia[modifica | modifica wikitesto]

Le origini dei robot in Giappone[modifica | modifica wikitesto]

Dalla fine della seconda guerra mondiale, grazie soprattutto ai passi avanti compiuti in campo industriale, il Giappone è stato spesso identificato come il "regno dei robot"[1], diventando, nell'immaginario collettivo, sinonimo di elettronica e tecnologia[2]. La predilizione dei giapponesi per i robot, tuttavia, ha origini più antiche, e affonda le sue radici nella tradizione e nella cultura del paese[2].

Le prime nozioni di tecnologia giunsero in Giappone attraverso la Cina. A partire dal VII secolo, infatti, sfruttando il corridoio naturale rappresentato dalla penisola coreana, l'influenza cinese incominciò a estendersi sul territorio giapponese in maniera più diffusa e pervasiva, andando a interessare i più svariati settori della società nipponica, dalla religione alla scrittura, dall'artigianato alla scienza[3]. Le conoscenze e le tecniche fin lì apprese, nel passaggio da una cultura all'altra, finirono comunque per essere rielaborate e adattate agli usi e costumi dei giapponesi. Difatti, è dai meccanismi e dalle funzioni degli orologi meccanici di realizzazione cinese, che i giapponesi presero spunto per la creazione dei primi automi nei secoli successivi[4].

Le prime testimonianze sulla creazione e sull'utilizzo in Giappone di un robot (inteso come replica di un essere umano realizzata artificialmente) risalgono al XII secolo, sebbene molte di queste storie siano pervase da un'aura mistica e sovrannaturale difficilmente scindibile dai fatti realmente accaduti[5]. Nel Senjūshō, una raccolta di storie buddhiste del periodo Kamakura, si narra di come il monaco Saigyō avesse tentato di riportare in vita con la magia un amico deceduto ma, deluso dal risultato, avesse chiesto l'aiuto di uno stregone locale. Quest'ultimo gli avrebbe così confidato di avere già creato dei cloni umani artificiali, alcuni arrivati addirittura a investire importanti cariche politiche, senza che avessero destato il minimo sospetto[6][7]. Nel Konjaku monogatarishū, opera del tardo periodo Heian, è invece documentato uno dei primi esempi di automa meccanico: in uno dei racconti il principe Kaya, figlio dell'imperatore Kanmu, costruisce una bambola dalle fattezze di un fanciullo, le cui braccia sono tese sopra la testa a sostenere il peso di una ciotola; ogni qualvolta questa è riempita d'acqua, un meccanismo fa sì che il liquido venga rovesciato sul capo della bambola e quindi a terra. L'artefatto attira decine di curiosi da tutto il paese che, al fine di constatare di persona l'efficacia del marchingegno, fanno a gara nel portare sul luogo l'acqua necessaria al suo funzionamento. Grazie a questo astuto stratagemma, il principe riesce a salvare le sue terre dalla siccità[8][9].

La bambola che porta il té, uno dei più noti esempi di karakuri ningyō

A prescindere dalla veridicità o meno di questi racconti, verso la metà del XVI secolo il Giappone palesava ancora un notevole gap tecnologico con l'Occidente in diversi campi. Un divario che, anche alla luce delle grandi scoperte di epoca rinascimentale, si sarebbe fatto più marcato nei decenni a venire, quando la politica autarchica instaurata dai Tokugawa nel XVII secolo pose fine a qualsiasi contatto tra il Paese del Sol Levante e il mondo esterno[10]. Le rigide misure adottate dal bakufu, secondo le quali a nessuno straniero era permesso sbarcare in Giappone e a nessun cittadino giapponese era permesso abbandonare il paese, fecero sentire il proprio peso soprattutto in campo culturale, privando la tecnologia giapponese degli stimoli necessari per progredire. In assenza di concorrenza, i concetti di scienza e tecnologia finirono infatti per assumere un significato più astratto, allontantandosi dalle accezioni di utilità e praticità che rivestivano in Occidente, per avvicinarsi maggiormente all'idea di arte[11].

È in questo contesto che fece la sua apparizione il karakuri ningyō (からくり人形?), una sorta di bambola automatizzata creata dagli abili artigiani del tempo senza nessuna velleità scientifica o commerciale, ma con il solo scopo di divertire e intrattenere. Alcune di queste bambole vennero impiegate infatti anche nel teatro, così come nei festival religiosi, offrendo una varietà di soluzioni orignali ben descritte e catalogate nel Karakuri-zui, un vero e proprio manuale sull'argomento pubblicato nel 1796 dopo la morte del suo autore, Hosokawa Yorinao[12]. Altri tipi trovarono invece posto all'interno delle lussuose dimore dei signori feudali dell'epoca, potendo rappresentare il primo esempio di robot domestico giapponese della storia: il più noto tra questi, la bambola che porta il té (茶運び人形?, chahakobi ningyō), funzionava secondo una sequenza fissa di istruzioni, muovendosi in linea retta avanti e indietro per servire una tazza di té all'ospite. Per la loro costruzione gli artigiani giapponesi presero sì spunto dai meccanismi occidentali a orologeria e dalle soluzioni di derivazione cinese, come l'impiego di sabbia e mercurio, ma loro funzione rituale rientrava ancora negli ideali artitstici caratteristici della cultura nipponica[13].

Con la fine del periodo Tokugawa e l'apertura del Giappone anche la tradizione dei karakuri ningyō ebbe termine, non prima però di avere conosciuto due dei più grandi artigiani e inventori di quell'epoca, Ōno Benkichi e Tanaka Hisashige. Quest'ultimo, in particolare, non si dedicò solamente alla creazione di automi, ma lavorò anche alla produzione di orologi, apparecchi fotografici e materiale bellico per il nuovo governo Meiji, finché nel 1873 non fondò la sua compagnia, la moderna Toshiba[14][15][16].

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Schodt, 1988, pp. 14-15.
  2. ^ a b Nicora, 2010, p. 87.
  3. ^ Nicora, 2010, pp. 89, 92.
  4. ^ Nicora, 2010, pp. 91-92.
  5. ^ Nicora, 2010, p. 93.
  6. ^ Pellitteri, 2008, p. 138
  7. ^ Nicora, 2010, p. 93.
  8. ^ Schodt, 1988, p. 59
  9. ^ Nicora, 2010, p. 94.
  10. ^ Nicora, 2010, pp. 94-96.
  11. ^ Nicora, 2010, pp. 97-99.
  12. ^ Nicora, 2010, pp. 100-105.
  13. ^ Nicora, 2010, pp. 106-107.
  14. ^ Schodt, 1988, pp. 68-72
  15. ^ Nicora, 2010, pp. 113-116.
  16. ^ Odagiri, 1996, p. 157.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]