Tamim ibn Yusuf

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Abū al-Ṭāhir Tamīm ibn Yūsuf (in arabo أبو الطاهر تميم بن يوسف?; ... – ...; fl. XI secolo) è stato un politico berbero, governatore almoravide di Granada. Era figlio del sultano almoravide Yūsuf b. Tāshfīn e fratello minore del sultano ʿAlī b. Yūsuf.

Biografia[modifica | modifica wikitesto]

Gli Almoravidi erano una dinastia originaria dal Sahara marocchino, che tra il 1063 e il 1082, sotto Yūsuf b. Tāshfīn (padre di Tamīm) unificarono sotto il loro controllo tutto il Maghreb al-Aqsa (l'attuale Marocco).
Nel 1086 Yūsuf b. Tāshfīn fu invitato dai signori musulmani della Spagna islamica, i cosiddetti "Emiri delle Taife", ad aiutarli contro Alfonso VI di Castiglia.

Sbarcato il 30 giugno, Ibn Tāshfīn fu raggiunto dagli Emiri di Siviglia, Granada, Malaga e Badajoz, e il 23 ottobre inflisse una severa sconfitta a Alfonso VI nella Battaglia di al-Zallaqa, nei pressi di Badajoz. Rientrò in seguito in Maghreb a causa della morte di un figlio, prima di essere richiamato nel 1089.
Vedendo che gli emiri musulmani di Spagna complottavano l'uno contro l'altro e anche contro di lui, appoggiato dalle autorità religiose locali si rese padrone di tutta al-Andalus, la Spagna musulmana, tra il 1090 e il 1094. Dopo aver conquistato Granada nel 1090 nominò governatore della città il figlio Tamīm.
Ibn Tāshfīn morì nel 1106, all'età, secondo la tradizione, di 100 anni, e gli succedette al trono il figlio ʿAlī b. Yūsuf, che non venne conteso o sfidato per il trono né da Tamīm né da alcuno degli altri fratelli e parenti.

Battaglia di Uclès[modifica | modifica wikitesto]

Lo stesso argomento in dettaglio: Battaglia di Uclés (1108).

Nel 1108, Tamīm invase con un grosso esercito il territorio del Regno di León, sconfiggendo nella battaglia di Uclés l'esercito leonese, guidato da Álvar Fáñez e Sancho il figlio di Alfonso VI, che perse la vita nella battaglia. Riuscì a conquistare diversi castelli e alcune città.

Invasione di Alfonso I d'Aragona e la deportazione dei cristiani di al-Andalus[modifica | modifica wikitesto]

Nel 1126 Alfonso I di Aragona organizzò una grande spedizione militare contro le regioni di Cordova e Granada, sostenuto dai mozarabi (cristiani che vivevano nella Spagna islamica) con azioni di guerriglia e disturbo ai danni delle armate almoravidi.
Alfonso I non riuscì nel suo intento di conquista ma fece un grandissimo bottino e inflisse durissime ed umilianti perdite agli Almoravidi. Il re aragonese si ritirò nel giugno del 1126, dopo che aveva saputo dell'arrivo di rinforzi dal Marocco, guidati dai governatori di Fès e Meknès, Abū Ḥafṣ ibn Tuzyin e Inalu al-Lamtūnī.[1]

Il sostegno offerto agli invasori aragonesi da parte dei mozarabi fece infuriare le autorità almoravidi e in particolar modo Tamīm ibn Yūsuf, che, consultandosi con il Qāḍī di Cordova Abū l-Walīd ibn Rushd, decise di organizzare una deportazione su larga scala dei cristiani andalusi, chiedendo al fratello, il sultano almoravide ʿAlī b. Yūsuf di emanare un decreto a tal proposito. Decine di migliaia di mozarabi furono deportati dalla Spagna musulmana in Marocco, soprattutto nelle città di Salé e Meknès.[2] Ai cristiani di Siviglia, su richiesta del Qāḍī Ibn Ward, venne permesso di vendere le loro proprietà immobili prima di partire.[3]

Il grosso dei mozarabi deportati in Marocco furono utilizzati come militari esattori di tasse e guardie del corpo personali del sultano almoravide ʿAlī b. Yūsuf. Altri si dedicarono alle arti in cui erano più esperti, vale a dire l'edilizia, l'arboricoltura e l'irrigazione. È sopravvissuta fino ai giorni nostri una fatwā di Ibn al-Ḥajj che permetteva ai mozarabi di costruire chiese nei luoghi dove erano stati deportati.[2]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ José María Lacarra y de Miguel, «Expedición a Andalucía», Alfonso el Batallador, Saragozza, Guara, 1978, pp. 83-92.
  2. ^ a b D. Serrano, "Dos fatuas sobre la expulsión de mozárabes al Magreb en 1126", Anaquel de Estudios Árabes, nº 2 (1991), pp. 162-182.
  3. ^ V. Lagardère, "Communautés mozarabes et pouvoir almoravide en 519 H/1125 en Andalus", Studia Islamica, LXVII (1988), pp. 99-119.

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

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