Giuditta Bellerio Sidoli

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Giuditta Bellerio Sidoli

Giuditta Bellerio Sidoli (Milano, 16 gennaio 1804Torino, 28 marzo 1871) è stata una patriota italiana. Figura femminile particolarmente emancipata per la sua epoca, fu tra i fondatori del giornale La Giovine Italia.

Figlia del barone Andrea Bellerio, magistrato nel "Regno Italico", a soli sedici anni sposò Giovanni Sidoli, ricco possidente terriero di Montecchio Emilia ed iscritto alla carboneria modenese con lo pseudonimo di "Decade".

Per sfuggire agli arresti ordinati da Francesco IV d'Asburgo-Este, che avrebbero portato al "processo di Rubiera", Giovanni Sidoli riparò in Svizzera nel 1821 e la moglie lo seguì non appena nata la figlia Maria.

La famiglia dovette restare in Svizzera, in seguito alla sentenza di morte pronunciata contro Sidoli, che morirà per una grave malattia ai polmoni nel 1828. Durante l'esilio, i coniugi misero al mondo altri tre figli: Elvira, Corinna e Achille. Alla morte del padre, i quattro figli furono tolti a Giuditta dal suocero che, fedele a Francesco IV, rifiutò di far allevare la sua discendenza da una "ribelle" all'autorità legittima. Nonostante i periodici tentativi, la madre non riuscì a rivederli per otto lunghi anni.

Giuditta rientrò in Italia, su invito di Ciro Menotti, per partecipare ai moti di Reggio Emilia del 1831; fu lei a consegnare alla neo costituita "Guardia Civica" la bandiera tricolore poi esposta sul palazzo del municipio e oggi conservata al cittadino Museo del Tricolore.

Dopo il fallimento dell'insurrezione, per sfuggire alla repressione austriaca, prese nuovamente la via dell'esilio: prima a Lugano e poi a Marsiglia. Nella sua casa, al n. 57 di rue de Féréol, ospitò molti esuli italiani e, tra questi, Giuseppe Mazzini, del quale divenne amante e collaboratrice politica. Dalla loro relazione nacque il figlio Adolphe, morto in tenerissima età.

Il palazzo del municipio di Reggio Emilia

Con Mazzini, nel 1832, Giuditta fondò il giornale politico La Giovine Italia, assumendone il ruolo di responsabile e contabile. Saputo dell'imminente arresto di Mazzini, a quel tempo gravemente malato, da parte delle autorità francesi, lo seguì nell'esilio di Ginevra per accudirlo. Anche dopo aver concluso la loro relazione sentimentale, Mazzini e la Bellerio restarono lungamente in contatto epistolare.

«Sorridimi sempre! È il solo sorriso che mi venga dalla vita.»

La vita della Bellerio trascorse in un continuo peregrinare per gli Stati d'Italia e d'Europa, nella ricerca dei figli e nelle partecipazioni ai vari moti rivoluzionari e cospirazioni a Livorno, Firenze, Roma, Milano e Bologna.

Venne arrestata ed incarcerata a Modena, nel dicembre 1849, e trasferita a Milano nel febbraio 1850, su ordine del generale Radetzky. Riuscì a scampare il carcere grazie alla minore severità verso i nobili del generale Ferencz Gyulai che sostituì Radetzky, messo a riposo dall'Imperatore d'Austria il 28 febbraio 1850, al comando della 2ª Imperiale e Regia Armata Austriaca.

Trasferitasi definitivamente a Torino, sul finire del 1852, la nobildonna diede vita ad un salotto politico frequentato dalle maggiori personalità risorgimentali dell'epoca, contribuendo a preparare il "terreno culturale" per la seconda guerra di indipendenza.

Nel 1868 Giuditta Bellerio si ammalò gravemente di tubercolosi e, il 28 marzo 1871, si spense a Torino, stroncata da una polmonite, dopo aver rifiutati i sacramenti religiosi, coerentemente con la sua dichiarazione di "credere liberamente nel Dio degli esuli e dei vinti, non in quello imposto dalla Chiesa".[1]

Note

  1. ^ Spencer Di Scala - Italy: From Revolution to Republic - Boulder, Colorado: Westview Press, 2004. ISBN 0-8133-4176-0
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