Guerra di Otranto

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
Il castello di Otranto.
Martiri di Otranto

La battaglia di Otranto è il nome con cui è conosciuto il combattimento nell'omonima città salentina del 1480, quando un esercito ottomano (in realtà diretto a Brindisi) attaccò la cittadina allora appartenente agli Aragonesi.

Al termine della battaglia, il 14 agosto 1480 furono decapitati sul colle della Minerva 800 otrantini che si erano rifiutati di rinnegare la religione cristiana: sono ricordati come i Beati martiri di Otranto, le cui reliquie sono custodite nella cattedrale del paese.

In seguito alla battaglia e all'invasione degli ottomani, andò distrutto il monastero di San Nicola di Casole, che ospitava allora una delle biblioteche più ricche d'Europa.

Le vicende della battaglia vennero narrate in forma di romanzo da Maria Corti, nel libro L'ora di tutti, e da Rina Durante nella versione sceneggiata Il sacco di Otranto.

L'occupazione turco-ottomana di Otranto

Maometto II, a circa un trentennio dalla presa di Costantinopoli (1453), grazie alle potenzialità di quella città poteva disporre di una flotta ed un esercito tali da minacciare l'Europa; e sempre più devastante era la sua artiglieria che non temeva confronti con alcuno.

Da questa base aveva provato a liberarsi dei Cavalieri di Rodi, ultima isola nemica che resisteva, circondata dai possessi del Sultano; aveva fallito nel suo intento e alla ricerca di nuove guerre aveva posto Rodi fra i suoi obiettivi.

Nel maggio del 1480 la flotta turca fa rotta ancora una volta su Rodi, e Ferrante di Napoli spedisce due grosse navi in soccorso ai cavalieri gerosolimitani. In realtà questa era una azione diversiva infatti il sultano, contro le aspettative , quasi contemporaneamente fece salpare una seconda flotta approntata a Valona.

Il Sultano voleva attaccare il Reame di Napoli e non Rodi. Aveva scelto come bersaglio Brindisi, trovando il pretesto in presunti diritti turchi sull'eredità dei principi di Taranto. Maometto II intendeva nell'immediato, indipendentemente dalla sua manifesta volontà di realizzare il sogno di prendere Roma, punire Ferrante di Napoli per l'aiuto da questi fornito ai Cavalieri di Rodi e agli insorti albanesi.

Comandante della flotta turca era Gedik Ahmed Pasha, noto come Giacometto, rinnegato greco o forse albanese, che era stato uno di coloro i quali per primi avevano istruito i Turchi sull’arte della navigazione. Gedik Ahmed Pasha era stato da poco nominato 'sançak bey', governatore del sangiaccato (cioè parte di una provincia) di Valona.

La sua flotta era grandiosa; stando alle varie fonti storiche era composta da un numero compreso tra le 70 e le 200 di navi che potevano trasportare tra i 18.000 e i 100.000 uomini, cifre in continua variazione di stima anche a seconda della definizione di nave, poiché le armate marittime oltre alle navi da guerra includevano una serie di legni minori che andavano dalla nave da trasporto alla piccola barca di appoggio. Per approssimazione la flotta doveva disporre in fatto di navi da guerra di 90 galee, 40 galeotte e oltre 20 navi, per un totale quindi di circa 150 imbarcazioni. È più credibile quindi un numero trasportabile pari a 18.000 uomini.

L'armata turca si concentrò a Valona per imbarcare le truppe. Attraversò il canale d'Otranto di notte, ed il 28 luglio 1480, a causa di una portentosa tramontana, si ritrovò davanti ad Otranto, porto facile da espugnare e più vicino alla costa albanese. Otranto era una città ricca e fiorente, ma mal fortificata nei confronti di un attacco portato dalle artiglierie turche.

Proprio sulle fortificazioni Otranto avrebbe però dovuto contare a fronte del numero degli avversari, non possedendo oltre i 6.000 abitanti.

La crisi italiana favoriva i Turchi. Gli Stati italiani divisi tra loro non avrebbero contrapposto alcuna forza politico-militare.

Nel 1479 la pace che aveva chiuso la lunga guerra turco-veneta aveva reso Venezia neutrale; la Serenissima sarebbe comunque stata ostile a Ferdinando di Napoli (1458-94) al quale voleva togliere le città pugliesi, per cui contrastò in alcun modo il passaggio di una così grande flotta. Il Turco sapeva inoltre che le armate aragonesi e pontificie erano impegnate dal 1478 contro Firenze, ed in questo quadro generale concepiva il proposito di occupare un lembo strategico del Salento come testa di ponte e spina nel fianco delle le potenze cristiane.

Il 28 luglio, presso i laghi Alimini, dalla flotta turca sbarcarono 16.000 uomini (nella zona oggi chiamata Baia dei Turchi). Ai primi momenti dello sbarco si scontrarono in isolate scaramucce i soldati della guarnigione otrantina che cercava di bloccarli mentre sbarcavano. Ma i soldati pugliesi furono messi alle strette dal continuo accrescersi delle forze turche e costretti a rientrare nelle mura.

A quel punto, portate a terra le artiglierie, Ahmet Pashà iniziava l’assedio.

Il 29 luglio la guarnigione e tutti gli abitanti abbandonarono il borgo in mano ai Turchi per ritirarsi nel castello, che costituiva la cittadella. Era il giorno successivo al primo attacco, ed i Turchi, occupato il borgo, compivano razzie nei casali vicini.

A difendere Otranto erano solo 400 uomini guidati dal capitano Zurlo; la città sguarnita e maldifesa, non avrebbe potuto contenere a lungo all'impeto formidabile dell'artiglieria turca, ma volle resistere comunque. Quando Ahmet Pashà chiese la resa i difensori, questi rifiutarono immediatamente. Lo Zurlo sdegnosamente respinse la proposta di Akmet - la vita in cambio della resa - ed in risposta le artiglierie turche martellarono immediatamente con il loro fuoco la città.

La cittadella Otrantina era sprovvista di cannoni, e le sue mura vennero incessantemente colpite dalla formidabile artiglieria ottomana. Gli otrantini opposero un'eroica resistenza; nelle situazioni estreme il popolo, nella notte, guidato da Ladislao De Marco, si raccolse nella cattedrale e qui giurò di resistere sino all’ultimo.

Le truppe musulmane si erano divise in due gruppi. Di questi uno proseguiva bombardamento e assedio, e l’altro, diviso in piccoli reparti, dilagava nel territorio saccheggiando, devastando, facendo molti schiavi e sconfinando a Lecce e Taranto.

La difesa si protrasse disperatamente due settimane, ma restò vana l'attesa dei soccorsi del re e del figlio Alfonso duca di Calabria, sovrani del Meridione e di Otranto.

L’11 agosto, dopo 15 giorni d’assedio, Akmet ordinò l’attacco finale, nel quale riuscì a sfondare. Il castello gli cedette e fu espugnato. Il grande divario di forze aveva deciso l’esito dell’assedio; avendo prima distrutto l'apparato difensivo della città i Turchi sfondavano dalla parte del castello.

Incredibili le crudeltà commesse dagli assalitori sugli otrantini inermi. Nel massacro tutti i maschi con oltre quindici anni furono uccisi. Donne e bambini furono ridotti in schiavitù. Stando ad alcune stime i morti furono 12.000 (inclusi quelli periti nei combattimenti e sotto i bombardamenti delle grosse artiglierie) e gli schiavi 5.000; pur restando in tali riferimenti il dubbio che la città non potesse avere così tanti abitanti.

I superstiti e il clero erano rifugiati nella cattedrale a pregare con l’arcivescovo Stefano Agricoli (si credette il nome del vescovo fosse Stefano Pendinelli, in seguito da documenti si è potuto precisare che il vero nome fosse quello di Stefano Agricoli).

Akmet impose loro di rinnegare la fede cristiana; rifiutarono ed i Turchi con una proditoria irruzione nella Cattedrale, il 12 agosto 1480, li catturarono. Non ne risparmiarono nessuno e la chiesa in segno di spregio fu ridotta a stalla per i cavalli. Particolarmente barbara fu l’uccisione dell'anziano arcivescovo Stefano Agricoli che mentre stava per essere ucciso dai Turchi che sopraggiungevano incitava i superstiti a rivolgersi a Dio in punto di morte. Fu sciabolato e fatto a pezzi con le scimitarre e il suo capo mozzato fu infilzato su una picca e così portato per le vie della città.

Il comandante della guarnigione Francesco Largo venne invece segato vivo. A capo degli Otrantini che il 12 agosto 1480 si erano opposti alla conversione all'Islam era anche Antonio Pezzulla, detto Primaldo. Il 14 agosto Achmet fece legare i superstiti e li fece trascinare sul vicino colle della Minerva. Qui ne fece decapitare almeno 800 costringendo i parenti ad assistere alle esecuzioni. Tutte queste persone orrendamente massacrate vennero riconosciute martiri dalla Chiesa e venerati come beati martiri idruntini. La massima parte delle loro ossa si trovano in sette grandi armadi in legno nella Cappella dei Martiri ricavata nell'abside destro della cattedrale di Otranto; sul Colle della Minerva fu costruita la chiesetta a loro dedicata, Santa Maria dei Martiri.

Anche se la cifra fosse stata esagerata fornendo numericamente una popolazione iniziale di 20.000 abitanti subito dopo massacrati nella maggior parte, lasciando i superstiti ridotti in schiavitù. Otranto era comunque colpita a morte, e da quelle terribili stragi se pure riuscì ancora a riprendersi, perse notevolmente di importanza rispetto alla città di Lecce.

La spedizione per liberare Otranto

I Turchi occupata Otranto la utilizzarono come base per scorrazzare indisturbati in tutto il Salento, seminando terrore e morte fino al Gargano. La reazione aragonese stentava a formalizzarsi anche perché Venezia persisteva nella sua neutralità interessata e gli altri Stati italiani tergiversavano. Da questo indulgere i Turchi ricavarono il tempo per fortificare Otranto secondo concetti difensivi avanzati.

Ferrante aveva subito richiamato dalla Toscana il figlio Alfonso. Questi era in quella regione con gran parte dell’esercito, e avrebbe potuto dirigersi su Otranto per la via degli Abruzzi. Perciò a fine agosto 1480 Ahmed Pascià compì una manovra diversiva per disorientare Alfonso, comandante della guarnigione otrantina. Attaccò dal mare, con 70 navi, la città di Vieste nel Gargano e la mise ferro e fuoco.

Il 12 settembre i Turchi incendiavano la chiesetta di Santa Maria di Merino, posta a sette chilometri da Vieste. Questa chiesa era quanto rimaneva dell'antico borgo, e custodiva al suo interno custodita la Madonna di Merino, opera in tiglio dei secoli XIV-V, forse parte superstite di un'Annunciazione. SI attaccava l'immagine, dato che la chiesetta era realizzata dopo che alcuni marinai ne avevano rinvenuto il simulacro abbandonato sul lido di Scialmarino, immagine immediatamente divenuta oggetto di venerazione in tutto il territorio di Vieste e meta di frequenti pellegrinaggi.

Saldo sulle sue posizioni, nell'ottobre del 1480 Gedik Ahmed Pasha ripassò il Canale di Otranto con gran parte delle sue truppe dopo aver ripetutamente devastato con continue scorrerie i territori di Lecce, Taranto e Brindisi. Lasciò a Otranto solo una guarnigione di 800 fanti e 500 cavalieri. La sua decisione era dettate soprattutto dalla difficoltà di non poter mantenere tutto l’inverno un'esercito enorme in armi. Od altrimenti avendo fortificato Otranto poteva bastare una guarnigione più ridotta.

Si stava ricompattando la parte antiturca. Una crescente pressione veniva dalle forze aragonesi finanziate dal denaro fiorentino e supportate attivamente da Sisto IV che proclamò la crociata contro i Turchi.

Era tuttavia certo che il Pashà pensasse di trascorrere l'inverno nell'Impero per ripassare lo stretto l'anno dopo. Restava il mito dell'invincibilità turca, e per tutto l'inverno il terrore in Italia fu altissimo o proliferarono le voci di un abbandono di Roma da parte del Papa.

I preparativi per la spedizione contro i Turchi

Il re di Napoli inviò a Sisto IV l’ambasciatore Francesco Scales il quale, assieme all'oratore Aniello Arcamone, espose il pericolo incombente su tutta la cristianità, e soprattutto, cosa che avrebbe senz’altro interessato i pontifici, sulle terre della Chiesa e sulla stessa persona del pontefice qualora i Turchi avessero invaso il Regno di Napoli.

La caduta e il massacro di Otranto suscitarono viva emozione tra i cristiani; ma anche i timori di una possibile invasione, per cui alla corte pontificia qualcuno arrivò addirittura a proporre il trasferimento della corte papale ad Avignone.

Sisto IV riprese in mano la situazione. Concluse la pace con Firenze, per la quale, minacciata invece dalla politica del pontefice, pertanto l’attacco musulmano significava salvezza, e, fattosi promotore di una tregua tra i vari stati italiani, pubblicò una bolla con il bando di crociata cui invitò tutti i principi cristiani.

Sisto IV costituiva così un’alleanza di Genova con Firenze, con il re d’Ungheria ed i duchi di Milano e Ferrara.

Gli aiuti promessi tardavano ad arrivare ed erano evidenti le disparità tra le forze in campo.

L'inverno del 1481 passava intanto nelle vane promesse di aiuti mentre i turchi ricevevano via mare rinforzi; alcune scaramucce nell'entroterra e sulle acque non sembravano decidere le sorti dell'occupazione: i turchi rimanevano saldamente padroni della città nonostante gli attacchi che si facevano sempre più frequenti provocando crudeli ritorsioni nei confronti degli inermi cittadini che nel frattempo non erano stati massacrati o fatti schiavi.

Al momento di realizzare la crociata sopraggiunse una serie di defezioni. Venezia, avendo nel 1479 appena terminato la guerra con un trattato della durata di 16 anni che dietro pagamento di tributi nell’ordine di 10.000 ducati annui le garantiva la possibilità di proseguire i suoi traffici in Oriente, non rispose all’appello. Bologna era propensa ad armare al massimo una sola triremi. Lorenzo il Magnifico, nemico del pontefice e del re di Napoli, fece beffardamente coniare una medaglia celebrativa della vittoria di Achmed Pashà.

Il re d’Inghilterra si ritirò. La Germania era allo sfascio e su quell'area non si poteva contare. Luigi XI di Francia lasciò intravedere deboli disponibilità da parte sua. In definitiva il pontefice ed il re di Napoli erano isolati.

Nei suoi stati, Sisto IV armò ad Ancona 5 galee. Inviò inoltre il cardinale G. B. Savelli a Genova per noleggiare altre 20 unità.

Da Genova riuscì ad ottenere molte galee, 74 secondo il Pastor, ma più probabilmente 24, come attesta il Giustiniani. Il 30 giugno 1481 le galee si radunavano alla foce del Tevere, ove si svolse un rapido concistoro al termine del quale venne destinato comandante il nobile genovese Paolo Fregoso, già arcivescovo, doge, pirata, ed infine cardinale.

Dopo l’investitura ufficiale il Fregoso il 4 luglio salpò da Civitavecchia ed a Napoli si riunì alla squadra del reame, comandata da Galeazzo Caracciolo, ed alle milizie del re d’Ungheria. L’armata fu inoltre ampliata dalle altre galee portoghesi e napoletane convogliate prima a Roma, quindi proseguì per l’Adriatico,mentre da terra Alfonso di Calabria si preparava con un grosso esercito ad assediare Otranto.

L’arrivo dell’esercito cristiano

Con l'arrivo della buona stagione l’aragonese accelerò le operazioni di assedio grazie agli aiuti ottenuti dagli Stati italiani che finalmente si resero conto del pericolo per la loro sopravvivenza rappresentato dall'occupazione turca. Finalmente il primo maggio si mise il campo presso Otranto con imponenti apparati difensivi studiati da Ciro Ciri, detto Ciro di Castel Durante, "maestro ingegnere" del duca di Urbino che lo aveva inviato alla spedizione di Otranto, e dal francese Pietro d'Orfeo.

La città era stretta d'assedio sia per terra che per mare, ed i Turchi si sentirono per la prima volta assediati da terra e dal mare dove continua ad ingrossarsi la flotta "cristiana".

Nei combattimenti il 7 febbraio 1481 perse la vita anche Giulio Antonio Acquaviva conte di Conversano, barbaramente ucciso mentre compiva coraggiosamente una rischiosa incursione. L'azione del Conversano in compenso portò fama e notorietà al suo casato, che per essa venne investito dal re di Napoli, Ferdinando I d'Aragona, dell'attributo reale D’Aragona, ereditato a partire dal figlio Andrea Matteo, il quale fu pure impegnato, nel maggio 1481, nella liberazione di Otranto.

L’abbandono dell’impresa per la morte di Maometto II

A risolvere la situazione fu la morte del cinquandaduenne sultano Maometto II, avvenuta tra il 3 e il 4 maggio 1481. L'avvenimento decise le sorti dell'assedio e fu accolto con sollievo da parte dei cristiani, poiché la successione del sultano aveva aperto le ostilità tra i di lui figli Bayazid e Jem. In conseguenza era sorta una nuova crisi per l’impero turco, per il vuoto politico creatosi, ed Achmet venne richiamato in patria.

Ad Otranto l'esercito turco, privi di rinforzi e pressati dagli eserciti e dalle milizie cristiane, subì il 23 agosto un violentissimo attacco che provoco' nelle due parti notevoli perdite umane.

I turchi furono costretti dopo una disperata resistenza a cedere, ed Achmed Pashà accettò una resa dignitosa. Il 10 settembre 1481 riconsegnò la città al duca Alfonso di Calabria, arrendendosi onorevolmente e tornando a Valona. Il 10 settembre 1481 i turchi restituivano una città ridotta a un cumulo di macerie, nella quale erano sopravvissuti solo 300 abitanti.

Gedik Ahmed Pasha non abbandonò mai del tutto il suo sogno di conquiste nella penisola: fu anche per questo che tra i due figli del sultano in lotta fra loro appoggiò subito Bayazid II e gli chiese il supporto per la spedizione in Italia. Bayazid però non fidandosi di lui lo richiamò a Costantinopoli dove lo fece imprigionare. Quando Bayazid divenne sultano, diede l'ordine di assassinare Ahmed, ordine eseguito il 18 novembre 1482 ad Adrianopoli.

Le esortazioni di Sisto IV per proseguire la spedizione

Sisto IV si complimentò con il Fregoso e lo esortò a proseguire per Valona, città che intendeva riconquistare con l’aiuto albanese.

Il Caracciolo concordava con il disegno papale di attacco in Albania e distruzione della flotta turca, ma il Fregoso non volle muoversi da Otranto.

In seno alla sua armata erano sorte grosse dispute sulla ripartizione del bottino e sul mancato invio della paga lamentato dai capitani, ed a completare la crisi erano giunti alcuni casi di peste, per cui i proprietari delle galee genovesi non ne vollero sapere di proseguire l’impresa. Il Fregoso falsificò gli ordini papali e comunicò il suo rientro a Ferdinando d’Aragona re di Napoli; per Sisto IV, che considerava il momento delle discordie tra Jem e Bayazid come opportuno per terminare l’impresa, fu un vero colpo.

Il Fregoso non si curò affatto della disciplina. Tra l’altro lo pressava il bisogno di rientrare a Genova dove proprio allora aveva occasione di recuperare il dogato. Giunto a Civitavecchia continuò a rifiutare le proposte di un papa disposto anche a vendere il pontificio vasellame d’argento e ad impegnare la mitria pur di ottenere i finanziamenti necessari a pagare i soldati e proseguire la guerra; si rivelò irremovibile, e l’armata fu sciolta. Le speranze del papa si infransero: delle galee promesse dal re di Portogallo e di quelle annunciate de Ferdinando d’Aragona, futuro Ferdinando il Cattolico, non se ne vide neppure l’ombra.

Note


Bibliografia

  Portale Storia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di storia