Trattamento dell'infezione da HIV: differenze tra le versioni

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Il trattamento dell'infezione da HIV è un processo di cure farmacologiche imperniato sull'impiego di farmaci antivirali, avente l'obiettivo di ridurre al minimo la presenza del virus all'interno dell'organismo.

Si tratta di una delle pietre miliari della medicina moderna, avendo permesso un aumento dell'aspettativa di vita a migliaia e migliaia di persone[1]: infatti, grazie alla terapia farmacologica, l'aspettativa di vita nei pazienti trattati è attualmente è paragonabile a quella dei soggetti non infetti[2].

La terapia HAART (sigla di Highly Active AntiRetroviral Therapy, "terapia antiretrovirale altamentente attiva") rappresenta il principale approccio terapeutico delle infezioni da parte del virus HIV nei paesi sviluppati. Essa si basa sull'utilizzo combinato di varie classi di farmaci allo scopo di abbattere la carica virale, in modo da stabilizzare il sistema immunitario del paziente e prevenire eventuali infezioni opportunistiche[3].

Storia

Il primo farmaco approvato dall'FDA per il trattamento antiretrovirale fu la azitotimidina (AZT), un inibitore della trascrittasi inversa (RTI), che entrò in commercio nel 1987[4]. Tale avvenimento spianò la via alla produzione di altri farmaci della stessa classe (didanosina, zalcitabina, ecc)[5]. Tuttavia ben presto apparve chiaro che tali farmaci spesso risultavano inefficaci se somministrati singolarmente, a causa della diffusa comparsa di mutazioni del virus che davano resistenza alla terapia[6][7] (si tentò di ovviare al problema aumentando le dosi, ma ciò ebbe come risultato la comparsa di vari effetti collaterali[8][9] nonché l'inasprimento e la diffusione delle resistenze ai farmaci[10]).

A partire dal 1992 si iniziò quindi a sperimentare una duplice terapia, ovvero la somministrazione combinata di zalcitabina e AZT, che in vari trial clinici dimostrò importanti capacità di riduzione della mortalità rispetto alla semplice monoterapia[11].

Nel 1995 venne approvato il saquinavir, capostipite della classe degli inibitori della proteasi[12], che da allora vennero implementati negli schemi terapeutici ed utilizzati assieme alla duplice terapia, con risultati ancora migliori sotto il profilo della conta dei CD4 e della mortalità[11]: a partire dalla seconda metà degli anni '90 si iniziò quindi a definire questo approccio terapeutico "Highly Active AntiRetroviral Therapy", o HAART[13], differenziandolo dalla terapia antivirale generica (che da allora viene definita "AntiRetroviral Therapy", ART).

Farmaci utilizzati

Lo schema terapeutico può avvalersi di varie classi di farmaci, ognuno con una propria attività e bersaglio, generalmente diverso a seconda dello stadio di maturazione virale. Generalmente vengono impiegati due inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa assieme ad un altro tipo di farmaco, come un inibitore della proteasi o un inibitore dell'integrasi virale: lo schema iniziale può essere modificato a seconda dello sviluppo o meno di resistenze.

Inibitori nucleosidici e nucleotidici della trascrittasi inversa

Si tratta di analoghi nucleosidici o nucleotidici, che vengono riconosciuti dalla trascrittasi inversa ed inseriti nella catena di DNA che l'enzima sta producendo utilizzando l'RNA virale come stampo. Questi analoghi nucleosidici/nucleotidici agiscono come terminatori: una volta inseriti l'allungamento della sequenza di DNA viene interrotto e pertanto la produzione di DNA virale risulta difettiva.

A questa classe appartengono AZT, lamivudina, tenofovir e emtricitabina[14].

Inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa

Questi farmaci bloccano l'enzima tramite regolazione allosterica, ovvero non legandosi al sito attivo dell'enzima (come gli analoghi nucleosidici) ma ad un'altra sua parte, detta sito allosterico. La nevirapina, ad esempio, si lega ad una tasca idrofobica vicina al sito attivo, impedendo stericamente l'allungamento della catena di DNA[15].

HIV-2 risulta intrinsecamente resistente a questa classe di farmaci[16].

Attualmente vengono impiegati sia farmaci di prima generazione (nevirapina, efavirenz) sia di seconda generazione, più recenti (elvitegravir e dolutegravir)[17].

Inibitori della proteasi

Lo stesso argomento in dettaglio: Inibitori della proteasi.

Le proteine virali vengono prodotte a partire da lunghe catene polipeptidiche, che vengono sezionate dalla proteasi virale permettendo la creazione delle singole proteine[18]. Gli inibitori della proteasi hanno come intuibile il ruolo di inibire questo enzima, cosicché la produzione di proteine virali risulta difettiva (le proteine non vengono prodotte, o se prodotte non funzionano)[19].

Inibitori della fusione

Questa classe di farmaci impedisce l'entrata del virus all'interno della cellula. L'HIV-1 sfrutta varie proteine come recettore per legarsi all'esterno della membrana plasmatica: CD4, CCR5, CXCR4 e altre[20]. Gli inibitori della fusione legano questi recettori impedendo il legame con il virus e conseguentemente il suo ingresso all'interno della cellula.

Maraviroc lega CCR5[21] (che è un co-recettore, mentre Enfuvirtide gp41[22] (proteina che avvicina fisicamente la membrana di rivestimento virale a quella della cellula e ne permette la fusione vera e propria). L'utilizzo di questi due farmaci può rendersi vano nel caso di mutanti virali con un'elevata affinità verso altre proteine recettoriali, come il CXCR4, per le quali non esistono attualmente inibitori (venne sperimentato l'utilizzo off-label del plerixafor, un inibitore di CXCR4, ma alcuni trial dimostrarono la sua scarsa attività antivirale[23]).

Inibitori della integrasi

Gli inibitori delle integrasi bloccano l'enzima integrasi virale, ossia l'enzima deputato ad incorporare il DNA virale all'interno della cellula ospite, per permettere la trascrizione[24].

Si tratta della classe di farmaci più recente: il capostipite, raltegravir, è stato approvato dall'FDA nel 2007[25], mentre gli altri due membri della famiglia, elvitegravir e dolutegravir, nel 2014[26].

Regimi terapeutici

Come già accennato, la maggior parte dei regimi terapeutici prevedono l'impiego di due inibitori nucleosidici e un farmaco di un'altra classe, come un'inibitore della proteasi o un inibitore della integrasi.

L'utilizzo di almeno tre farmaci rispetto alla monoterapia o alla duplice terapia presenta infatti vari vantaggi:

  • la possibilità di attaccare il virus su più fronti e ridurre il più possibile la carica virale;
  • la maggiore difficoltà nello sviluppo di mutazioni spontanee con la comparsa di resistenze da parte del virus: nel caso in cui si manifesti una resistenza ad uno dei farmaci impiegati vi saranno sempre gli altri due ad agire, e sarà comunque sempre possibile modificare il farmaco o la classe di farmaci impiegati[27]. La diminuzione della carica virale serve anche a diminuire la possibilità di comparsa di mutazioni[28].

Nel corso degli anni sono stati rilasciate varie formulazioni a dose fissa, ossia più farmaci combinati all'interno di un'unica pillola: ad esempio, nel 1997 la GlaxoSmithKline rilasciò una combinazione lamivudina + AZT con il nome commerciale di Combivir[29], mentre nel 2004 venne commercializzata la combinazione tenofovir + emtricitabina con il nome di Truvada da parte della Gilead Sciences[30].

Modalità di trattamento

Inizio della terapia

Nel corso degli anni vi sono state varie discussioni sulle corrette tempistiche di avvio della terapia: sin dalla comparsa della HAART a metà degli anni '90 vari trial clinici dimostrarono una miglior risposta alla terapia combinata, con una riduzione della carica virale e della mortalità, se essa veniva cominciata il prima possibile, anche a ridosso della diagnosi[31], approccio che negli USA venne definito "hit hard, hit early"[32]. Alcuni studi successivi tuttavia suggerirono che l'avvio immediato della terapia portasse pochi benefici tangibili, e al contrario aumentasse sensibilmente la comparsa di effetti collaterali[33].

Ciononostante, attualmente esiste un elevato grado di consenso a livello internazionale sull'iniziare la terapia il prima possibile, in quanto l'avviamento precoce risulta nella maggior parte dei casi portare maggiori benefici rispetto ad un atteggiamento attendista[34][35]. Le attuali linee guida sul trattamento delle infezioni da HIV-1, pubblicate nel 2017 dalla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, si orientano proprio in questo senso, suggerendo di iniziare la terapia antiretrovirale ancor prima di conoscere il genotipo virale, in quanto un trattamento in fase iperacuta consente una riduzione del reservoir virale di circa 20 volte maggiore rispetto a chi ha iniziato la terapia in un secondo momento[36].

Casi particolari

Bambini

Le linee guida rilasciate dal WHO nel 2013 prevedono specifici regimi terapeutici per neonati e bambini[37]:

  • sotto i tre anni di età, viene raccomandato l'uso di abacavir (o AZT) + lamivudina + lopinivir + ritonivir;
  • sopra i tre anni di età, viene raccomandato l'uso di abacavir + lamivudina + efavirenz.

Il trattamento dei bambini risulta problematico soprattutto nei paesi del terzo mondo, dove a causa degli alti costi delle terapie spesso i bambini ricevono una sola dose di nevirapina[38], o non vengono trattati affatto[39].

Gravidanza

Il trattamento nelle donne in gravidanza risulta benefico anche per il feto, essendo la probabilità di trasmissione direttamente collegata alla carica virale: tale probabilità risulta superiore al 50% in caso di carica uguale o maggiore alle 100000 copie o più per millilitro[40], e inferiore all'1% sotto le 1000 copie/ml[41].

Le linee guida consigliano di eseguire un'analisi della carica virale in vicinanza del parto: se risulta rilevabile l'HIV-RNA, oltre alla normale terapia si suggerisce di somministrare una dose di zidovudina per via endovenosa durante il parto[36].

Il parto cesareo sembra avere un minor rischio di trasmissione dell'infezione, probabilmente per la minor possibilità di sviluppare traumi a feto e madre, trattandosi di un intervento chirurgico[41]. In ogni caso, è altamente sconsigliato l'allattamento al seno[36].

Obiettivi

Il principale obiettivo di qualsiasi terapia antivirale è raggiungere dopo circa 24 settimane dall'inizio della terapia una viremia tale da non poter essere più rilevabile, indicativamente sotto le 50 copie per millilitro[36][42].

Dal punto di vista immunologico, l'obiettivo è portare i linfociti CD4 ad una soglia pari o superiore alle 350 cellule/μL[36].

In caso di un numero di copie virali superiore alle 50 per millilitro viene considerato il fallimento virologico della terapia; un numero di CD4 inferiore ai 350 per microlitro indica invece il fallimento immunologico, anche in presenza di una soppressione del virus. In quest'ultimo caso si assiste generalmente ad un prognosi peggiore rispetto ai casi in cui il livello minimo di CD4 è stato raggiunto[43].

Effetti collaterali

Gli effetti collaterali della terapia HAART sono riconducibili ai singoli farmaci:

  • Inibitori nucleosidici della trascrittasi: acidosi lattica, steatosi epatica, neuropatia periferica, miopatia. Tali evenienze risultano tuttavia meno diffusi nei moderni farmaci attualmente in commercio, come la lamivudina e il tenofovir[44].
  • Inibitori non nucleosidici della trascrittasi inversa: sono generalmente ben tollerati. La nevirapina può risultare epatotossica nelle donne con valori di CD4 elevati[45].
  • Inibitori della proteasi: possono aumentare l'incidenza di dislipidemia e diabete mellito di tipo 2[46].
  • Inibitori della integrasi: di solito vengono ben tollerati dall'organismo, occasionalmente possono causare aumenti dei livelli sierici di creatinina e miopatia[47]

Note

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Voci correlate

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