Helper therapy: differenze tra le versioni

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Il principio della '''''helper therapy''''' (''lett.'' terapia di colui che aiuta) suggerisce che quando un individuo fornisce assistenza a un'altra persona, egli stesso può trarne beneficio. Il principio è stato descritto per la prima volta da Frank Riessman nel 1965, in un articolo pubblicato sulla rivista ''Social Work''<ref name="REISSMAN1965">{{cite journal | last = Riessman | first = Frank | title = The 'helper' therapy principle | journal = Social Work | volume = 10 | issue = 2 | pages = 27–32 | url = http://doi.apa.org/?uid=1966-05594-001 | issn =0037-8046}}</ref>. Il modello di Riessman ha ispirato successive ricerche che affrontano una varietà di questioni sociali e legate alla salute che interessano gli individui e le comunità di tutto il mondo.
Il principio della '''helper therapy''' (''lett.'' terapia di colui che aiuta) suggerisce che quando un individuo fornisce assistenza a un'altra persona, egli stesso può trarne beneficio. Il principio è stato descritto per la prima volta da Frank Riessman nel 1965, in un articolo pubblicato sulla rivista ''Social Work''<ref name="REISSMAN1965">{{cite journal | last = Riessman | first = Frank | title = The 'helper' therapy principle | journal = Social Work | volume = 10 | issue = 2 | pages = 27–32 | url = http://doi.apa.org/?uid=1966-05594-001 | issn =0037-8046}}</ref>. Il modello di Riessman ha ispirato successive ricerche che affrontano una varietà di questioni sociali e legate alla salute che interessano gli individui e le comunità di tutto il mondo.


==L'articolo di Riessman==
==L'articolo di Riessman==
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*godere delle opportunità per affermare il proprio benessere dopo l'inserimento in un sistema come modello di riferimento;
*godere delle opportunità per affermare il proprio benessere dopo l'inserimento in un sistema come modello di riferimento;
*spostare la propria attenzione dalle proprie preoccupazioni e dai propri problemi per aiutare gli altri (e quindi distrarsi dalle proprie difficoltà)<ref name="REISSMAN1965" />.
*spostare la propria attenzione dalle proprie preoccupazioni e dai propri problemi per aiutare gli altri (e quindi distrarsi dalle proprie difficoltà)<ref name="REISSMAN1965" />.

==Salute==
Lepore, Buzaglo, Liberman, Golant, Greener e Davey (2014) hanno studiato il principio della helper therapy in uno [[studio controllato randomizzato]] su un gruppo di supporto online prosociale e centrato sull'altro, per donne sopravvissute al cancro al seno (P-ISG)<ref name=":2">{{Cite journal|title = Comparing standard versus prosocial internet support groups for patients with breast cancer: A randomized controlled trial of the helper therapy principle.|last = Lepore|first = S.J.|date = 2014|journal = Journal of Clinical Oncology|doi = 10.1200/JCO.2014.57.0093|pmid = 25403218|last2 = Buzaglo|first2 = J. S.|last3 = Liberman|first3 = M. A.|last4 = Golant|first4 = M.|last5 = Greener|first5 = J. R.|last6 = Davey|first6 = A.|issue = 36|volume = 32|pages = 4081–4086|pmc=4265118}}</ref>. Rispetto alle sopravvissute alla stessa patologia che hanno partecipato a un altro gruppo di supporto standard, auto-focalizzato, che non è stato progettato per fornire esplicitamente opportunità per favorire l'interazione (S-ISG), le analisi hanno scoperto che le persone nella condizione P-ISG ha fornito più supporto agli altri, ma i partecipanti a P-ISG hanno sperimentato un livello più alto di depressione e ansia dopo l'intervento rispetto a quelli in S-ISG. Questi risultati non riescono a fornire supporto al principio della help therapy, che sostiene che "aiutare gli altri è efficace nel promuovere la salute mentale" (p. 4085). Nel tenere conto di questi risultati, Lepore et al. (2014) suggeriscono che è possibile che le donne nella condizione P-ISG si sentano titubanti nell'esprimere i propri sentimenti negativi per paura che ciò possa avere un impatto negativo sugli altri, mentre le donne nella condizione S-ISG si sentono più in grado di liberarsi dal dolore emotivo e hanno quindi goduto di migliori risultati sulla salute mentale<ref name=":2" />.

Arnold, Calhoun, Tedeschi e Cann (2005) hanno esplorato le sequele positive e negative della fornitura di [[psicoterapia]] ai clienti che avevano subito traumi e successiva crescita post-traumatica, conducendo interviste a un campione di terapeuti (N = 21)<ref name=":3">{{Cite journal|url = |title = Vicarious posttraumatic growth in psychotherapy.|last = Arnold|first = D.|date = 2005|journal = Journal of Humanistic Psychology|doi = 10.1177/0022167805274729|pmid = |access-date = |issue = 2|volume = 45|pages = 239–263|last2 = Calhoun|first2 = L. G.|last3 = Tedeschi|first3 = R.|last4 = Cann|first4 = A.}}</ref>. Sebbene tutti gli intervistati abbiano indicato di sperimentare un certo grado di esperienza negativa a seguito dell'impegno nella psicoterapia focalizzata sul trauma (come pensieri intrusivi, risposte emotive negative, risposte fisiche negative e dubbi sulla competenza clinica), tutti i partecipanti hanno anche indicato una quota di esito personale positivo come risultato dell'assistenza ai clienti con questo tipo di esperienze. Le reazioni positive vissute dai clinici impegnati nel lavoro sul trauma includevano: godere della gratificazione che deriva dal guardare gli altri crescere e avere successo in momenti difficili; riconoscimento della propria crescita e sviluppo personale; aumentata capacità di connettersi emotivamente con gli altri; impatto sul proprio senso di [[spiritualità]]; maggiore consapevolezza della propria fortuna nella vita; e crescente apprezzamento per la forza e la [[resilienza]] degli esseri umani. Questa scoperta suggerisce che il principio della helper therapy può operare in un contesto clinico in cui i terapeuti (cioè coloro che aiutano) traggono beneficio dall'impegnarsi nel processo di fornitura del trattamento ai clienti in psicoterapia che sono sopravvissuti a esperienze traumatiche<ref name=":3"/>.

Pagano, Post e Johnson (2011) hanno esaminato le prove recenti che esaminano "benefici per la salute" tra le popolazioni che hanno avuto un coinvolgimento problematico con l'[[alcol]], altre condizioni di [[salute mentale]] e/o problemi medici generali<ref name=":1">{{Cite journal|title = Alcoholics Anonymous-Related Helping and the Helper Therapy Principle|journal = Alcoholism Treatment Quarterly|date = 2011-01-01|pmc = 3603139|pmid = 23525280|volume = 29|issue = 1|doi = 10.1080/07347324.2011.538320|first = Maria E.|last = Pagano|first2 = Stephen G.|last2 = Post|first3 = Shannon M.|last3 = Johnson|pages=23–34}}</ref>. In breve, la loro review suggerisce che quando gli individui con condizioni di salute croniche (ad es. Disturbo da uso di alcol, [[dismorfofobia]] con dipendenza da alcol in [[comorbidità]], [[sclerosi multipla]], [[dolore cronico]]) aiutano gli altri a vivere con la stessa condizione cronica, coloro che aiutano ricevono benefici individuali (ad es. tempo più lungo per una recidiva, remissione, riduzione della depressione e altri sintomi problematici e maggiore fiducia in se stessi, autostima e funzionamento dei ruoli)<ref name=":1"/>.

Inoltre, la review di Post (2005) della letteratura sull'[[altruismo]], la felicità e la salute indica che "esiste una forte correlazione tra il benessere, la felicità, la salute e la longevità delle persone che sono emotivamente gentili e compassionevoli nelle loro attività benefiche di aiuto" (p. 73)<ref name=":6">{{Cite journal|title = Altruism, happiness, and health: it's good to be good|journal = International Journal of Behavioral Medicine|date = 2005-06-01|issn = 1070-5503|pages = 66–77|volume = 12|issue = 2|doi = 10.1207/s15327558ijbm1202_4|first = Stephen G.|last = Post|pmid=15901215}}</ref>. Tuttavia, Post rileva anche che chi aiuta può essere sopraffatto dal coinvolgimento eccessivo nella vita di altri, e che fornire assistenza oltre una certa soglia variabile può portare a risultati deleteri piuttosto che benefici per chi aiuta<ref name=":6" />.


==Note==
==Note==

Versione delle 19:07, 15 nov 2019

Il principio della helper therapy (lett. terapia di colui che aiuta) suggerisce che quando un individuo fornisce assistenza a un'altra persona, egli stesso può trarne beneficio. Il principio è stato descritto per la prima volta da Frank Riessman nel 1965, in un articolo pubblicato sulla rivista Social Work[1]. Il modello di Riessman ha ispirato successive ricerche che affrontano una varietà di questioni sociali e legate alla salute che interessano gli individui e le comunità di tutto il mondo.

L'articolo di Riessman

L'articolo di Riessman esplorava il modo in cui i non professionisti si supportano a vicenda nei gruppi di auto mutuo aiuto, sulla base delle sue osservazioni su un campione di questi gruppi, nonché sul suo riassunto dei risultati della ricerca nei settori dell'assistenza sociale, dell'istruzione e della leadership. Questo articolo suggeriva che sebbene "l'uso di persone con un problema per aiutare altre persone che hanno lo stesso problema in forma più grave" è "un approccio terapeutico secolare", l'attenzione tradizionale sui risultati per coloro che ricevono l'aiuto, escludendo dal considerare i risultati per coloro che forniscono l'aiuto, è troppo limitata; invece, Riessman auspicava una maggiore considerazione dell'esperienza del"l'individuo che ha meno bisogno dell'aiuto, cioè della persona che fornisce l'assistenza" perché "spesso è lui che migliora!" (p. 27). Sebbene Riessman esprimesse dubbi sul fatto che le persone che ricevono aiuto traggano sempre beneficio dall'assistenza fornita loro, si sentiva più sicuro sul fatto che le persone che forniscono aiuto stessero probabilmente sperimentando importanti benefici; quindi, secondo Riessman, l'interazione di aiuto ha almeno il potenziale di essere reciprocamente vantaggiosa per entrambe le parti coinvolte (vale a dire, sia per chi fornisce aiuto, sia per chi lo riceve), ma non è assolutamente necessario che l'"aiutato" riceva un beneficio affinché l '"aiutante" possa beneficiare dei vantaggi dell'aiuto. Nei casi in cui si verifica un vero beneficio reciproco, l'aiutato e l'aiutante beneficiano in diversi modi, in modo tale che la persona che riceve aiuto beneficia attraverso la ricezione di qualsiasi forma specifica di assistenza offerta (ad esempio, supporto emotivo, informazioni, ecc.), mentre il la persona che fornisce assistenza beneficia dell'atto stesso di fornire assistenza, indipendentemente dal tipo di aiuto che fornisce[1].

Riessman ha proposto diversi meccanismi che possono facilitare i benefici sperimentati da un individuo impegnato in un ruolo di aiuto:

  • ottenere un'immagine migliore di sé;
  • impegnarsi maggiormente in una posizione attraverso il processo di persuasione (vale a dire "auto-persuasione attraverso la persuasione degli altri");
  • sperimentare uno sviluppo significativo delle proprie abilità, dopo aver ricevuto interesse e aver imparato insegnando agli altri;
  • ottenere l'accesso a un ruolo socialmente apprezzato, e al conseguente senso di status sociale e di importanza;
  • godere delle opportunità per affermare il proprio benessere dopo l'inserimento in un sistema come modello di riferimento;
  • spostare la propria attenzione dalle proprie preoccupazioni e dai propri problemi per aiutare gli altri (e quindi distrarsi dalle proprie difficoltà)[1].

Salute

Lepore, Buzaglo, Liberman, Golant, Greener e Davey (2014) hanno studiato il principio della helper therapy in uno studio controllato randomizzato su un gruppo di supporto online prosociale e centrato sull'altro, per donne sopravvissute al cancro al seno (P-ISG)[2]. Rispetto alle sopravvissute alla stessa patologia che hanno partecipato a un altro gruppo di supporto standard, auto-focalizzato, che non è stato progettato per fornire esplicitamente opportunità per favorire l'interazione (S-ISG), le analisi hanno scoperto che le persone nella condizione P-ISG ha fornito più supporto agli altri, ma i partecipanti a P-ISG hanno sperimentato un livello più alto di depressione e ansia dopo l'intervento rispetto a quelli in S-ISG. Questi risultati non riescono a fornire supporto al principio della help therapy, che sostiene che "aiutare gli altri è efficace nel promuovere la salute mentale" (p. 4085). Nel tenere conto di questi risultati, Lepore et al. (2014) suggeriscono che è possibile che le donne nella condizione P-ISG si sentano titubanti nell'esprimere i propri sentimenti negativi per paura che ciò possa avere un impatto negativo sugli altri, mentre le donne nella condizione S-ISG si sentono più in grado di liberarsi dal dolore emotivo e hanno quindi goduto di migliori risultati sulla salute mentale[2].

Arnold, Calhoun, Tedeschi e Cann (2005) hanno esplorato le sequele positive e negative della fornitura di psicoterapia ai clienti che avevano subito traumi e successiva crescita post-traumatica, conducendo interviste a un campione di terapeuti (N = 21)[3]. Sebbene tutti gli intervistati abbiano indicato di sperimentare un certo grado di esperienza negativa a seguito dell'impegno nella psicoterapia focalizzata sul trauma (come pensieri intrusivi, risposte emotive negative, risposte fisiche negative e dubbi sulla competenza clinica), tutti i partecipanti hanno anche indicato una quota di esito personale positivo come risultato dell'assistenza ai clienti con questo tipo di esperienze. Le reazioni positive vissute dai clinici impegnati nel lavoro sul trauma includevano: godere della gratificazione che deriva dal guardare gli altri crescere e avere successo in momenti difficili; riconoscimento della propria crescita e sviluppo personale; aumentata capacità di connettersi emotivamente con gli altri; impatto sul proprio senso di spiritualità; maggiore consapevolezza della propria fortuna nella vita; e crescente apprezzamento per la forza e la resilienza degli esseri umani. Questa scoperta suggerisce che il principio della helper therapy può operare in un contesto clinico in cui i terapeuti (cioè coloro che aiutano) traggono beneficio dall'impegnarsi nel processo di fornitura del trattamento ai clienti in psicoterapia che sono sopravvissuti a esperienze traumatiche[3].

Pagano, Post e Johnson (2011) hanno esaminato le prove recenti che esaminano "benefici per la salute" tra le popolazioni che hanno avuto un coinvolgimento problematico con l'alcol, altre condizioni di salute mentale e/o problemi medici generali[4]. In breve, la loro review suggerisce che quando gli individui con condizioni di salute croniche (ad es. Disturbo da uso di alcol, dismorfofobia con dipendenza da alcol in comorbidità, sclerosi multipla, dolore cronico) aiutano gli altri a vivere con la stessa condizione cronica, coloro che aiutano ricevono benefici individuali (ad es. tempo più lungo per una recidiva, remissione, riduzione della depressione e altri sintomi problematici e maggiore fiducia in se stessi, autostima e funzionamento dei ruoli)[4].

Inoltre, la review di Post (2005) della letteratura sull'altruismo, la felicità e la salute indica che "esiste una forte correlazione tra il benessere, la felicità, la salute e la longevità delle persone che sono emotivamente gentili e compassionevoli nelle loro attività benefiche di aiuto" (p. 73)[5]. Tuttavia, Post rileva anche che chi aiuta può essere sopraffatto dal coinvolgimento eccessivo nella vita di altri, e che fornire assistenza oltre una certa soglia variabile può portare a risultati deleteri piuttosto che benefici per chi aiuta[5].

Note

  1. ^ a b c Frank Riessman, The 'helper' therapy principle, in Social Work, vol. 10, n. 2, pp. 27–32.
  2. ^ a b S.J. Lepore, Comparing standard versus prosocial internet support groups for patients with breast cancer: A randomized controlled trial of the helper therapy principle., in Journal of Clinical Oncology, vol. 32, n. 36, 2014, pp. 4081–4086, DOI:10.1200/JCO.2014.57.0093.
  3. ^ a b D. Arnold, Vicarious posttraumatic growth in psychotherapy., in Journal of Humanistic Psychology, vol. 45, n. 2, 2005, pp. 239–263, DOI:10.1177/0022167805274729.
  4. ^ a b Maria E. Pagano, Alcoholics Anonymous-Related Helping and the Helper Therapy Principle, in Alcoholism Treatment Quarterly, vol. 29, n. 1, 1º gennaio 2011, pp. 23–34, DOI:10.1080/07347324.2011.538320.
  5. ^ a b Stephen G. Post, Altruism, happiness, and health: it's good to be good, in International Journal of Behavioral Medicine, vol. 12, n. 2, 1º giugno 2005, pp. 66–77, DOI:10.1207/s15327558ijbm1202_4.
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