Utente:Savina.F/Sandbox

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RAFFIGURAZIONE DELLA MORTE PERSONIFICATA[modifica | modifica wikitesto]

La raffigurazione più diffusa della personificazione della morte che compare a partire dal Basso Medioevo, è quella dello scheletro che ha il compito di accompagnare le anime degli uomini nel regno dei morti. Questo scheletro viene raffigurato con in mano una falce e vestito con una tunica nera e un cappuccio. I temi più comuni con i quali viene raffigurata la morte personificata sono:

- scheletri che danzano con esseri viventi;

- scheletri armati di falce e martello che infieriscono su varie categorie sociali di persone per dimostrazione che dinanzi alla morte siamo tutti uguali;

- Danza Macabra che si diffonde nella seconda metà del 1300 mediante il testo francese composto da Jean Le Ferve (1395-1468) nel quale dichiara: “Je fis Le Macabré La Danse”;

- raffigurazioni del Giudizio Universale correlato a una rappresentazione dantesca del Paradiso e dell'Inferno;

- raffigurazione del Giudizio Universale come decimazione umana dopo la peste del 1348;

- raffigurazioni di 3 personaggi vivi e 3 personaggi morti, questo per sottolineare il ciclo della vita e della morte;

- associazione di simboli di morte a quelli del diavolo per evidenziare la contrapposizione duale tra l'anima e il corpo, la luce e il buio, la vita e la morte.

L'iconografia del Giudizio Universale dal XII secolo cambia diventando giudizio individuale: l'uomo al momento della morte acquista coscienza della sua individualità, passando perciò dalla morte intesa come fatto collettivo, alla morte che concerne il singolo individuo, la propria morte. Il morente non vede più le persone intorno a sé ma si chiude in se stesso dove avviene lo scontro tra Cielo e Inferno, tra Cristo, Le Vergini, I santi e i Demoni. Il giudizio dell'individuo non avviene in uno spazio ultraterreno ma dentro la sua stanza: accade allora che Dio non sia tanto il giudice che pronuncia la sentenza, quanto l'arbitro dell'ultima prova proposta all'uomo nel momento preciso della morte. Il morente deve scegliere tra il bene e il male, ma il demonio lo tenta sollecitandolo alla disperazione mostrandogli come la fine minacci di sottrargli tutti quei beni materiali che egli ha amato e posseduto. Se accetterà di rifiutare i beni terreni si salverà, se invece vorrà portarli nell'aldilà sarà dannato. Questi oggetti temporali possono essere sia beni concreti che la stessa famiglia, in entrambi i casi il moribondo peccherà di avarizia intesa come avida passione della vita , degli esseri e delle cose. L'avaro voleva portare con sé i beni della vita ma la Chiesa lo avvertiva che li avrebbe portati all'Inferno.  Lo si vede bene nell'affresco Il trionfo della morte, risalente al 1485, ospitato nella chiesa di S. Bernardino a Bergamo, la morte viene raffigurata come regina che sottomette tutti a sé, indossa un mantello e una corona ed è attorniata da persone che la implorano e le offrono ricchezze.

Pertanto il momento della morte non è più calmo e rassegnato ma drammatico, in quanto espressione di questo nuovo rapporto con la ricchezza che può essere temporale ma anche spirituale. L'uomo in punto di morte, non essendo più certo della salvezza eterna, voleva salvaguardarsi con garanzie spirituali: il morente quindi doveva scegliere tra l'amore per i beni temporali e la vita eterna: donare i beni alla Chiesa permetteva la salvezza dell'anima.

Si stabilì così una relazione ambigua tra gli atteggiamenti davanti alla ricchezza e quelli davanti alla morte (l'amore delle cose terrene legato alla salvezza eterna): l'amore per i beni terreni permettevano donandoli alla Chiesa, la garanzia della vita eterna, ma non solo, si ottenevano in cambio anche fama e gloria, come mostrano le tombe dei maggiori donatori. Ritornano infatti le tombe visibili, molto rare nell'Alto Medioevo, che permettevano al defunto di essere in cielo ma rimanere sulla terra. Questo processo di trasformazione ha portato l'aumento della diseguaglianza tra povero e ricco: solo pochi potevano arrivare a ottenere una tomba visibile e propria, gli altri rimanevano anonimi nella fossa comune. La netta distinzione tra ricco e povero veniva sottolineata dal cambiamento dei riti funebri. Il corte funebre del potente donatore aveva un seguito molto numeroso, costituito da monaci, preti specializzati, amici, parenti e gente povera.

IL TEMA DEL MACABRO[modifica | modifica wikitesto]

Il tema del macabro si distingue in relazione a tre fasce temporali:

  1. nel periodo tra il XII e il XIII avviene una prima trasformazione nel costume funebre, ossia nascondere la morte: il corpo non era più esposto dinanzi all'altare e fa il suo ingresso il calco sul volto del morto. La raffigurazione somigliante al viso del cadavere non viene fatta per incutere orrore ma per scattare foto realistiche del defunto ed ottenere l'effetto di una immagine ancora in vita. I calchi marmorei insieme alle rappresentazioni dei cadaveri avevano quindi la funzione di raffigurare i morti da vivi e ciò si concilia con la pratica del sottrarre agli sguardi il corpo del defunto proprio perché si riproduce il vivente, coi tratti del morto, e si chiede all'arte di sostituirsi alla cruda realtà;
  2. la fase che va dal XIV al XV secolo il sentimento davanti alla morte è d'impotenza, l'uomo si sente fallito in quanto mortale. La morta non faceva paura come evento empirico in sé in quanto era familiare, ma era temuto in quanto accostata al fallimento umano e tutto ciò diveniva commovente. Questo sentimento individuale di tracollo si lega alla visione di una vita come progetto e quindi di scelta volontaria. L'iconografia del Macabro diviene più astratta e quindi avremo cadaveri sotto forma di scheletri, le immagini esprimono la coscienza di sé;
  3. La fase che va tra il XVI e XVIII secolo ricerca una presenza realistica della morte, essa diviene un oggetto affascinante dato il suo avvicinamento tra Thanatos ed Eros: i soggetti macabri si caricano di senso erotico. Successivamente a queste tematiche erotiche-macabre si aggiunge l'elemento del morboso ossia un gusto perverso ma non consapevole nei confronti dello spettacoloso fisico della morte e della sofferenza. Si era instaurato il fascino per il corpo del defunto. Tutto ciò testimonia come la fine della vita, seppur accettata nella pratica quotidiana, in realtà, non lo era nel mondo dell'immaginario, dove avvengono le grandi trasformazioni della sensibilità.

Dalla fine del XVIII secolo si assiste a un ritorno al dolore per la scomparsa del proprio caro e a una teatralizzazione del dolore che dimostra l'intolleranza verso la separazione dall'altro: nasce così l'esigenza di venerare la memoria dei defunti. Nel XX secolo assistiamo però alla perdita di questo sentimento di familiarità con la morte che comporterà l'affievolirsi della ritualità, del sentimento romantico e del culto funerario trasformando così la morte in un avvenimento da rimuovere, svuotando i riti funebri della loro carica simbolica.


L'ARTE DI MORIRE[modifica | modifica wikitesto]

Alla fine del Medioevo, tra il 1450 e il 1530, si sviluppa l'ars moriendi che offre la risposta della religione all'angoscia degli uomini difronte alla morte. Di quest'arte si possono comunque rintracciare manoscritti di più antica data, circa nel Trecento, nei quali si intravede già il tema della raffigurazione delle scene sul letto di morte e nella camera mortuaria, temi principali della pedagogia delle artes moriendi. Gli studiosi del genere la fanno risalire alla Germania meridionale a opera di un domenicano di Costanza che vi sarebbe ispirato alla pagine di Gerson dell'Opusculum tripartitum.

L'ars moriendi si diffuse dalle case dei frati predicatori e dei padri del concilio, e per circa ottant'anni le rappresentazioni del letto d'agonia, quella della danza dei morti, quella del Giudizio, e infine quella dell'Inferno e del Paradiso, domina la letteratura sulla morte. Tutta la scena è concentrata sull'ultimo momento, il morente è solo, o quasi, i familiari e i vicini intervengono poco e il prete è assente. La morte fisica e quella delle danze Macabre non compare quasi più ma il morente è ridotto alla sua anima ed è la sorte di questa a essere in gioco. Nella seconda metà del Quattrocento italiano l'ars moriendi assumerà l'aspetto di un'arte di ben vivere e ben morire e l'individuo è chiamato a compiere, durante la sua intera esistenza, tutta una serie di esercizi costanti per familiarizzare con la morte, come visitare i cimiteri, assistere all'agonia di parenti e amici.

Leon Battista Alberti propose una riflessione nuova sulla morte invitando a godere la vita giorno per giorno e a non privarsi dei beni presenti per paura del futuro. Il tempo umano è la sola misura della durata e la vecchiaia è vista come un coronamento o della vita, il momento in cui si può avere una visione più distaccata delle cose.

C'è chi poi ritiene la morte impossibile nell'universo dell'infinito, come il frate domenicano e filosofo Giordano Bruno, che contro la paura della dissoluzione considera la morte una diversa maniera d'essere.

Per il filosofo francese Michel de Montaigne è inutile e gratuitamente doloroso ingombrare la vita con i pensieri della morte facendo emergere quindi una concezione del trionfo della vita che deve essere scopo a se medesimo. L'ars moriendi scompare quindi nella sua forma tradizionale e riaffiora con uno stile e un contenuto di sdrammatizzazione dell'istante della morte. Si passa dall'arte del morire all'arte del ben vivere che trova in Erasmo da Rotterdam il suo punto di arrivo. Una buona morte non potrebbe porre riparo a una cattiva vita.


LA MORTE IN LETTERATUTRA[modifica | modifica wikitesto]

La morte è usata come tema in svariate opere letterarie e moltissimi artisti si sono rapportati con l'ultimo momento estremo di ogni esperienza umana.

Per Francesco Petrarca la morte appare come la salvezza di un'esistenza tormentata.

Per Ugo Foscolo, riproponendo la figura di di Ettore, eroe della mitologia greca, rappresenta la morte come una prova estrema da affrontare con coraggio e con spirito di sacrificio ma anche come un rifugio in cui trovare riposo dai mali della vita.

Alessandro Manzoni coglie nella morte la speranza del mondo dell'aldilà cristiano, ove la speranza di salvezza eterna non viene mai meno, soprattutto per la carità divina.

Giacomo Leopardi vede la morte come un orribile abisso verso il quale l'uomo tende inconsapevolmente, senza conoscere la ragione del suo cieco viaggio e del suo crudele destino.

Giovanni Verga rapprese la morte come tragica evenienza che segna il declino economico e talvolta morale di un'intera famiglia.

Giovanni Pascoli rappresenta la morte come una rottura dell'ordine naturale, una perdita irreparabile alla quale può far fronte solo con l'aiuto della poesia che gli permette di esprimere tutto il dolore del lutto e dell'ingiusta morte.  


Dalla fine del XVIII secolo si assiste a un ritorno al dolore per la scomparsa del proprio caro e a una teatralizzazione del dolore che dimostra l'intolleranza verso la separazione dall'altro: nasce cosi l'esigenza di venerare la memoria dei defunti e la visita al cimitero diviene il grande atto permanente poiché tutti, credenti o atei, vanno al cimitero a onorare la memoria del defunto.

Nel XX secolo assistiamo però alla perdita di questo sentimento di familiarità con la morte che comporterà l'affievolirsi della ritualità, del sentimento romantico e del culto funerario trasformando così la morte in un avvenimento da rimuovere, svuotando i riti funebri e le rappresentazioni della loro carica simbolica.   


BIBLIOGRAFIA[modifica | modifica wikitesto]
  • Alberto Tenenti, Il senso della morte e l'amore della vita nel rinascimento, Einaudi, Torino 1989
  • Giuseppe Leone, Le chiome di Thanatos, Editore Liguori, Napoli 2011
  • Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente: dal medioevo ai giorni nostri, Milano, BUR 2006


WERNER FUCHS, Le immagini della morte nella società moderna, Torino, Enaudi, 1973 [ed. or. 1972] p. 54.

PHILIPPE ARIES, La storia della morte in Occidente, Milano, Bur, p. 91-92.

MICHEL VOVELLE, La morte e l'Occidente. Dal 1300 ai giorni nostri, Bari-Roma, Laterza, 1993, p. 105.

GIROLAMO SAVONAROLA, Predica dell'arte e del bene morire, 1496.

FRANCESCO PETRARCA, Trionfo della morte ne I Trionfi, 1374, I, pp. 88-90.

UGO FOSCOLO, Ettore e la sua morte in battaglia in Dei Sepolcri, 1807.

ALESSANDRO MANZONI, Gli Adii, 1822.

GIACOMO LEOPARDI, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, 1830.

GIOVANNI VERGA, I malavoglia, Milano, Mondadori, 1983 [ed.or.1881].