Utente:Heriel/Sandboxprovagenerale

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Prova Generale[modifica | modifica wikitesto]

"Anche coloro che praticano la giustizia lo fanno malvolentieri e solo perché sono non capaci di commettere ingiustizia."

(Glaucone, citato in Platone, Repubblica, 359c)

Glaucone nel Libro II della Repubblica[modifica | modifica wikitesto]

Buona parte di quello che sappiamo di Glaucone deriva dalle opere di Platone, in particolare dalla Repubblica, dove è uno dei principali interlocutori di Socrate. Come lo stesso Platone sottolinea, Glaucone è un interlocutore molto coraggioso e audace[1] che non esita a esprimere i propri dubbi sulla confutazione di Trasimaco da parte di Socrate.

Il suo discorso si apre con una classificazione dei beni, che sarà ripresa successivamente da altri filosofi antichi, compreso Aristotele: secondo Glaucone, ci sono dei beni che desideriamo per se stessi, a prescindere dalle loro conseguenze, perché sono "innocui piaceri che non comportano nulla in futuro se non la gioia di provarli"[2], altri che desideriamo per se stessi e per i loro vantaggi (come ad esempio la vista e l'intelligenza) e altri ancora che in sé sono poco desiderabili o ci costano fatica, ma che siamo felici di possedere per le conseguenze hanno (come l'essere curati in caso di malattia o il fare ginnastica). Questa classificazione serve a Glaucone per introdurre la propria argomentazione, secondo la quale la giustizia, per la maggior parte delle persone, appartiene all'ultima categoria di beni, perché in sé sarebbe da evitare, ma è necessaria per avere denaro e buona reputazione[3]. A questo punto, Glaucone manifesta la sua volontà di rinforzare la tesi di Trasimaco (giustizia come utile del più forte), confutata da Socrate in modo secondo lui non soddisfacente[4], costruendo una genesi della giustizia che le sia complementare.

L'origine della giustizia[modifica | modifica wikitesto]

La maggior parte delle persone, secondo Glaucone, credono che "commettere ingiustizia è per natura un bene e subirla è un male" [5] [6]e di conseguenza distinguono la natura dalla convenzione. Dopo aver vissuto in uno stato di natura in cui tutti facevano il proprio utile e, seguendo la propria natura, si soverchiavano (pleonektéin)[7] a vicenda, gli uomini hanno realizzato che in quel modo subivano più soprusi di quanti riuscissero a compierne: hanno perciò deciso di non farsi più ingiustizia a vicenda e creare leggi per rendere questo patto stabile. La giustizia per loro quindi, secondo la sua interpretazione, sta a metà fra il meglio, che consisterebbe nel commettere ingiustizia senza rischiare di essere puniti, e il peggio, che sarebbe subire continui soprusi senza potersi vendicare[8].

C'è anche il riferimento ad un "vero uomo" che secondo alcuni rimanda al "vero uomo" di cui parlava Callicle nel Gorgia, anche se non sembra che Glaucone parli dell'esistenza di un tale individuo come di un'ipotesi realizzabile: si limita a dire che se fosse esistito, di certo non si sarebbe unito al patto[9]. Inoltre, sono state notate somiglianze anche con la le tesi di Antifonte, che nel frammento dello scritto Sulla verità poneva l'accento sulla giustizia come frutto di convenzione e sulla necessità di seguire le sole disposizioni di natura in assenza di testimoni[10].

Il caso di Gige[modifica | modifica wikitesto]

La mancata presenza di testimoni è fondamentale anche nella seconda parte del discorso di Glaucone, nel quale, l'interlocutore di Socrate, riprende il racconto di Erodoto del Re di Lidia Gige modificandolo largamente per mostrare come, persino una persona giusta[11], abbraccerebbe l'ingiustizia se le si offrisse la possibilità di fare quello che vuole senza essere scoperta. Glaucone racconta che Gige era un pastore a servizio del re che stava pascolando il proprio gregge quando un terremoto aprì una voragine nel terreno[12]. Gige non esitò a scendere nel baratro e vi trovò un cadavere enorme spoglio di tutto tranne che di un anello, che teneva al dito. Il pastore se ne impossessò senza esitazioni e iniziò a fare degli esperimenti: alla riunione dei pastori, scoprì che era un anello capace di rendere invisibili. Si fece quindi inviare dal re e, una volta giunto da lui, sedusse la regina e con l'aiuto di lei lo uccise[13].

Si notano subito numerose modifiche rispetto alla versione di Erodoto, in cui non si parla nemmeno dell'anello[14], ma anche un'esasperazione del fatto che Gige non violentò la regina (come invece scriverà Cicerone nella propria versione della storia) ma che la sedusse e che con l'aiuto di lei lo uccise. Glaucone vuole proprio sottolineare il fascino che la possibilità di essere ingiusti esercita su tutti gli uomini e la labilità della giustizia, che appare come una condizione esteriore facilmente rinnegabile di fronte all'opportunità di agire ingiustamente senza essere scoperti[15].

Dopo aver parlato del caso di Gige, Glaucone chiede di immaginare che esistano due anelli come quello che aveva reso il pastore un tiranno e che uno venga indossato dal giusto e l'altro dall'ingiusto[16]. In questo caso, secondo lui, nessuna dei due agirebbe giustamente, ma entrambi si comporterebbero come "un dio fra gli uomini"[17][18]. Questo perché, secondo Glaucone, nessun uomo, nel proprio intimo, crede che la giustizia sia davvero vantaggiosa. Le persone la lodano solo per convenienza e perché sanno di non avere la forza di essere ingiusti: se scoprissero che un uomo ha la possibilità di essere ingiusto, perché ha un anello simile a quello di Gige ed invece persevera con la propria giustizia, penserebbero che sia uno sciocco pur lodandolo in pubblico, consapevoli che è nel loro interesse mantenere il patto sociale[19].

Giusto e ingiusto perfetti[modifica | modifica wikitesto]

L'ultima parte del discorso di Glaucone mira a dimostrare che una vita nell'ingiustizia può essere più felice di una nella giustizia. Per farlo, si basa sul paradosso di immaginare un ingiusto perfetto che riesca a sembrare giusto e un giusto perfetto che abbia la peggiore fama di ingiusto. Il primo prenderà il comando dello stato, sposerà la donna che desidera, sarà benvoluto dagli uomini e anche dagli dei, perché facendo molti sacrifici se ne accattiverà il favore[20]. Il secondo invece vivrà una vita di miserie, sarà deriso, flagellato e alla fine ucciso[21].

La conclusione di Glaucone è quindi che "dei e uomini riservano all'ingiusto vita migliore che al giusto". [22]

Il discorso di Glaucone è stato spesso citato, commentato e interpretato. Come quello di Trasimaco, da alcuni interpreti è ritenuto organico e coerente, mentre secondo altri le tre parti del discorso (in particolare la seconda parte e la terza) sono contraddittorie. Se la natura degli uomini tende costantemente all'ingiustizia sembra difficile immaginare un individuo perfettamente giusto, così come se ogni uomo nell'intimo deride l'individuo giusto, non si capisce come l'ingiusto possa ricevere grandi onori solo apparendo giusto. [23]

Somiglianze e differenze con la teoria sostenuta da Trasimaco[modifica | modifica wikitesto]

Glaucone si propone di rafforzare la teoria di Trasimaco, ma nonostante questo i due discorsi non sono del tutto complementari. Trasimaco quando parla della giustizia come utile del più forte, intende anche dire che è anche a danno dei più deboli, mentre questo non è mantenuto nel discorso di Glaucone[24]. Al contrario, sono state notate delle affinità fra il tiranno descritto da Trasimaco (che è visto come beato e felice perché è giunto al colmo dell'ingiustizia) e Gige, la cui ingiustizia è seducente[25].

Glaucone e Hobbes[modifica | modifica wikitesto]

Molti interpreti sono concordi nell'affermare che il discorso di Glaucone nella Repubblica anticipi il contrattualismo di Hobbes[26], perché entrambi vedono lo stato di natura come una condizione di conflitto continuo fra uomo e uomo, in cui ognuno è sempre pronto a sopraffare l'altro, mosso dall'egoismo e dall'istinto di autoconservazione (concezione della natura umana spesso indicata con l'espressione latina homo homini lupus). Solo l'istituzione della giustizia, solo l'uscita dallo stato di natura permette di porre fine a quel caos, a quella guerra continua che non permetterebbe nemmeno l'accumulazione di ricchezze. Gli uomini, sia per Glaucone che per Hobbes, sono tutti sostanzialmente uguali, hanno la stessa capacità di farsi del male ma anche lo stesso timore di subirlo ed è solo grazie a questo timore che decidono di uscire dallo stato di natura[27].

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Platone, Repubblica, 357a2
  2. ^ Platone, Repubblica, 357b7
  3. ^ Socrate porrà la giustizia nella seconda categoria di beni, quelli che si desiderano per sè e per le loro conseguenze. Secondo alcuni commentatori, il passo è ambiguo, perchè la giustizia dovrebbe essere desiderabile solo per se stessa. v. B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari, 1997, nota 6, Libro II.
  4. ^ Secondo alcune interpretazioni, Glaucone sceglie di sostenere la tesi di Trasimaco solo per spronare Socrate a difendere la giustizia in modo soddisfacente. Cfr Stefano Bacin (a cura di) Etiche antiche etiche moderne. Temi di discussione, il Mulino, Bologna, 2010 p.74
  5. ^ Platone, Repubblica, 358e4
  6. ^ Molti interpreti sono concordi nel sostenere che Glaucone non si stia contraddicendo quando parla di giustizia e ingiustizia prima del patto sociale, ma che stia semplicemente usando termini entrati in uso successivamente. Cfr B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari, 1997, nota 12, Libro II e Stefano Bacin (a cura di) Etiche antiche etiche moderne. Temi di discussione, il Mulino, Bologna, 2010 p.78
  7. ^ Il secondo libro: la sfida di Glaucone, su btfp.sp.unipi.it.
  8. ^ Platone, Repubblica, 359a6-9
  9. ^ Stefano Bacin (a cura di) Etiche antiche etiche moderne. Temi di discussione, il Mulino, Bologna, 2010 pp.86-87
  10. ^ Stefano Bacin (a cura di) Etiche antiche etiche moderne. Temi di discussione, il Mulino, Bologna, 2010 pp.78-79
  11. ^ La giustizia di Gige, in realtà, è stata messa più volte in questione, anche alla luce dell'esempio successivo di Glaucone, nel quale troviamo un giusto perfetto che agisce in modo ben diverso. Cfr Stefano Bacin (a cura di), Etiche antiche etiche moderne. Temi di discussione, il Mulino, Bologna, 2010 pp.92-94
  12. ^ Platone, Repubblica, 359d
  13. ^ Platone, Repubblica, 360b2
  14. ^ B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1997, nota 13, Libro II
  15. ^ Stefano Bacin (a cura di), Etiche antiche etiche moderne. Temi di discussione, il Mulino, Bologna, 2010 p.95
  16. ^ Platone, Repubblica, 360b4
  17. ^ Platone, Repubblica, 360c3
  18. ^ Glaucone sembra avere una considerazione davvero bassa degli dèi. Il fratello Adimanto riprenderà questa questione nel suo discorso 362d-367e
  19. ^ Platone, Repubblica, 360d7
  20. ^ Platone, Repubblica, 362c
  21. ^ Platone, Repubblica, 362a
  22. ^ Platone, Repubblica, 362c6
  23. ^ Stefano Bacin (a cura di), Etiche antiche etiche moderne. Temi di discussione, il Mulino, Bologna, 2010 p.92
  24. ^ Stefano Bacin (a cura di), Etiche antiche etiche moderne. Temi di discussione, il Mulino, Bologna, 2010 p.83
  25. ^ Stefano Bacin (a cura di), Etiche antiche etiche moderne. Temi di discussione, il Mulino, Bologna, 2010 p.96
  26. ^ v. B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1997, nota 12, Libro II e Stefano Bacin (a cura di), Etiche antiche etiche moderne. Temi di discussione, il Mulino, Bologna, 2010 pp.87-88
  27. ^ Stefano Bacin (a cura di), Etiche antiche etiche moderne. Temi di discussione, il Mulino, Bologna, 2010 p.90

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

  • Platone, Repubblica, Laterza, Roma-Bari, 1997
  • Stefano Bacin (a cura di), Etiche antiche etiche moderne. Temi di discussione, il Mulino, Bologna, 2010
  • Maria Chiara Pievatolo, "La Repubblica di Platone", 25 maggio 2016 http://btfp.sp.unipi.it/dida/resp/index.xhtml

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

"E così i padri e tutti quelli che hanno cura di qualcuno, ammonendo dicono che bisogna essere giusti, ma non elogiano la giustizia per se stessa, bensì la buona reputazione che ne deriva: e questo perché per tale apparenza di giustizia la buona fama ottenga loro cariche pubbliche e matrimoni e tutti quei vantaggi che poco fa Glaucone ha elencati e che vengono al giusto per la sua buona reputazione."

(Adimanto, citato in Platone, Repubblica, 363a)

Il discorso di Adimanto nel Libro II della Repubblica di Platone[modifica | modifica wikitesto]

Adimanto fa il proprio discorso nel Libro II della Repubblica intervenendo subito dopo Glaucone. Decide di dare man forte alla teoria del fratello, secondo la quale la giustizia è solo una condizione esteriore, sempre pronta ad essere messa in questione[1]. Adimanto si concentra sull'educazione dei giovani alla giustizia, spesso fuorviante. Secondo lui, infatti, sono proprio gli elogi della giustizia, da parte dei padri e dei poeti, a spingere verso l'ingiustizia e rafforzare nei giovani il pleonektein (πλεονεκτεῖν, desiderio del singolo di soverchiare sugli altri), su cui Glaucone aveva organizzato l'intera natura umana e così il proprio discorso.

Padri e poeti[modifica | modifica wikitesto]

Quando i padri raccomandano ai figli di essere giusti, in realtà non tessono le lodi della giustizia come bene spirituale, ma elogiano la buona reputazione che ne deriva, il prestigio sociale che si può guadagnare apparendo giusti. Il loro insistere sulla materialità delle conseguenze che una vita giusta può portare, spinge in realtà all'ingiustizia, perché fa nascere nei figli l'amore per il potere e per la ricchezza.

I padri per avvalorare i loro elogi, si servono anche dei racconti dei poeti: secondo questi gli dèi concedono ai giusti "beni copiosi"[2] per i quali di solito si arriva a compiere ingiustizia.

Adimanto attacca quindi i poeti perché, in nome degli dèi, assicurano ai giusti grandi banchetti e un'ebbrezza eterna dopo la morte e, senza esitazioni, dicono che "la temperanza e la giustizia sono belle, si, ma difficili e gravose" [3] mentre l'ingiustizia è facile da conseguire e brutta solo per l'opinione e per la legge. I poeti inoltre, come la gente comune, tendono a disdegnare i più umili e poveri, anche se sono brave persone, e a concentrare le loro attenzioni sui malvagi, se questi sono ricchi o potenti.

Gli dèi nel discorso di Adimanto[modifica | modifica wikitesto]

I poeti quindi, secondo Adimanto, veicolano un'immagine sbagliata degli dèi: mostrano che la divinità ha riservato vite orribili e piene di sciagure a uomini buoni e vite felici a uomini malvagi. Gli dèi sono anche descritti come corruttibili: lo stesso Omero fa riferimento ad indovini che promettono di poter recar danno ad un nemico (giusto o ingiusto che sia) con incantesimi che il ricco non avrà problemi a pagare. Così facendo, dice Adimanto, "sia i vivi che i morti hanno modo di essere assolti e purificati da atti d'ingiustizia [...] mentre tremendi castighi attendono chi non fa sacrifici".[4]

Tutto sembra voler dire che gli uomini non devono preoccuparsi del giudizio degli dèi sulle loro azioni, perché questo è spesso arbitrario e se non altro influenzabile con i sacrifici. La morale non può quindi servirsi della paura dei castighi divini come non può servirsi della religione.[5]

Conclusioni[modifica | modifica wikitesto]

I discorsi dei padri e le storie raccontate dai poeti porteranno i giovani, soprattutto quelli più intelligenti e dotati[6], a scegliere la vita dell'ingiustizia, perché questi saranno i primi a capire che, se riusciranno a mantenere, con l'inganno e con la violenza, una patina di giustizia intorno a loro, potranno avere "una vita degna di un dio"[7] ed essere davvero felici. Una volta capito che per ottenere le conseguenze della giustizia basta fingere di possederla, risparmiandosi la "strada lunga, aspra e scoscesa"[8] che percorre chi vuol essere giusto davvero, è difficile scegliere di rimanere giusti. Coloro che lo fanno, afferma perciò Adimanto, sono o persone che per "divina natura" [9]ne provano ripugnanza oppure persone ricche di scienza (epistème)[1] che hanno scelto per questo la giustizia[10].

Adimanto arriva quindi a concordare con Glaucone: colui che desidera cariche pubbliche prestigiose e vantaggi, deve solo apparire giusto. Al discorso del fratello aggiunge che sono proprio l'educazione e la religione, basate entrambe sui racconti dei poeti, a far nascere nei giovani il desiderio di ingiustizia.

Dato che il discorso di Adimanto è strettamente legato all'educazione, non è un caso che il Socrate platonico parli proprio con lui quando decide quale deve essere la formazione dei guardiani nella città ideale, sempre nel Libro II. Platone, in un certo senso, riconosce la tesi di Adimanto e decide che, se le favole che vengono raccontate sugli dèi sono fuorvianti e non adatte ai bambini, perché piene di violenza e metafore, è il caso di raccontarne di diverse[11]. È proprio con Adimanto che il Socrate platonico arriva a decidere una legge sulla divinità, per evitare che gli dèi vengano visti come autori del male: le pene divine devono essere riservate solo a chi si è effettivamente comportato in modo ingiusto e devono essere provvidenziali, non fini a se stesse. Con questa legge, che dovrà ispirare gli autori delle nuove favole per bambini, quello che per Adimanto portava all'ingiustizia non potrà mai sorgere in Kallipolis.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ a b Il secondo libro: la sfida di Glaucone, su btfp.sp.unipi.it.
  2. ^ Platone, Repubblica, 363a10
  3. ^ Platone, Repubblica, 364a3
  4. ^ Platone, Repubblica, 365a3
  5. ^ B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari, 1997, nota 16, Libro II
  6. ^ L'idea che le persone più dotate siano anche le più corruttibili ritorna anche nel Libro VI, quando Platone parla della natura filosofica. Una persona naturalmente più intelligente delle altre, se educata nel modo sbagliato, sarà capace di provocare grandi danni allo stato e ai privati, mentre una natura mediocre, non sarà mai in grado di fare nulla di importante, né in positivo né in negativo. v. Platone, Repubblica, 495b
  7. ^ Platone, Repubblica, 365c1
  8. ^ Platone, Repubblica, 364d3
  9. ^ Platone, Repubblica, 366c8
  10. ^ Nel dialogo, il Socrate platonico giocherà con questa divisione fatta da Adimanto, dicendo a lui e al fratello Glaucone "c'è sicuramente qualcosa di divino in voi se non credete che l'ingiustizia è migliore della giustizia, pur sapendo parlare così". Sembra dire che loro devono per forza avere una natura divina che li spinge a preferire comunque la giustizia, perché non possiedono certamente l'epistème. v. Platone, Repubblica, 368b
  11. ^ Platone, Repubblica, 378b

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]

Fin dalle prime battute, viene posto l'accento sulla forza, in un certo senso rappresentata da Polemarco, anche per l'etimologia del proprio nome (Polemarchos letteralmente 'signore della guerra')[1] e sul rapporto della forza con la persuasione. Il suo discorso, nel Libro I della Repubblica, sarà ampiamente confutato dal Socrate platonico.

Il discorso di Polemarco[modifica | modifica wikitesto]

Giustizia è restituire il "dovuto".[modifica | modifica wikitesto]

Polemarco è l'erede del padre Cefalo nella discussione con cui si apre la Repubblica, come dice lo stesso Socrate[2].Cefalo si allontana per fare dei sacrifici e Polemarco rimane a sostenere la sua teoria, anche se le darà una sfumatura diversa: il padre aveva sostenuto che la giustizia è essere sinceri e restituire i debiti che si hanno verso gli uomini e verso gli dei, e che solo così facendo si può andare con animo sereno verso la morte; quando dl figlio Polemarco prende il suo posto, afferma, riprendendo il padre e la tradizione[3], che giustizia è "ridare a ciascuno ciò che è dovuto" (opheilomenon)[4][5]. È una definizione più generale di quella che aveva dato il padre, perché non si basa più su singole azioni[6], ma vuole essere universale. Segna quindi lo spostarsi della discussione verso un ambito più filosofico.

Socrate a questo punto ripropone lo stesso caso che aveva messo in confusione Cefalo: giustizia è sempre rendere ciò che è dovuto, anche nel caso in cui dovessimo restituire un'arma ad un nostro amico diventato pazzo dopo avercela prestata?[7]

Di fronte a questa possibilità, Polemarco modifica la propria idea di giustizia: in quel caso, restituire l'arma sarebbe fare ingiustizia, perché gli amici sono tenuti "a fare del bene agli amici"[8] e del male ai nemici[9]. Con questa precisazione, il "dovuto" cambia connotazione: non equivale più vale a restituire i debiti, come invece era per Cefalo, ma a dare ciò che spetta o si addice (prosekon)[10] agli amici e ai nemici[5].

Giustizia come téchne[modifica | modifica wikitesto]

Se compito della giustizia è dare a ciascuno ciò che gli si addice, la giustizia, come afferma Socrate, sembra essere un'arte. Polemarco concorda su questo punto, e dice che la giustizia serve soprattutto nelle guerre e nelle alleanze, perché in quell'ambito permette di giovare agli amici e danneggiare i nemici[11]. Nelle restanti attività la giustizia così intesa sembra inutile, perché c'è sempre un'arte migliore di essa per svolgerle[12][13]. Polemarco, condotto da Socrate, alla fine arriva alla conclusione che la giustizia appare come un'arte utile solo per custodire le cose, non per servirsene e che è comunque un'arte particolare, perché, a differenza delle altre, non ha capacità di opposti[14]: una persona giusta, "abile a custodire denaro" non può essere abile anche a rubarlo, perché in quel caso cesserebbe di essere giusta[15].

L'apparenza di onestà[modifica | modifica wikitesto]

Polemarco è confuso dalle confutazioni di Socrate, ma continua a mantenere la propria teoria. La sua definizione di giustizia, però, si porta dietro anche un'altra debolezza: è impossibile dire con certezza se le coloro che crediamo onesti, e che noi trattiamo come amici, lo siano davvero. Come gli fa notare Socrate, spesso agli uomini capita di credere oneste persone che non lo sono, o di fare il contrario. Coloro che fanno questo sbaglio, non potrebbero essere considerati giusti se seguissero la giustizia così come la intende Polemarco, perché danneggerebbero persone oneste e farebbero del bene a persone malvagie[16]. Polemarco arriva a concordare con lui: la giustizia prevede quindi un lavoro preliminare: si deve mettere in questione l'onestà delle persone che ci circondano, per arrivare a considerare amici sono coloro veramente onesti e decidere di fare loro del bene.

Danneggiare i nemici[modifica | modifica wikitesto]

Polemarco è ancora convinto che il giusto, così come fa del bene agli amici onesti, debba danneggiare i nemici disonesti. Socrate introduce a questo punto una variante rispetto alla morale tradizionale: recar danno ad una persona è sbagliato in ogni caso, perché la renderà solo più ingiusta[5][17]. Quando si danneggia una persona o un animale, lo si danneggia nella virtù o eccellenza (areté[18]) che gli è propria. Se la giustizia è virtù umana, gli uomini che subiscono danno diventano per forza più ingiusti, e, come osserva Socrate, con la giustizia non si possono formare degli ingiusti. La tesi di Polemarco è così confutata: la massima "è giusto giovare agli amici e danneggiare i nemici"[19] è attribuita addirittura a coloro che hanno realizzato "l'ingiustizia assoluta"[20] e cioè i tiranni.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Etimologia: polemarco, su etimo.it.
  2. ^ Platone, Repubblica, 331e1
  3. ^ Riprende il poeta lirico greco antico Simonide (Platone, Repubblica, 331d6)
  4. ^ Platone, Repubblica, 331e3
  5. ^ a b c La definizione di Polemarco: dall'etica tradizionale alla tirannide (331d-336a), su btfp.sp.unipi.it.
  6. ^ B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1997, nota 28, Libro I
  7. ^ È una confutazione del tipo "et idem non": se il seguire quest'idea di giustizia, in un contesto particolare, ci rende ingiusti, questa teoria non può essere universale. B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1997, nota 23, Libro I
  8. ^ Platone, Repubblica, 332a10
  9. ^ Il principio 'fare del bene agli amici e del male ai nemici' era molto radicato nella tradizione morale greco antica, in particolare in quella nobiliare. v.B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1997, nota 34, Libro I
  10. ^ B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1997, nota 30, Libro I
  11. ^ Platone, Repubblica, 332e6
  12. ^ "E nel disporre mattoni e pietre è il giusto un socio più utile e migliore del muratore?" v. Platone, Repubblica, 333b4.
  13. ^ L'argomentazione di Socrate in questo punto è stata considerata ingannevole v. B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1997, nota 36, Libro I
  14. ^ La definizione di Polemarco: dall'etica tradizionale alla tirannide (331d-336a), su btfp.sp.unipi.it.
    «Un medico [...] ha sia le competenze per guarire, sia quelle per avvelenare»
  15. ^ Afferma Socrate ironicamente: "una specie di ladro risulta dunque, a quanto sembra, il giusto". Platone, Repubblica, 334a11
  16. ^ Platone, Repubblica, 334e
  17. ^ L'argomentazione fornita da Socrate in questo punto è spesso stata considerata discutibile, perché non è detto che danneggiare qualcuno equivalga al danneggiarlo nella propria virtù. v. B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1997, nota 40, Libro I
  18. ^ areté in Vocabolario - Treccani, su treccani.it.
  19. ^ Platone, Repubblica, 336a
  20. ^ Platone, Repubblica, 344a5

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]