Sayf bin Sultan

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Sayf bin Sultan
Sultano di Mascate
In carica1692 –
4 ottobre 1711
PredecessoreBil'arab bin Sultan
SuccessoreSultan bin Sayf II
Morte4 ottobre 1711
Luogo di sepolturaCastello di Rustaq
Dinastiaal-Ya'arubi
PadreSultan bin Sayf
FigliSayyid Sultan
ReligioneMusulmano ibadita

Sayf bin Sultan (in arabo سيف بن سلطان اليعربي?; ... – 4 ottobre 1711), è stato sultano di Mascate dal 1692 al 1711.

La sua marina ottenne importanti vittorie sui portoghesi in Africa orientale dove la presenza del sultanato di Mascate si affermò definitivamente sulla costa.

Primi anni[modifica | modifica wikitesto]

Sayf bin Sultan era il figlio del secondo imam della dinastia Yaruba, Sultan bin Sayf. Alla morte di suo padre, nel 1679, suo fratello Bil'arab divenne imam. Successivamente Sayf ebbe degli scontri con il nuovo sovrano, radunò le sue forze e assediò Jabrin. Dopo la morte di Bil'arab, avvenuta tra il 1692 e il 1693, gli succedette.[1]

Regno[modifica | modifica wikitesto]

Il forte di Rustaq.

Sayf bin Sultan investì molto nel miglioramento dell'agricoltura, costruendo aflaj in molte parti dell'interno per fornire acqua e piantando palme da datteri nella regione di Al Batinah per incoraggiare gli arabi a lasciare le regioni interne e stabilirsi lungo la costa.[2] Costruì nuove scuole.[3] Fece del forte di Rustaq la sua residenza, aggiungendo la torre del vento del Burj al Riah.[4]

Sayf proseguì la lotta contro i portoghesi sulla costa dell'Africa orientale.[2] Nel 1696 le sue forze attaccarono Mombasa, assediando 2 500 persone che si erano rifugiate a Fort Jesus. L'assedio del forte terminò dopo 33 mesi quando i tredici sopravvissuti alla carestia e al vaiolo si arresero.[5] Poco dopo gli omaniti conquistarono Pemba, Kilwa Kisiwani e Zanzibar.[2] A quel punto erano la potenza dominante sulla costa.[5] I portoghesi riuscirono a mantenere solamente le loro colonie a sud di capo Delgado, nell'attuale Mozambico.

L'espansione del potere degli omaniti incluse la fondazione del primo insediamento su larga scala a Zanzibar.[6] Sayf nominò governatori arabi nelle città degli stati della costa prima di tornare in patria. Più tardi, molti di questi dovettero passare sotto il controllo di Muhammed bin Uthman al-Mazrui, governatore di Mombasa, e dei suoi discendenti, gli al-Mazrui, che fecero solo un riconoscimento nominale della sovranità del sultanato di Mascate.[7] Sayf bin Sultan incoraggiò la pirateria contro il traffico mercantile di India, Persia e persino dell'Europa.[8]

Morte ed eredità[modifica | modifica wikitesto]

Morì il 4 ottobre 1711. Fu sepolto nel forte di Rustaq in una bella tomba, successivamente distrutta da un generale wahhabita.[8] Alla sua morte possedeva una grande ricchezza che si dice includesse 28 navi, 700 schiavi e un terzo degli alberi da dattero dell'Oman. Gli succedette il figlio Sultan.[2] Sayf si guadagnò il titolo di "legame della Terra" o "catena della Terra" per i benefici che aveva apportato alla popolazione del suo regno.[3][4] Secondo Samuel Barrett Miles:

«L'imam Sayf bin Sultan era il più grande dei principi di Yaareba, e in nessun momento prima o dopo l'Oman è stato così famoso, potente o prospero come sotto il suo dominio. L'ambizione e l'amore per la gloria, combinati con la brama di ricchezza, erano le sue passioni dominanti, e nella ricerca di questi era senza scrupoli e instancabile quanto era capace ed energico. [...] Sentiamo poco negli storici locali dei problemi interni e delle guerre durante il suo regno; possiamo quindi dedurre che l'imam avesse l'abilità e il tatto di deviare gli spiriti più irrequieti e ambiziosi da brogli tribali, gelosie e dissensi impiegandoli in spedizioni piratesche e di altro tipo e incoraggiandoli a avventurarsi nelle loro operazioni commerciali in regioni lontane, per questo è fuori discussione che, sotto i suoi auspici, il commercio dell'Oman si è notevolmente ampliato e sviluppato.[8]»

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Ochs 1999, p. 106.
  2. ^ a b c d Thomas 2011, p. 222.
  3. ^ a b Plekhanov 2004, p. 49.
  4. ^ a b Ochs 1999, p. 258.
  5. ^ a b Beck 2004.
  6. ^ Limbert 2010, p. 153.
  7. ^ Miller 1994, p. 9.
  8. ^ a b c Miles 1919, p. 225.

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]