Discussioni utente:Giuliano.Latini

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La prima volta che Giuliano Latini (Asmara 24/3/1941) ha iniziato a viaggiare per il mondo è stato a bordo di una nave salpata dal porto di Massaua e diretta in Italia. Come in Tempo di uccidere di Ennio Flaiano (anche se in occasioni e tempi diversi), l’Africa gli rimase incisa sulla pelle – forse per un equivoco, forse per debolezza, forse per scelta – e così anni dopo ci tornò, questa volta come inviato di un’agenzia fotografica e con la sua Leica ha raccontato per circa un decennio storie ufficiali, paesaggi segreti, volti privati di un Congo che andava a morire. Al termine di quell’esperienza professionale, ha cominciato il suo percorso in un’arte visiva non meno nobile, la Grafica, come direttore creativo per diverse aziende. Ma la fotografia è rimasta, diciamo così, sempre il suo “sogno nel cassetto” o, forse, il suo “scheletro nell’armadio” e così, quella sua antica passione ha ripreso il sopravvento, è uscita nuovamente allo scoperto, ha rovesciato cassetti e spalancato armadi e ora si concede in mostra. Se è vero che le fotografie, come i nomi, spesso derivano da una scelta provvisoria ma, a differenza dei nomi, non si possono cambiare, ecco allora che quelle scelte provvisorie diventano un racconto, una storia articolata che descrive il mondo e i suoi paesaggi, scavando nella materia come lo scalpellino dello scultore, liberando la luce dai corpi in cui si trova imprigionata per restituirci tutto lo spessore dell’animo umano e lo splendore dell’anima del mondo. Questa, in sintesi l’impressione che suscita la fotografia di Giuliano Latini: una scelta provvisoria che incide definitivamente la pelle di chi guarda. È così allora che in modo disperato e imprescindibile i luoghi comuni dell’apparenza – strade, volti, oggetti, angoli di natura, corpi – ci vengono incontro in tutta la loro energia per mostrarci quanto il mondo si serva di loro e della loro assenza. Anche se negli oggetti “soli”, nei paesaggi “spogli” quello che si coglie non è il vuoto, perché per Giuliano Latini l’assenza è essenzialmente “attesa”, un vuoto che pulsa e preme per essere riempito, mai uno spazio che si svuota. In quelle fotografie urge – in modo quasi straziante – la ricerca dell’Essere, in un pericolante equilibrio di forme e sostanza. E infatti i corpi colti dallo scatto improvviso sembrano vacillare ma sempre con quiete, senza ansia, senza horror vacui, senza la paura di precipitare nel vuoto, perché sono come sospesi ma allo stesso tempo protetti, maturi, pieni e quindi stabili, sempre pronti a recuperare l’equilibrio sfuggito. C’è chi ama ricordare che l’equilibrio migliore è composto solo da immagini della vita quotidiana: il mondo quotidiano è l’equilibrio che ci sorregge e le fotografie di Giuliano Latini raccolgono magnificamente questo spazio dell’esistenza – quella insignificante, quella lontana o sfuggente, quella carica di materia luminosa, che, inconsapevolmente, ci accarezza coinvolgendo tutti i sensi. Ed è proprio nell’urgenza del contatto che le fotografie di Giuliano Latini documentano la “presenza”, l’occupazione dello spazio che si offre a chi osserva, perché queste sono immagini che sanno rubare sguardi pieni, sanno aggredire la luce e le ombre ma, soprattutto, sanno accogliere le forme. I volti e i corpi si sgranano, le forme – esaltate dalla grana della pellicola e dal bianco e nero – si agitano in un serrato corpo a corpo che ce le rende vicine, palpabili, aderenti alla nostra pelle prima ancora che ai nostri occhi. Sono volti e corpi appena usciti dal grembo umido della madre terra e subito in atto di entrare nello spazio occupato dal nostro sguardo, perché mai e poi mai vorrebbero anche solo abbozzare un’assenza intenzionale: ci tengono molto a essere visti a essere presenti a essere toccati. Nei contorni e nelle luci che evidenziano il “particolare” emergono linee che si diramano a reticolo, formando intrichi geometrici di punti prolungati all’infinito che ci obbligano a gettare lo sguardo fin oltre ai rigidi confini fisici dei bordi, delle cornici, degli inconsapevoli ma necessari supporti che accolgono le fotografie. Le immagini di Giuliano Latini ci invitano a proseguire oltre e ci mostrano quello che l’obiettivo (debole nella sua finitezza solo tecnica) non ha potuto comprendere in sé. Sono racconti che ci dicono anche il non-detto, proprio come un verso poetico, fisicamente finito nell’emissione vocale dei suoni ma artisticamente prolungato nell’emozione vibrante dell’ascolto. E proprio come un verso poetico, ogni foto di Giuliano Latini non ferma l’ombra ma libera la luce, non cela sotterfugi dell’anima ma mette a nudo la vita, ruvida e secca, come il volto di un vecchio, disarmante e sincera, come lo sguardo di un bimbo. Antonio Strepparola