Verbalismo

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Il verbalismo è quel comportamento comunicativo per cui nel ragionare, nell’esporre, nell’insegnare si dà importanza più alla forma delle parole che alle idee o alla realtà delle cose.

«Da troppo tempo ormai l’abuso del linguaggio, e certi modi di dire vaghi e privi di senso, passano per dei misteri del sapere; e parole difficili e male applicate che significano assai poco o nulla, sono andate acquistando per prescrizione un tal diritto di venire prese falsamente come espressioni della più profonda sapienza ed alta speculazione, che non sarà facile persuadere coloro che parlano questo linguaggio, o che lo sentono parlare, del fatto che esso non è nient’altro che un mezzo per nascondere la propria ignoranza e per ostacolare la vera conoscenza. […] Spesso accade che gli uomini, anche quando vorrebbero dedicarsi ad un’attenta considerazione, di fatto applicano i loro pensieri più alle parole che alle cose. Anzi, molte parole essendo apprese prima che si conoscano le idee che rappresentano, accade che certuni, non solo bambini, ma uomini, usino molte parole non diversamente dai preconcetti, solo perché le hanno imparate, e si sono abituati a quei suoni. Ma, di quanto le parole abbiano un uso e un significato, di tanto vi sarà una connessione costante fra il suono e l’idea, e traccia del fatto che l’uno sta per l’altra: mancando il qual modo di applicarle, altro esse non sono che insignificante rumore.[1]»

L'accusa polemica di John Locke risalta nell'epoca che segna il progresso della scienza che ormai pretende che il linguaggio sia rigoroso e che dia un'adeguata rappresentazione della realtà. Occorre quindi una scienza del linguaggio, la linguistica, che abbatta ogni ipocrita verbalismo.

Il verbalismo dei sofisti[modifica | modifica wikitesto]

Nell'età antica il problema dell'efficacia comunicativa del linguaggio si era incentrato sulla retorica politica e sul rapporto metafisico tra linguaggio e realtà, tra linguaggio e ragionamento. È questa l'età dei Sofisti e della dura polemica di Socrate e Platone contro i retori "cattivi maestri", contro il loro amorale cinismo sull'uso del linguaggio ambiguo e contraddittorio come strumento politico per la conquista del potere.

Secondo Protagora, ciò che conta non è più la ricerca dell'impossibile verità ma il filosofo diventa il "propagandista dell'utile", ossia colui che, grazie alle sue doti oratorie, indirizza le scelte verso la pubblica utilità. Caso eclatante è il suo invito «di rendere migliore il discorso peggiore» - ma anche “il peggiore nel migliore”, tipico dell’antilogia.

Le antilogie è il titolo dell'opera principale di Protagora, ovvero "discorsi antitetici", dove ad ogni argomento corrisponde il suo contrario, in modo da dimostrare come la verità sia impossibile da raggiungere proprio nell'ambito della ragione stessa che ha in se stessa l'errore, per cui è impossibile dimostrare qualsiasi verità razionalmente. Interviene allora la capacità oratoria di trasformare l'opinione meno utile in quella più utile per chi gestisce il potere politico. Di conseguenza, l'arte della retorica ha una funzione politico-educativa volta a favorire il "bene comune" così come l'intende chi governa. [2].

Tale posizione è stata vista come il fondamento dell'eristica, ossia l'arte del disputare a parole, al di là della veridicità delle proprie basi concettuali di partenza. Accusa questa spesso rivolta ai sofisti come praticanti del verbalismo, il "mestiere della parola" di cui facevano uso per legittimare il loro servilismo verso i potenti. I sofisti, potendo vantare delle doti oratorie, erano in grado di convincere, secondo il volere dei loro protettori, la maggioranza dei cittadini [3] su cosa fosse utile e cosa no.

Per Gorgia di fronte al dramma della vita l'unica consolazione è la parola, che acquista valore proprio perché non esprime la verità ma l'apparenza. La parola è magica: pur avendo un corpo piccolissimo è la grande dominatrice dell'uomo.

«La parola è una gran dominatrice, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà [4] [... essa è] «un potente signore, che col più piccolo e impercettibile dei corpi riesce a compiere le imprese più divine»[5]

Quando non è il caso che domini la vicenda umana, è la parola che esprime al meglio quelle passioni che guidano la vita dell'uomo,poiché essa è in grado di evocarle e modificarle così da sottomettere chiunque. Essa è dunque onnipotente e addirittura in grado di creare un mondo perfetto dove vivere.

I danni del verbalismo nel discorso filosofico[modifica | modifica wikitesto]

«La ricerca della verità è possibile soltanto se parliamo chiaramente e semplicemente ed evitiamo tecnicismi e complicazioni non necessari. Dal mio punto di vista, mirare alla semplicità e alla chiarezza è un dovere morale degli intellettuali: la mancanza di chiarezza è un peccato e la pretenziosità è un delitto. [6]»

Chiunque tratti verbalmente un argomento tecnico-scientifico difficilmente incapperà nel verbalismo: così non è per la comunicazione filosofica che per quanto ci si sforzi a mantenere concreto il suo vocabolario non potrà nel confronto dialogico opporre all'interlocutore fatti né effetti tecnici ma soltanto parole che variano nel loro significato a seconda del filosofo che le ha usate. Perciò non è pensabile che la filosofia si doti di un suo specifico vocabolario o che possa seguire un preciso protocollo nell'insegnamento tale da renderlo universalmente comune. Infatti «la filosofia è la sua propria pedagogia, essa non esiste realmente che nell’atto di insegnare e non è altro, in gran parte, che l’attività di risveglio della coscienza al senso del pensare: tutti i contenuti che una lezione di filosofia può avere da trasmettere – come la presa di coscienza di teorie, la scoperta e l’analisi di testi, l’utilizzazione di documenti – hanno senso solo in quanto obbedienti ad un disegno unitario: la scoperta da parte degli allievi, attraverso l’esempio del loro docente e con il suo aiuto, della necessità imperativa, per tutta l’esistenza umana, di imparare a pensare e a riflettere» [7]

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ John Locke, Saggio sull’intelligenza umana, Epistola al lettore e III, 7
  2. ^ N. Abbagnano, G. Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia, 1999, p.109.
  3. ^ Bisogna tener conto che ci si riferisce a le poleis, le città-stato dove vigeva un regime democratico come quello ateniese.
  4. ^ Gorgia, Encomio di Elena, 8
  5. ^ Diels-Kranz, I frammenti dei presocratici, 82B11
  6. ^ Karl Popper, La scienza la filosofia e il senso comune, Armando Editore, 2005 p.27
  7. ^ Salvatore Costantino, Il danno del verbalismo nell'insegnamento della filosofia, Università del Salento, 2009, p.107