Utente:Marta.zanin/Sandbox

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Intraducibilità L’intraducibilità è la proprietà di un testo o di un enunciato per cui non esiste un equivalente in un’altra lingua. Un testo considerato intraducibile rappresenta una lacuna o un vuoto lessicale, termine che indica la difficoltà nel raggiungere la cosiddetta traduzione perfetta e che fa riferimento all’esistenza di concetti e parole talmente interconnessi tra loro da renderne impossibile la traduzione. Alcuni scrittori ritengono che ogni lingua porti con sé nozioni e concetti strettamente legati alla cultura e all'identità nazionale. Brian James Baer afferma che l’intraducibilità è spesso considerata dalle nazioni una prova del genio nazionale, citando Alexandra Jaffe: “Quando i traduttori parlano di intraducibilità, spesso rafforzano l’idea che ogni lingua abbia un proprio “genio”, un’ “essenza” che la distingue dalle altre lingue e che riflette lo "spirito" della propria cultura e della propria gente”. Il traduttore può comunque ricorrere a diverse strategie traduttive in modo tale da colmare il vuoto lessicale, dunque, l’intraducibilità non crea eccessivi problemi poiché il significato di un testo o di una parola può sempre essere tradotto, anche se in modo non perfetto dal punto di vista tecnico. Teorie La scuola di pensiero di cui Walter Benjamin è il massimo esponente presenta il concetto di “sacralità” in relazione alla traduzione di un testo, considerato intraducibile poiché significato e significante non possono essere separati. Questo concetto deriva dall’idea secondo cui la traduzione dovrebbe riuscire ad attenersi alla perfezione al testo originale. Questa teoria mette in mostra la natura paradossale della traduzione che, in quanto processo, diventa contemporaneamente necessaria ed impossibile. Ciò è dimostrato dall’analisi di Jacques Derrida sul mito di Babele, nome che implica confusione ma che è, allo stesso tempo, uno dei diversi modi per riferirsi a Dio. Derrida afferma che quando Dio condannò il mondo a parlare molteplici lingue, creò paradossalmente il bisogno e l’impossibilità della traduzione. Lo stesso Derrida ha avanzato un proprio concetto di intraducibilità, affermando in alcuni dei suoi primi lavori come La scrittura e la differenza e Margini della Filosofia che vi è un eccesso di significati intraducibili in letteratura e ciò non è risolvibile tramite l’utilizzo di sistemi chiusi o economizzando il linguaggio, “non vi è nulla che si possa fare per darle un senso”. Brian James Baer afferma che l’intraducibilità è spesso considerata dalle nazioni prova del genio nazionale. Se un testo letterario può essere facilmente tradotto probabilmente manca di originalità, le traduzioni, invece, possono essere considerate semplici imitazioni. Baer, citando Jean-Jacques Rousseau, definisce il vero genio come “ciò che crea tutto dal nulla”. Parafrasando ciò che dice Robert Frost riguardo la poesia (“La poesia è tutto ciò che si smarrisce nella traduzione”), Baer suggerisce che “si può definire identità nazionale tutto ciò che si smarrisce nel processo traduttivo”. Cita inoltre Alexandra Jaffe: “Quando i traduttori parlano di intraducibilità, spesso rafforzano l’idea che ogni lingua abbia un proprio “genio”, un’ “essenza” che la distingue dalle altre lingue e che riflette lo "spirito" della propria cultura e della propria gente”. Spesso ci si riferisce ad un testo o ad una espressione considerata “intraducibile” con il termine lacuna o vuoto lessicale. Ciò accade quando non esiste un perfetto equivalente di una parola o di una espressione appartenente alla lingua di partenza nella lingua di arrivo. Un traduttore può comunque ricorrere a diverse strategie traduttive per ovviare a questo problema. Da questo punto di vista l’intraducibilità o la difficoltà nel tradurre non creano eccessivi problemi, il significante può sempre essere tradotto sebbene richieda l’utilizzo di perifrasi, mentre è il significato che può risultare indescrivibile o difficile da comunicare. Strategie traduttive Le principali strategie utilizzabili in caso di lacune o vuoti lessicali sono le seguenti:

Adattamento L’adattamento, conosciuto anche come traduzione libera, è una strategia tramite la quale il traduttore sostituisce un termine legato culturalmente alla lingua del testo originale, dunque comprensibile solo ai parlanti della lingua di partenza, con un termine culturalmente legato alla lingua del testo di arrivo, comprensibile ai parlanti di quest’ultima. Ad esempio, nel fumetto belga Le avventure di Tintin, Milou, l’aiutante canino di Tintin, viene chiamato Snowy in inglese, Bobbie in olandese, Kuttus in bengali e Struppi in tedesco; anche i nomi dei due poliziotti, Dupont e Dupond, vengono tradotti diventando Thomson e Thompson in inglese, Jansen e Janssen in olandese, Jonson e Ronson in bengali, Schultze e Schulze in tedesco, Hernández e Fernández in spagnolo, 杜本 e 杜朋 (Dùběn e Dùpéng) in cinese, Dyupon e Dyuponn in russo e Skafti e Skapti in islandese. L’adattamento viene spesso utilizzato nelle traduzioni di poesie, testi teatrali e pubblicità.

Prestito Linguistico Il prestito linguistico è una strategia traduttiva tramite la quale il traduttore utilizza un termine o un' espressione del testo di partenza nel testo d’arrivo lasciandola invariata. Un prestito va scritto di norma in corsivo se non è considerato lemmatizzato nella lingua d'arrivo.

Calco linguistico Il calco è una strategia che consiste nel suddividere un’espressione in segmenti, i quali vengono tradotti individualmente nella lingua d’arrivo. Per esempio, la parola “grattacielo” è un calco morfologico dall'inglese “skyscraper”, dove “grattare” sta per “to scrape” e “cielo” sta per “sky”. Prima della creazione di questo termine, l'italiano non aveva una parola per indicare questo tipo di edifici metropolitani. La traduzione parola per parola può risultare comica, ma può rivelarsi un ottimo mezzo per conservare il più possibile lo stile originale, soprattutto quando il testo di partenza è ambiguo o indecifrabile dal traduttore.


Parafrasi La parafrasi, o perifrasi, è un procedimento di traduzione con il quale il traduttore sostituisce una parola del testo di partenza con un gruppo di parole, o con un’espressione, nella lingua d’arrivo. Un chiaro esempio di intraducibilità è dato dalla parola portoghese Saudade, che non ha un traducente preciso. Letteralmente significa “sentimento di nostalgico rimpianto, di malinconia, di gusto romantico della solitudine, accompagnato da un intenso desiderio di qualcosa di assente” (Treccani). Un esempio simile è la parola rumena dor, traducibile all’italiano come “nostalgia o mancanza di qualcuno o qualcosa che non c’è più o che momentaneamente non può esserci”. Un altro esempio di intraducibilità è rappresentato dalla parola olandese “gezellig”, che non ha un traducente preciso. Letteralmente significa “accogliente, divertente, gentile”, ma può anche indicare il tempo passato con le persone care, un incontro con un amico dopo tanto tempo o un senso di particolare affinità.

Note del traduttore Le note del traduttore, talvolta abbreviate in NdT o N.d.T., sono note (di norma a piè di pagina o a fine testo) che il traduttore aggiunge per fornire informazioni sui limiti della traduzione, sulla cultura del testo di partenza, o altre informazioni che considera utili. Tali note sono a volte permesse, e a volte perfino richieste, nelle prove di traduzione. Tuttavia, il ricorso a note è di norma visto come un'ammissione di fallimento da parecchi traduttori professionisti.

Esempi Registro Spesso, per motivi di peculiarità linguistica e/o culturale dei vari paesi, la traduzione di vocaboli riguardanti la famiglia può risultare difficile. La maggior parte delle parole thailandesi relative alla famiglia, per esempio, non può essere tradotta parola per parola e sono infatti necessarie ulteriori specificazioni nel metatesto per far sì che concetti propri della cultura thailandese non vadano perduti. Per esempio, in thailandese fratelli e sorelle si distinguono non per genere, ma per età. Il figlio maggiore è detto พี่ (pii), mentre i minori น้อง (non). Zii e zie sono definiti diversamente a seconda che siano fratelli maggiori o minori e a seconda che siano parenti da parte di madre o di padre. Ad esempio น้า (naa) identifica il fratello minore della sorella, e così via. Un fenomeno simile è osservabile nella lingua indonesiana, dove i pronomi possono essere utilizzati sia con un registro formale che con un registro informale o familiare. Tuttavia però, quest’ultimo registro non trasmette informalità e cordialità, specialmente nella lingua parlata. Invece di dire “"Anda mau pesan apa?", un/a cameriere/a sarà più propenso a dire "Bapak/Ibu mau pesan apa?" (lett. Il Sig./La Sig.ra cosa vuole ordinare?'). Pur essendo entrambe le espressioni educate, la seconda risulta più cordiale e garbata. Quando ci si rivolge a un amico o familiare invece, la maggior parte degli indonesiani preferisce utilizzare espressioni che sottolineano il grado di parentela (ad es. madre, padre, fratello, sorella), specialmente se ci si riferisce ad un membro più anziano della famiglia. Quando invece ci si rivolge a membri della famiglia più giovani, l’utilizzo di pronomi informali prevale.


Grammatica

Possessione

Tradurre il verbo “avere” da lingue quali arabo, finlandese, hindi, ungherese, irlandese, giapponese, gallese, ebraico e urdu, può creare non poche difficoltà. In queste lingue infatti, non esiste un verbo specifico che esprima il concetto di “avere”. Invece di dire “io ho qualcosa”, vengono utilizzate delle costruzioni diverse che indicano che quel “qualcosa” al quale ci si riferisce è posseduto da qualcuno, nel nostro esempio dal soggetto “io” . Perciò in turco si dirà “c'è qualcosa di mio”, mentre in ebraico “qualcosa è a me”. In russo, al posto di utilizzare la struttura “io ho”, si ricorre alla struttura “presso di me c'è”. In giapponese invece, il verbo “avere” viene spesso tradotto con i verbi iru (いる o 居る) e aru (ある o 有る). Il primo verbo si utilizza in riferimento a persone, animali o altri esseri viventi (escluse le piante) mentre il secondo, che possiede un significato più simile a quello del verbo “avere”, si usa con sostantivi inanimati. Per esprimere possesso, la lingua giapponese utilizza il verbo motsu (持つ), che significa “tenere”.

Forme verbali

In italiano non esiste un modo per esprimere alcune forme verbali come il finnico kirjoittaa e il polacco pisać (continuativo, corrispondente all’italiano “scrivere”) o kirjoitella e pisywać (verbi frequentativi traducibili come “prendere appunti di tanto in tanto”). Altri esempi sono hypätä e skoczyć (fare un unico salto) o hyppiä e skakać (saltare in modo continuativo; saltare da “A a B”.

A differenza dell’inglese, la lingua irlandese permette l’uso dell’imperativo al passivo. Si usa per proibire qualcosa esprimendo la disapprovazione della società per una determinata azione. Per esempio, Ná caithigí tobac esprime il divieto di fumare per più persone, tramite l’uso della seconda persona plurale. Ná caitear tobac invece si traduce con qui è vietato fumare, o “non si fuma”.

In italiano esistono tre tempi passati, ossia passato remoto, imperfetto e passato prossimo. Fui, ero, e sono stato si traducono in inglese con “I was”. Il passato remoto serve per indicare un’azione conclusa in un passato lontano e si trova spesso in narrazione, l’imperfetto serve per indicare azioni continuative o abituali nel passato, mentre il passato prossimo si usa per azioni connesse al presente e soprattutto con indicatori di tempo che indicano la prossimità dell’azione, come ad esempio stamattina. Al giorno d’oggi, soprattutto nel parlato, non c’è più una distinzione netta tra passato prossimo e remoto. Si tratta più di una differenza geografica. Nel nord Italia difficilmente si usa il passato remoto nella lingua parlata, mentre al sud spesso si usa anche quando sarebbe più corretto utilizzare il passato prossimo. La distinzione si mantiene in Toscana, che ne fa un tratto dialettale anche se i puristi della lingua insistono sull’applicazione corretta.

In italiano non ci sono forme verbali per indicare l'azione indiretta; per questo motivo bisogna ricorrere alla parafrasi. Nella grammatica finlandese, invece, c'è un intero gruppo di verbi derivati che denotano diversi gradi di azioni indirette. Ad esempio, sulla base del verbo “vetää” (tirare) possono formarsi una serie di verbi: vetää (tirare), vedättää (far si che qualcuno o qualcosa tiri); vedätyttää (far si che qualcuno o qualcosa faccia in modo che qualcuno o qualcosa tiri); vedätätyttää (far si che qualcuno o qualcosa faccia in modo che qualcuno o qualcosa faccia in modo che qualcuno tiri).


Finnico Italiano Traduzione o perifrasi della parte in grassetto
Hevonen vetää. il cavallo tira tirare
Ajomies vedättää. il cocchiere ordina al cavallo di tirare far si che qualcuno o qualcosa tiri
Urakoitsija vedätyttää. Il superiore richiede al cocchiere di ordinare al cavallo di tirare far si che qualcuno o qualcosa faccia in modo che qualcuno o qualcosa tiri
Yhtiö vedätätyttää l'azienda assegna al superiore il compito di richiedere al cocchiere di ordinare al cavallo di tirare. far si che qualcuno o qualcosa faccia in modo che qualcuno o qualcosa faccia in modo che qualcuno tiri


In hindi esistono costrutti simili che indicano il grado di azione indiretta. Karna significa fare, karaana significa “far fare a qualcuno”, karwaana “far in modo che una persona faccia fare qualcosa a qualcun altro.

Nella maggior parte delle lingue turche (turco, azero, kazako, ecc.) il suffisso verbale “mis”, permette di far capire che chi parla non ha né visto né sentito direttamente quello che sta raccontando, ma o è solo una congettura o l'ha sentito dire da qualcuno. Ad esempio, la parola turca Gitmiş! (turco) può significare sia “hanno detto che è uscito/a” sia “sembra che sia uscito/a”. Inoltre, questa struttura grammaticale viene spesso utilizzata quando si scherza o si raccontano storie. Anche nelle lingue quechua quasi ogni frase evidenzia tramite un clitico la fonte di informazione del parlante (e il grado di certezza dell’affermazione). L’enclitico -mi esprime la conoscenza personale (Tayta Wayllaqawaqa chufirmi, "il Sig. Huayllacahua è un autista – lo so di certo"); -si esprime una conoscenza per sentito dire (Tayta Wayllaqawaqa chufirsi, il Sig. Huayllacahua è un autista, o così ho sentito dire”); -chá esprime un’alta probabilità Tayta Wayllaqawaqa chufirchá, "il Sig. Huayllacahua è un autista, probabilmente”). Nel parlato quest’ultimo suffisso viene utilizzato anche per esprimere ciò che il parlante ha sognato o descrivere esperienze allucinogene. Lingue che sono molto diverse tra loro, come l’italiano e il cinese, richiedono un adattamento particolare. In cinese non esiste il tempo verbale in quanto tale, ma ci sono tre aspetti verbali. Il verbo “essere” italiano non ha un traducente in cinese. In questo modo il verbo “essere” seguito da un aggettivo (ad esempio “è blu”) in una traduzione verso il cinese sarà omesso. In cinese non esistono gli aggettivi come intesi in italiano, ma esistono invece dei verbi stativi. Se si parla di un luogo si usa il verbo “zai” (在), come nella frase “siamo in casa”. In altri casi si usa il verbo “shì” (是), come nella frase “sono il capo”. La maggior parte delle volte si omette semplicemente, ricorrendo a qualche altra struttura cinese. In una frase in cui il significato del verbo “essere” cambia, questa differenza si perde nella traduzione cinese. Anche dei semplici concetti come “sì” possono risultare difficili da tradurre in cinese, considerato che non esiste un equivalente, ma la risposta affermativa si esprime ripetendo il verbo della frase interrogativa (“Ce l’hai?” ”ce l’ho”).