Utente:Heriel/SandboxPolemarco

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Incipit della Repubblica[modifica | modifica wikitesto]

«Ieri scesi al Pireo con Glaucone, figlio di Aristone, per pregare la dea e nello stesso tempo per vedere come avrebbero celebrato la festa, dato che è la prima volta che la fanno. Mi sembrò davvero bella anche la processione della gente del posto, ma non appariva meno decorosa quella condotta dai Traci. Fatte le nostre preghiere e contemplato lo spettacolo, stavamo tornando in città quando Polemarco, figlio di Cefalo, avendo visto da lontano che ci incamminavamo verso casa, mandò di corsa il suo giovane schiavo per invitarci ad aspettarlo. E il ragazzo, afferratomi da dietro per il mantello, mi disse: "Polemarco vi prega di aspettarlo". Io mi voltai e gli chiesi dove fosse.
"Eccolo qui dietro che arriva", rispose. "Aspettatelo".
"Certo che lo aspetteremo!", disse Glaucone.
Poco dopo arrivarono Polemarco, Adimanto fratello di Glaucone, Nicerato figlio di Nicia e altre persone, che probabilmente tornavano dalla festa. Allora Polemarco disse: "Mi sembra che voi, Socrate, vi siate mossi per fare ritorno in città".
"Hai proprio ragione!", replicai.
"Ma non vedi", disse, "quanti siamo?" "Come no?"
"Allora", fece lui, "o siete più forti di costoro o rimanete qui".
"Non c'è ancora un'alternativa", obiettai, "ovvero se riusciamo a persuadervi che conviene lasciarci andare?"
"Potreste forse persuadere chi non vi presta ascolto?", replicò.
"Proprio no", disse Glaucone.
"E allora state certi che non vi ascolteremo".»

Polemarco è uno dei primi personaggi a fare la loro comparsa nel primo libro della Repubblica. È proprio lui a fermare Socrate e Glaucone, che stavano risalendo in città dal Pireo (porto principale di Atene e sede del potere navale e mercantile della città[1]) per convincerli a fermarsi a casa sua.

Fin dalle prime battute, viene posto l'accento sulla forza, in un certo senso rappresentata da Polemarco, anche per l'etimologia del proprio nome (Polemarchos letteralmente 'signore della guerra')[2] e sul rapporto della forza con la persuasione. Il suo discorso, nel Libro I della Repubblica, sarà ampiamente confutato dal Socrate platonico.

Il discorso di Polemarco[modifica | modifica wikitesto]

Giustizia è restituire il "dovuto".[modifica | modifica wikitesto]

Polemarco è l'erede del padre Cefalo nella discussione con cui si apre la Repubblica, come dice lo stesso Socrate[3].Cefalo si allontana per fare dei sacrifici e Polemarco rimane a sostenere la sua teoria, anche se le darà una sfumatura diversa: il padre aveva sostenuto che la giustizia è essere sinceri e restituire i debiti che si hanno verso gli uomini e verso gli dei, e che solo così facendo si può andare con animo sereno verso la morte; quando il figlio Polemarco prende il suo posto, afferma, riprendendo il padre e la tradizione[4], che giustizia è "ridare a ciascuno ciò che è dovuto" (opheilomenon)[5][6]. È una definizione più generale di quella che aveva dato il padre, perché non si basa più su singole azioni[7], ma vuole essere universale. Segna quindi lo spostarsi della discussione verso un ambito più filosofico.

Socrate a questo punto ripropone lo stesso caso che aveva messo in confusione Cefalo: giustizia è sempre rendere ciò che è dovuto, anche nel caso in cui dovessimo restituire un'arma ad un nostro amico diventato pazzo dopo avercela prestata?[8]

Di fronte a questa possibilità, Polemarco modifica la propria idea di giustizia: in quel caso, restituire l'arma sarebbe fare ingiustizia, perché gli amici sono tenuti "a fare del bene agli amici"[9] e del male ai nemici[10]. Con questa precisazione, il "dovuto" cambia connotazione: non equivale più vale a restituire i debiti, come invece era per Cefalo, ma a dare ciò che spetta o si addice (prosekon)[11] agli amici e ai nemici[6].

Giustizia come téchne[modifica | modifica wikitesto]

Se compito della giustizia è dare a ciascuno ciò che gli si addice, la giustizia, come afferma Socrate, sembra essere un'arte. Polemarco concorda su questo punto, e dice che la giustizia serve soprattutto nelle guerre e nelle alleanze, perché in quell'ambito permette di giovare agli amici e danneggiare i nemici[12]. Nelle restanti attività la giustizia così intesa sembra inutile, perché c'è sempre un'arte migliore di essa per svolgerle[13][14]. Polemarco, condotto da Socrate, alla fine arriva alla conclusione che la giustizia appare come un'arte utile solo per custodire le cose, non per servirsene e che è comunque un'arte particolare, perché, a differenza delle altre, non ha capacità di opposti[15]: una persona giusta, "abile a custodire denaro" non può essere abile anche a rubarlo, perché in quel caso cesserebbe di essere giusta[16].

L'apparenza di onestà[modifica | modifica wikitesto]

Polemarco è confuso dalle confutazioni di Socrate, ma continua a mantenere la propria teoria. La sua definizione di giustizia, però, si porta dietro anche un'altra debolezza: è impossibile dire con certezza se le coloro che crediamo onesti, e che noi trattiamo come amici, lo siano davvero. Come gli fa notare Socrate, spesso agli uomini capita di credere oneste persone che non lo sono, o di fare il contrario. Coloro che fanno questo sbaglio, non potrebbero essere considerati giusti se seguissero la giustizia così come la intende Polemarco, perché danneggerebbero persone oneste e farebbero del bene a persone malvagie[17]. Polemarco arriva a concordare con lui: la giustizia prevede quindi un lavoro preliminare: si deve mettere in questione l'onestà delle persone che ci circondano, per arrivare a considerare amici sono coloro veramente onesti e decidere di fare loro del bene.

Danneggiare i nemici[modifica | modifica wikitesto]

Polemarco è ancora convinto che il giusto, così come fa del bene agli amici onesti, debba danneggiare i nemici disonesti. Socrate introduce a questo punto una variante rispetto alla morale tradizionale: recar danno ad una persona è sbagliato in ogni caso, perché la renderà solo più ingiusta[6][18]. Quando si danneggia una persona o un animale, lo si danneggia nella virtù o eccellenza (areté[19]) che gli è propria. Se la giustizia è virtù umana, gli uomini che subiscono danno diventano per forza più ingiusti, e, come osserva Socrate, con la giustizia non si possono formare degli ingiusti. La tesi di Polemarco è così confutata: la massima "è giusto giovare agli amici e danneggiare i nemici"[20] è attribuita addirittura a coloro che hanno realizzato "l'ingiustizia assoluta"[21] e cioè i tiranni.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Leo Strauss, Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell'Occidente, Einaudi, Torino, 1998, p.178
  2. ^ Etimologia: polemarco, su etimo.it.
  3. ^ Platone, Repubblica, 331e1
  4. ^ Riprende il poeta lirico greco antico Simonide (Platone, Repubblica, 331d6)
  5. ^ Platone, Repubblica, 331e3
  6. ^ a b c La definizione di Polemarco: dall'etica tradizionale alla tirannide (331d-336a), su btfp.sp.unipi.it.
  7. ^ B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1997, nota 28, Libro I
  8. ^ È una confutazione del tipo "et idem non": se il seguire quest'idea di giustizia, in un contesto particolare, ci rende ingiusti, questa teoria non può essere universale. B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1997, nota 23, Libro I
  9. ^ Platone, Repubblica, 332a10
  10. ^ Il principio 'fare del bene agli amici e del male ai nemici' era molto radicato nella tradizione morale greco antica, in particolare in quella nobiliare. v.B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1997, nota 34, Libro I
  11. ^ B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1997, nota 30, Libro I
  12. ^ Platone, Repubblica, 332e6
  13. ^ "E nel disporre mattoni e pietre è il giusto un socio più utile e migliore del muratore?" v. Platone, Repubblica, 333b4.
  14. ^ L'argomentazione di Socrate in questo punto è stata considerata ingannevole v. B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1997, nota 36, Libro I
  15. ^ La definizione di Polemarco: dall'etica tradizionale alla tirannide (331d-336a), su btfp.sp.unipi.it.
    «Un medico [...] ha sia le competenze per guarire, sia quelle per avvelenare»
  16. ^ Afferma Socrate ironicamente: "una specie di ladro risulta dunque, a quanto sembra, il giusto". Platone, Repubblica, 334a11
  17. ^ Platone, Repubblica, 334e
  18. ^ L'argomentazione fornita da Socrate in questo punto è spesso stata considerata discutibile, perché non è detto che danneggiare qualcuno equivalga al danneggiarlo nella propria virtù. v. B.Centrone, Note a Platone, La Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1997, nota 40, Libro I
  19. ^ areté in Vocabolario - Treccani, su treccani.it.
  20. ^ Platone, Repubblica, 336a
  21. ^ Platone, Repubblica, 344a5

Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]

Voci correlate[modifica | modifica wikitesto]