Alessandro De Stefanis: differenze tra le versioni

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Nato da Benedetto De Stefanis e da Onoria Cortese, fu amico di [[Goffredo Mameli]] (cui somigliava fisicamente); al tempo in cui aderì agli ambienti patriottici democratici - che gravitavano intorno al Circolo Italiano - frequentava l'[[Università degli Studi di Genova|Università di Genova]] come iscritto alla facoltà di [[medicina]]. Lasciò gli studi per partecipare come volontario alla [[Prima guerra di indipendenza italiana|prima guerra di indipendenza]] e fu fra i combattenti della [[battaglia di Custoza (1848)|battaglia di Custoza]]. In questa circostanza fu premiato con una medaglia d'argento al valor militare per aver conquistato un'altura tenuta dalle forze nemiche.
Nato da Benedetto De Stefanis e da Onoria Cortese, fu amico di [[Goffredo Mameli]] (cui somigliava fisicamente); al tempo in cui aderì agli ambienti patriottici democratici - che gravitavano intorno al Circolo Italiano - frequentava l'[[Università degli Studi di Genova|Università di Genova]] come iscritto alla facoltà di [[medicina]]. Lasciò gli studi per partecipare come volontario alla [[Prima guerra di indipendenza italiana|prima guerra di indipendenza]] e fu fra i combattenti della [[battaglia di Custoza (1848)|battaglia di Custoza]]. In questa circostanza fu premiato con una medaglia d'argento al valor militare per aver conquistato un'altura tenuta dalle forze nemiche.


Ritornato a Genova, dichiaratamente repubblicano socialista, come scrisse, fu con altri giovani studenti fra gli animatori delle proteste contro l'armistizio dopo la sconfitta e disfatta di Novara, con migliaia di genovesi, esuli lombardo veneti ed anche stranieri, polacchi, francese che chiedevano la ripresa della guerra italiana e la difesa a oltranza della città.
Ritornato a Genova, dichiaratamente repubblicano socialista, come scrisse, fu con altri giovani studenti fra gli animatori delle proteste contro l'armistizio dopo la sconfitta e disfatta di Novara, con migliaia di genovesi, esuli lombardo-veneti ed anche stranieri, polacchi, francesi che chiedevano la ripresa della guerra italiana e la difesa a oltranza della città.


Il 1 aprile 1849 la città insorse contro il presidio militare comandato dal generale De Asarta ne nel combattimento che ne seguì in piazza dell'Aquaverde e dintorni, morirono nel giro di poche ore, trenta persone, 20 insorti, in massima parte falegnami e operai, ma anche di buona condizione e nella Guardia Nazionale, e dieci soldati e carabinieri. Il presidio si arrese nella notte. Ma il governo presieduto da un ministro di antico stampo sabaudo dopo lo scioglimento del Parlamento voluto dal nuovo re Vittorio Emanuele, che non volle però abolire le garanzie costituzionali, inviò contro la città ribelle, i cui difensori combattevano sotto la bandiera tricolore italiana senza lo stemma sabaudo, la Divisione del Generale Alfonso La Marmora che riuscì ad entrare peer un tratto di mura poco difesa e occupare il molo nuovo dalla Lanterna e da qui iniziare il bombardamento di Genova, creando terrore e poche vittime destinate ad aumentare in caso di mancata resa azionando i cannoni pesanti. Gli insorti, genovesi ma in gran parte anche esuli italiani di varie regioni e i soldati piemontesi che avevano disertato dal Presidio per amor patrio e non sparare sulle persone resistettero però sulle barricate per oltre due giorni, che portarono il numero dei morti e dei feriti, anche di parte governativa e regia, a cifre più alte.
Il 1º aprile 1849 la città insorse contro il presidio militare comandato dal generale De Asarta e nel combattimento che ne seguì in piazza dell'Aquaverde e dintorni morirono, nel giro di poche ore, trenta persone, 20 insorti, in massima parte falegnami e operai, ma anche di buona condizione e nella Guardia Nazionale, e dieci soldati e carabinieri. Il presidio si arrese nella notte. Ma il governo presieduto da un ministro di antico stampo sabaudo dopo lo scioglimento del Parlamento voluto dal nuovo re Vittorio Emanuele, che non volle però abolire le garanzie costituzionali, inviò contro la città ribelle, i cui difensori combattevano sotto la bandiera tricolore italiana senza lo stemma sabaudo, la Divisione del Generale Alfonso La Marmora che riuscì ad entrare per un tratto di mura poco difesa e occupare il molo nuovo dalla Lanterna e da qui iniziare il bombardamento di Genova, creando terrore e poche vittime destinate ad aumentare in caso di mancata resa azionando i cannoni pesanti. Gli insorti, genovesi ma in gran parte anche esuli italiani di varie regioni e i soldati piemontesi che avevano disertato dal Presidio per amor patrio e non sparare sulle persone resistettero però sulle barricate per oltre due giorni, che portarono il numero dei morti e dei feriti, anche di parte governativa e regia, a cifre più alte.


De Stefanis salì cogli altri patrioti della legione Universitaria (uniti rivoluzionari e moderati in quell'occasione in difesa della Città sotto la guida nominale di Lorenzo Pareto, di fatto guidati dal De Stefanis e gli altri studenti democratici che si erano riuniti in un corpo chiamato Artiglieria civica genovese.
De Stefanis salì cogli altri patrioti della legione Universitaria (uniti rivoluzionari e moderati in quell'occasione in difesa della città sotto la guida nominale di Lorenzo Pareto, di fatto guidati dal De Stefanis e gli altri studenti democratici che si erano riuniti in un corpo chiamato Artiglieria civica genovese.


Fu la battaglia dei forti sulle alture del Peralto con scontri violenti e morti anche accidentali per dirupi e fuoco talvolta amico. Nelle stesse ore il 5 aprile i soldati di linea, carabinieri e bersaglieri, i più però assedianti dal Bisagno, sotto la guida di Alessandro La Mamora fratello di Alfonso, poi sposato a dama genovese e moto in Crimea, vinta una debole resistenza fuori dalle mura cittadine fucilando i giovani difensori arresi, dilagarono per il sestiere di San Teodoro, saccheggiando e stuprando con ferocia, qui si' antigenovesi ma anche in odio agli esuli e ai polacchi che a Palazzo Doria l'indegno generale fece "passare a fil di spada". Lo sbarco dei soldati di marina della Princeton USA il cui comandante era amico del comandante della Guardia Nazionale e della rivolta, il piemontese di Chieri, Giuseppe Avezzana, esule del 1821, vissuto quasi trent'anni a New York ,fece a poco a poco cessare il bombardamento ma raffermò la resistenza, col contributo dell'arrivo a Genova la notte fra 5 e 6 aprile di Mameli e Bixio, giunti da Roma con un corpo armato, inizialmente destinato a sostenere la guerra ripresa da Carlo Alberto e subito finita nella disfatta di Novara. Un primo tentativo di tregua nel pomeriggio del 6 fu respinto dai combattenti e dallo stesso Avezzana e dai patrioti riuniti con lui in un Governo Provvisorio della Liguria, sorto in modo consimile a quelli toscani ed emiliani investiti in piena dalla furia austriaca con decine di fucilazioni. Solo a metà pomeriggio fu accettata la tregua di due giorni dando disposizione ai comandanti degli insorti più riconosciti e capace di far eseguire l'ordine e cessare il fuoco che era proseguito in giornata dall'una de dall'altra parte.
Fu la battaglia dei forti sulle alture del Peralto con scontri violenti e morti anche accidentali per dirupi e fuoco talvolta amico. Nelle stesse ore il 5 aprile i soldati di linea, carabinieri e bersaglieri, i più però assedianti dal Bisagno, sotto la guida di Alessandro La Marmora fratello di Alfonso, poi sposato a dama genovese e morto in Crimea, vinta una debole resistenza fuori dalle mura cittadine fucilando i giovani difensori arresi, dilagarono per il sestiere di San Teodoro, saccheggiando e stuprando con ferocia, qui si' antigenovesi ma anche in odio agli esuli e ai polacchi che a Palazzo Doria l'indegno generale fece "passare a fil di spada". Lo sbarco dei soldati di marina della Princeton USA il cui comandante era amico del comandante della Guardia Nazionale e della rivolta, il piemontese di Chieri, Giuseppe Avezzana, esule del 1821, vissuto quasi trent'anni a New York, fece a poco a poco cessare il bombardamento ma raffermò la resistenza, col contributo dell'arrivo a Genova la notte fra 5 e 6 aprile di Mameli e Bixio, giunti da Roma con un corpo armato, inizialmente destinato a sostenere la guerra ripresa da Carlo Alberto e subito finita nella disfatta di Novara. Un primo tentativo di tregua nel pomeriggio del 6 fu respinto dai combattenti e dallo stesso Avezzana e dai patrioti riuniti con lui in un Governo Provvisorio della Liguria, sorto in modo consimile a quelli toscani ed emiliani investiti in pieno dalla furia austriaca con decine di fucilazioni. Solo a metà pomeriggio fu accettata la tregua di due giorni dando disposizione ai comandanti degli insorti più riconosciuti e capaci di far eseguire l'ordine e cessare il fuoco che era proseguito in giornata dall'una e dall'altra parte.


Fu qui e cos' che De Stefanis fu colpito ad una gamba, in modo non grave, ma rinato isolato fuori dalla linea del fuoco e aiutato da alcuni contadini, fors'anche con maltrattamenti di soldati entrati nel cappano ma senza altre ferite. Fu così' avvisato il fratello di Alessandro, Filippo De Stefanis, medico militate nella Divisione che fece portare il congiunto ferito all'ospedale militare della Chiappella in San Teodoro per prestargli le cure necessarie.IL seguito è assolutamente simile alla mancata guarigione, aggravamento e morte di Goffredo Mameli a Rona, giovane patrizio che aveva condiviso anche con De Stefanis le battaglie del '48 e gli rassomigliava per desiderio e volontà di sacrificare la vita per la causa nazionale che è anche causa dei luoghi natii o dove cresciuti ed è già causa di giustizia oltre e fra nazione e nazione.
Fu qui che De Stefanis fu colpito ad una gamba, in modo non grave, ma rinato isolato fuori dalla linea del fuoco e aiutato da alcuni contadini, fors'anche con maltrattamenti di soldati entrati nel cappano ma senza altre ferite. Fu così avvisato il fratello di Alessandro, Filippo De Stefanis, medico militante nella Divisione che fece portare il congiunto ferito all'ospedale militare della Chiappella in San Teodoro per prestargli le cure necessarie. Il seguito è assolutamente simile alla mancata guarigione, aggravamento e morte di Goffredo Mameli a Roma, giovane patrizio che aveva condiviso anche con De Stefanis le battaglie del '48 e gli rassomigliava per desiderio e volontà di sacrificare la vita per la causa nazionale.


Nel '49 infatti non vi era stata alcuna ribellione genovese autonomistica contro i Savoia, ma contro il Governo che stava tradendo la causa italiana dopo averla ripresa in modo incerto l'anno prima e dopo trentatré anni di oppressone reazionaria più che sabauda in se'
Nel '49 infatti non vi era stata alcuna ribellione genovese autonomistica contro i Savoia, ma contro il Governo che stava tradendo la causa italiana dopo averla ripresa in modo incerto l'anno prima e dopo trentatré anni di oppressone reazionaria più che sabauda in se'


Il fratello Filippo ricorda che dopo l'aggravamento del male e prossimo alla morte Alessandro in preda ala febbre sognava e delirava a voce alta non di "visione di angeli e di paradisi", ma di azioni militari, marce, grida di vittoria, come aveva praticato nella sua breve vita e negli ultimi i giorni di salute e lucidità della stessa,.
Il fratello Filippo ricorda che dopo l'aggravamento del male e prossimo alla morte Alessandro in preda ala febbre sognava e delirava a voce alta non di "visione di angeli e di paradisi", ma di azioni militari, marce, grida di vittoria, come aveva praticato nella sua breve vita e negli ultimi i giorni di salute e lucidità della stessa,.


==I moti di Genova 1849==
==I moti di Genova 1849==

Versione delle 18:45, 3 nov 2023

Alessandro De Stefanis, o, più correttamente, Alessandro Mauro Aurelio De Stephanis (Savona, 17 dicembre 1826Genova, 4 maggio 1849), è stato un militare italiano che trovò la morte in seguito a una ferita - poi andata in cancrena - riportata combattendo per la causa nazionale nei moti insurrezionali a difesa della città che chiedeva il rigetto dell'armistizio e la ripresa della guerra e che portarono - fra l' aprile del 1849 - alla repressione militare della "Rivoluzione di Genova" (come da tutti definita, tranne che dal governo e da quelli succedutisi fino al 1945 per cui si sarebbe trattato di moti locali e spontaneistici) da parte delle truppe sabaude guidate dal generale Alfonso La Marmora e scatenate dal suo odio per i ribelli, genovesi e lombardi in particolare e dal diritto al saccheggio.

È considerato una figura cardine del patriottismo legato alle vicende preunitarie del Regno di Sardegna.[1]

La città di Genova gli ha intitolato un corso nel quartiere di Marassi, lungo la tribuna est dello stadio Luigi Ferraris mentre un monumento funebre lo ricorda nel Santuario della Nostra Signora di Loreto, nel quartiere di Oregina, dove fu sepolto.

Biografia

Nato da Benedetto De Stefanis e da Onoria Cortese, fu amico di Goffredo Mameli (cui somigliava fisicamente); al tempo in cui aderì agli ambienti patriottici democratici - che gravitavano intorno al Circolo Italiano - frequentava l'Università di Genova come iscritto alla facoltà di medicina. Lasciò gli studi per partecipare come volontario alla prima guerra di indipendenza e fu fra i combattenti della battaglia di Custoza. In questa circostanza fu premiato con una medaglia d'argento al valor militare per aver conquistato un'altura tenuta dalle forze nemiche.

Ritornato a Genova, dichiaratamente repubblicano socialista, come scrisse, fu con altri giovani studenti fra gli animatori delle proteste contro l'armistizio dopo la sconfitta e disfatta di Novara, con migliaia di genovesi, esuli lombardo-veneti ed anche stranieri, polacchi, francesi che chiedevano la ripresa della guerra italiana e la difesa a oltranza della città.

Il 1º aprile 1849 la città insorse contro il presidio militare comandato dal generale De Asarta e nel combattimento che ne seguì in piazza dell'Aquaverde e dintorni morirono, nel giro di poche ore, trenta persone, 20 insorti, in massima parte falegnami e operai, ma anche di buona condizione e nella Guardia Nazionale, e dieci soldati e carabinieri. Il presidio si arrese nella notte. Ma il governo presieduto da un ministro di antico stampo sabaudo dopo lo scioglimento del Parlamento voluto dal nuovo re Vittorio Emanuele, che non volle però abolire le garanzie costituzionali, inviò contro la città ribelle, i cui difensori combattevano sotto la bandiera tricolore italiana senza lo stemma sabaudo, la Divisione del Generale Alfonso La Marmora che riuscì ad entrare per un tratto di mura poco difesa e occupare il molo nuovo dalla Lanterna e da qui iniziare il bombardamento di Genova, creando terrore e poche vittime destinate ad aumentare in caso di mancata resa azionando i cannoni pesanti. Gli insorti, genovesi ma in gran parte anche esuli italiani di varie regioni e i soldati piemontesi che avevano disertato dal Presidio per amor patrio e non sparare sulle persone resistettero però sulle barricate per oltre due giorni, che portarono il numero dei morti e dei feriti, anche di parte governativa e regia, a cifre più alte.

De Stefanis salì cogli altri patrioti della legione Universitaria (uniti rivoluzionari e moderati in quell'occasione in difesa della città sotto la guida nominale di Lorenzo Pareto, di fatto guidati dal De Stefanis e gli altri studenti democratici che si erano riuniti in un corpo chiamato Artiglieria civica genovese.

Fu la battaglia dei forti sulle alture del Peralto con scontri violenti e morti anche accidentali per dirupi e fuoco talvolta amico. Nelle stesse ore il 5 aprile i soldati di linea, carabinieri e bersaglieri, i più però assedianti dal Bisagno, sotto la guida di Alessandro La Marmora fratello di Alfonso, poi sposato a dama genovese e morto in Crimea, vinta una debole resistenza fuori dalle mura cittadine fucilando i giovani difensori arresi, dilagarono per il sestiere di San Teodoro, saccheggiando e stuprando con ferocia, qui si' antigenovesi ma anche in odio agli esuli e ai polacchi che a Palazzo Doria l'indegno generale fece "passare a fil di spada". Lo sbarco dei soldati di marina della Princeton USA il cui comandante era amico del comandante della Guardia Nazionale e della rivolta, il piemontese di Chieri, Giuseppe Avezzana, esule del 1821, vissuto quasi trent'anni a New York, fece a poco a poco cessare il bombardamento ma raffermò la resistenza, col contributo dell'arrivo a Genova la notte fra 5 e 6 aprile di Mameli e Bixio, giunti da Roma con un corpo armato, inizialmente destinato a sostenere la guerra ripresa da Carlo Alberto e subito finita nella disfatta di Novara. Un primo tentativo di tregua nel pomeriggio del 6 fu respinto dai combattenti e dallo stesso Avezzana e dai patrioti riuniti con lui in un Governo Provvisorio della Liguria, sorto in modo consimile a quelli toscani ed emiliani investiti in pieno dalla furia austriaca con decine di fucilazioni. Solo a metà pomeriggio fu accettata la tregua di due giorni dando disposizione ai comandanti degli insorti più riconosciuti e capaci di far eseguire l'ordine e cessare il fuoco che era proseguito in giornata dall'una e dall'altra parte.

Fu qui che De Stefanis fu colpito ad una gamba, in modo non grave, ma rinato isolato fuori dalla linea del fuoco e aiutato da alcuni contadini, fors'anche con maltrattamenti di soldati entrati nel cappano ma senza altre ferite. Fu così avvisato il fratello di Alessandro, Filippo De Stefanis, medico militante nella Divisione che fece portare il congiunto ferito all'ospedale militare della Chiappella in San Teodoro per prestargli le cure necessarie. Il seguito è assolutamente simile alla mancata guarigione, aggravamento e morte di Goffredo Mameli a Roma, giovane patrizio che aveva condiviso anche con De Stefanis le battaglie del '48 e gli rassomigliava per desiderio e volontà di sacrificare la vita per la causa nazionale.

Nel '49 infatti non vi era stata alcuna ribellione genovese autonomistica contro i Savoia, ma contro il Governo che stava tradendo la causa italiana dopo averla ripresa in modo incerto l'anno prima e dopo trentatré anni di oppressone reazionaria più che sabauda in se'

Il fratello Filippo ricorda che dopo l'aggravamento del male e prossimo alla morte Alessandro in preda ala febbre sognava e delirava a voce alta non di "visione di angeli e di paradisi", ma di azioni militari, marce, grida di vittoria, come aveva praticato nella sua breve vita e negli ultimi i giorni di salute e lucidità della stessa,.

I moti di Genova 1849

Il 6 aprile durante una perlustrazione attorno al forte per far eseguire ordine di tregua rimase ferito in uno scontro ad una gamba da involontario fuoco amico in terra di nessuno, riuscendo a rifugiarsi in una cascina dove secondo il racconto del Celesia sarebbe stato trovato ma dai soldati che infierirono su di lui a calci e pugni e colpi di baionetta per abbandonarlo ormai in fin di vita. Il racconto non è confermato dagli atti del ricovero all'ospedale militare della Chiappela dove fu condotto dal fratello Flippo, in quel momento medico della Divisione La Marmora dell'esercito sardo. Fu trovato solo qualche tempo dopo da un ufficiale con il quale aveva combattuto nella guerra di indipendenza che lo soccorse e avvisò Filippo. Il caduto non morì in casa ma nella corsia dell'ospedale assistito dai sanitari e confortato dal fratello, dopo un mese di degenza e la cancrena che lo portò a morte.

Il suo nome non appare fra quelli riportati sulla lapide apposta nel 1897 nel palazzo comunale di Savona e dedicata ai caduti delle guerre di indipendenza: De Stefanis, infatti, come aderente alla causa nazionale morì in condizione di ribelle rispetto allo Stato e la stessa sorte ebbero le decine di caduti sulle barricate o presso i forti o nel tragico assalto al presidio del 1º aprile, armati ma sventolando i fazzoletti in segno di amicizia e pace.

I soli nominativi che a Tursi non si leggono sono quelli di questi caduti, nonostante l'interessamento e la produzione documentale indirizzati a due sindaci nel 1994 e nel 2011

Il monumento fatto erigere da suo fratello, Filippo, nel santuario di Nostra Signora di Loreto, a Oregina, lo ricorda con queste parole:

«Alessandro De Stephanis di Savona / propugnatore volontario dell'Italica indipendenza / combatté nel 1848 con antica virtù / ed ebbe premio di valore militare. / Uscito alla seconda prova / lo rattenne a mezzo il cammino la misteriosa fortuna dell'oppressore. / Ferito a Genova nei moti d'aprile - penò ventotto dì / poi lo spirito magnanimo volò alla patria dei liberi perdonando. / Odi la voce del sangue innocente / o Liberatore supremo»

La sua figura è ricordata anche su un olio su tela di autore ignoto che lo raffigura sul letto di morte e con in mano la medaglia d'argento guadagnata sul campo a Custoza.

I De Stefanis, savonesi, erano di origine piemontese, di Alba, giacobini e anche per questo migrati in Liguria di più aperti orizzonti repubblicani e liberi che erano stati sempre un argine ideale oltre che militare alle ingerenze sabaude e poi, se non da sempre, alle aggressioni imperiali, sia austriache, sia in vario modo e tempo, francesi.

I soldati piemontesi resisi responsabili del saccheggio in San Teodoro - la schiuma evidentemente poiché quelli ligi al dovere avanzavano verso le barricate o ai forti combattendo e anche morendo - urlavano feroci - la fonte non sospetta è Federico Alizeri, cronista ufficiale del Municipio e politicamente moderato e conciliativo- che "i genovesi essere tutti balilla ... non meritare pietà. Dalle postazioni contrapposte sulle mura di Granarolo e Lagaccuio esponevano non l'azzurro sabaudo ma le bandiere vermiglie, simbolo bellico di sterminio. I difensori di varia origine, genovesi e lombardi soprattutto rispondevano. oltre che al fuoco, sventolando il tricolore con lo stemma sabaudo strappato con odio e disprezzo.

I combattenti lasciarono Genova fra il 9 e il 10 aprile insieme ad Avezzana e a tutti i dirigenti, poi condannati a morte non esecutiva dopo una amnistia detta "generale" esclusi dodici, una aberrazione giuridica voluta fortemente da Alfonso La Marmora e accettata dal Re.

Avezzana pose però una condizione irrinunciabile, senza la quale l'accordo di resa sarebbe saltato e sarebbe stata guerra all'ultimo sangue. I soldati disertori, piemontesi delle più diverse province, dovevano poter lasciare Genova salvi e a quelli trovati in città risparmiata la fucilazione. Combatterono a Roma col Generale e tornarono alle loro case salvi dopo la fine del 1849.

Note

  1. ^ Contesto storico: Pdf[collegamento interrotto] Il Secolo XIX, 17/1/2004

Bibliografia

  • Federico Alizeri, Commentario delle cose accadute in Genova in marzo e in aprile 1849, nel volume Genova nel 1848-49, a cura del Comune di Genova, Torino 1950
  • Emanuele Celesia, Diario degli avvenimenti di Genova nell'anno 1848, op. cit.
  • Giacomo De Asarta, Relazione degli ultimi fatti di Genova, nel volume I moti genovesi del '49 - "testi e documenti dell'epoca", con introduzione di Leonida Balestreri, Erga, Genova 1967
  • Anonimo di Marsiglia, Della rivoluzione di Genova nell'aprile del 1849, esposta nelle sue vere sorgenti - Memorie e documenti di un testimonio oculare, op. cit.

Collegamenti esterni