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Remix, Il futuro del copyright (e delle nuove generazioni)

Remix, Il futuro del copyright (e delle nuove generazioni) è un libro scritto da Lawrence Lessig, giurista di fama internazionale. Tema centrale del libro è il diritto d'autore e ciò che sta causando: le 'guerre del copyright'. Tale diritto è infatti basato su un regime del copyright studiato per un’era tecnologica diversa da quella attuale, e ciò porta innumerevoli danni collaterali quali: limitare la libertà creativa, ostacolare nuove forme di espressione e, ancora più grave, criminalizzare un'intera generazione.

L’ispirazione per questo volume nasce dalle “guerre del copyright” ovvero “guerre alla pirateria”, le quali minacciano la sopravvivenza di determinate industrie rilevanti, come quelle discografiche, cinematografiche ecc. Ma il diritto d’autore riveste un’importanza fondamentale per una cultura sana, e senza di esso avremmo una cultura molto più povera: infatti grazie ad esso incentiviamo la produzione di nuove opere che altrimenti non verrebbero prodotte. Lessig ritiene che sia una guerra che non deve essere combattuta, non perché il diritto d’autore non abbia importanza, ma in quanto ritiene che i costi di questa guerra superino enormemente qualunque beneficio. Infatti questa mina la nascita di nuove industrie che hanno timore degli assurdi inconvenienti sollevati dall’attuale regime del diritto d’autore; ma ostacola anche forme di espressione e di libertà creativa in quanto tale diritto è tuttora basato su un regime del copyright studiato per un’era tecnologica diversa da quella attuale. Ma l’autore è particolarmente preoccupato sugli effetti che questa guerra avrà sulle nuove generazioni. Ogni guerra ha i suoi danni collaterali, e proprio questi rappresentano il tema di questo libro.

Culture, Parte prima

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Culture del nostro passato

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Le norme che scaturiscono dal diritto d’autore tutelano gli artisti, conferendo il diritto di esercitare un controllo sulle esecuzioni in pubblico delle loro opere e su qualunque arrangiamento tratto dalle composizioni originali, con lo scopo di ricompensare gli artisti per la loro creatività. L’avvio del nuovo secolo, però, ha scatenato un’esplosione di nuove tecnologie volte alla creazione e alla distribuzione di musica che non erano però in linea con questo vecchio modello di tutela. Grazie ad esse, per la prima volta nella storia, fu possibile tradurre una composizione musicale in un formato eseguibile da un’apparecchiatura: ad esempio il “piano meccanico”,oppure un fonografo. Una volta codificata l’opera musicale era possibile produrne copie a un costo ridotto. Così iniziò a diffondersi una nuova industria basata sulla ‘musica meccanica’. Per la prima volta persone comuni potevano accedere a un’ampia gamma di musica ‘on demand’. Si riteneva, però, che questa nuova tecnologia avrebbe cambiato il rapporto delle persone con la cultura: essi sarebbero diventati solo consumatori di cultura, non consumatori e produttori. Il timore era che la musica sarebbe diventata meno democratica, non nel senso che la gente avrebbe votato per stabilire che cosa fosse, o non fosse, buona cultura, ma nel senso che sempre più poche persone avrebbero avuto accesso agli strumenti (o alle capacità) necessari per creare nuova cultura. La cultura sarebbe così diventata il prodotto di un élite. Possiamo definire la prima tipologia una cultura RW (read/write, leggi e scrivi), e la seconda una cultura RO (read/only, sola lettura). Il timore era che la cultura RW svanisse, a favore di una cultura sempre più RO: una cultura meno avvezza alla performance, o alla creatività, e più a suo agio con la mera fruizione.

L'ampliamento della cultura RO

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C’è una parte della cultura che ci limitiamo a consumare: ascoltiamo musica, leggiamo un libro, vediamo un film; in ognuno di questi casi nessuno si aspetta che si faccia un granché oltre alla semplice fruizione. La cultura viene fruita attraverso l’atto del consumo, ciò rappresenta il nucleo della cultura RO, e fu Gutenberg a dar vita al processo di diffusione più significativo degli emblemi della cultura RO. Per gran parte del XX secolo, tali emblemi furono analogici, per tanto avevano tutti dei limiti: qualunque copia (prodotta dai consumatori) era di qualità inferiore all’originale. Ma, dal punto di vista dell’industria dei contenuti, tali limiti non erano problemi, erano caratteristiche. La natura di tale tecnologia, infatti, limitava l’opportunità da parte dei fruitori di fare concorrenza ai produttori (attraverso lo sharing, la condivisione). I limiti naturali del mondo analogico furono però aboliti dalla nascita della tecnologia digitale: ciò che prima era impossibile ed illegale, oggi è soltanto illegale. Quando però l’industria dei contenuti si rese conto di tale cambiamento, fu colta dal terrore, e produsse così una strategia volta a combatterlo. Fu così che nacquero le guerre del copyright. Nell'industria discografica, i più, ritenevano che la pirateria fosse inevitabile, data la natura delle tecnologie digitali; poi Steve Jobs fece cambiare idea a tutti. Jobs dimostrò che l’unica natura della tecnologia digitale è il suo conformarsi al modo in cui viene codificata. Originariamente le tecnologie online erano codificate in un modo da consentire l’esecuzione di copie gratuite e perfette; invece si poteva cambiare questa natura, usando una modalità di codifica diversa. Così sarebbe stato possibile ricodificare gli emblemi digitali della cultura RO, introducendo un grado di controllo sufficiente per ripristinare un mercato legato alla loro distribuzione. Tale mercato, come dimostrò Jobs, avrebbe potuto competere efficacemente con la distribuzione gratuita tramite internet. La prova di ciò fu l'iTunes Music Store, un negozio di musica digitale, e le sue riproduzioni prevedevano una tecnologia volta a limitarne la ridistribuzione. Fu usato un nuovo codice, chiamato FairPlay (un tipo di tecnologia DRM, Digital Rights Management, cioè gestione digitale dei diritti), sufficientemente capace da convincere l’industria dei contenuti ad adeguarsi. Negli anni successivi iTunes ha ampliato l’offerta anche ai libri, video musicali, film e altri hanno seguito un percorso analogo, proponendo modelli diversi per vendere cultura, ma tutti comunque intenti a venderla. Con questi nuovi modelli di business, cambia anche il nostro modo di rapportarci alla cultura. Cambia la nostra visione dell’accesso alla cultura. Ora siamo liberi di vedere ciò che vogliamo, senza adeguarci agli orari dei canali televisivi; possiamo ascoltare ciò che vogliamo ecc. Libertà, dunque, significherà libertà di scegliere di guardare, o ascoltare, ciò che vogliamo quando vogliamo.

La resurrezione della cultura RW

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Atto essenziale di creatività RW è il remix. E' l’espressione della libertà di prendere ‘le canzoni del momento o quelle di altri tempi’ e usarle per crearne di nuove. Possono essere citatati suoni, sovrapponendoli alle immagini, o video, sovrapponendoli al testo, o testi sovrapponendoli ai suoni: è il mix a produrre la nuova opera creativa, ovvero il remix. Il remix non è altro che un collage che scaturisce dall'abbinamento di elementi della cultura RO. Troviamo anche il remix delle parole: si usano parole altrui per dimostrare punti che gli altri non hanno espresso direttamente; l’idea è quindi che il remix aggiunga qualcosa di nuovo. Inoltre il remix produce due aspetti positivi: uno legato alla socializzazione, e uno all’educazione. I remix hanno luogo all’interno di una comunità di remixer e nell’era digitale, tale community, può estendersi in tutto il mondo. Ma è anche una strategia volta a stimolare l’apprendimento basato sull’interesse: tale forma di apprendimento scaturisce dall’interesse della persona, quando i ragazzi svolgono attività che li appassionano, essi apprendono di più e più efficacemente. Però, il punto fondamentale, è che la creatività RW non fa concorrenza al mercato delle opere creative che vengono remixate, né lo indebolisce. Il remix basato sui media è esattamente la stessa cosa che si è fatto con le parole, ma non ci rendiamo conto di questo, in quanto il remix basato sul testo è qualcosa che diamo per scontato: è comune come l’aria che respiriamo. E lo stesso vale per i media, è creatività supportata da una nuova tecnologia.

Confronto fra culture

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Troviamo quindi la cultura RO e la RW. Ma la cultura RW incide sulla vita sociale in modo diverso da quella RO: dà al pubblico qualcosa in più, o meglio, chiede al pubblico qualcosa in più e invita ad una risposta. La cultura RO pone attenzione sull’apprendimento, mentre RW pone attenzione sull’apprensione mediante il discorso. Nessuno dice che bisognerebbe fare a meno della cultura RO, è infatti necessario proteggerla, senza però penalizzare quella RW. Le critiche più evidente sono che le opere della cultura RW sono spazzatura, non sono opere creative. Di conseguenza i remix, anche i migliori, sono uno spreco, un fallimento dell’immaginazione; chi pensa ciò, ritiene che i remix o i mashup non siano né originali e né creativi. Ma chi dice questo ovviamente non conosce il modo in cui vengono realizzati: in primo luogo bisogna conoscere a fondo una cultura per remixarla bene. Le persone che si esercitano per imparare a farlo bene, apprendono molte più cose riguardo al loro passato di quanto non possa fare chiunque altro. C’è poi un punto ancora più importante: il pubblico cerca costantemente qualcosa in più mentre ‘legge’ ciò che il remixer ha ‘scritto’. Sapendo che la canzone è un mix, che attinge a tutto ciò che è stato creato in precedenza’, ogni secondo diventa un invito a capire le correlazioni che sono state tracciate ed il loro significato. Parliamo quindi di un ascolto attivo, coinvolgente. Ma la legge sul copyright ha, però, un rapporto diverso con la cultura RO e RW: promuove, infatti, le pratiche della prima, e contrasta quelle della seconda. L’essenza della cultura RO è che l’utente è autorizzato solo a fruire della cultura che acquista, non ha alcuna ulteriore autorizzazione legale; ma con l’avvento delle nuove tecnologie digitali, è nata l’opportunità di mixare e remixare la cultura RO. Però il fatto che si è nelle condizioni di farlo, non implica che si è autorizzati dalla legge. La legge sul copyright nell’era digitale sembrerebbe entrare in crisi: la normativa regolamenta la riproduzione o le copie, ogni volta che si fruisce di un’opera in un contesto digitale, la tecnologia realizza una copia; tale copia fa scattare la legge sul diritto d’autore. Ma, nel mondo materiale, la legge sul diritto d’autore non fornisce a chi detiene il copyright relativo, ad esempio ad un libro, alcun controllo legittimo sul numero di volte in cui viene letto; questo perché quando si legge un libro nel mondo reale, tale lettura non genera una copia. È permesso inoltre prestare tale libro ad un amico o farne una copia, quindi gli utilizzi comuni non sono regolamentati. Nel mondo digitale, invece, gli stessi identici atti sono regolamentati in modo diverso: per condividere un libro ci vuole un’autorizzazione, per copiare un paragrafo per inserirlo in una ricerca scolastica ci vuole un’autorizzazione, e così via. Questo perché la tecnologia può regolamentare più efficacemente, può controllare ogni singolo utilizzo. Proprio per questo il rapporto della legge con la cultura RW è diverso. L’atto della ‘riscrittura’ in contesto digitale, genera una copia; tale copia fa scattare la legge sul copyright che richiede una licenza. Per definizione, allora, l’utilizzo in chiave RW viola la legge sul diritto d’autore, il che porta a definire la cultura RW illegale. Quindi, nella sua forma attuale, la legge sul copyright ostacola la cultura RW, rendendo ‘pirati’ coloro che attingono ad essa.

Economie, Parte seconda

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Due economie: commerciale e di condivisione

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Troviamo diversi tipi di economie:

  • Economia commerciale: in cui il denaro costituisce la condizione fondamentale degli scambi comuni. Ad esempio se si entra in un negozio e si acquista qualcosa, quel qualcosa viene pagato con i soldi. Perciò lo scambio è definito in termini di prezzo.
  • Economia di condivisione: in cui il denaro non è ammesso, è inappropriato. Ad esempio, se si chiede ad un amico di passare del tempo insieme, il rapporto rimane di amicizia; ma se gli si chiede di pagarvi per passare del tempo insieme, il rapporto non sarà più tale.
  • Economie ibride: queste sono basate sulle due economie precedenti, ma conferisce valore aggiunto ad entrambe. Tale economia è un’entità commerciale che mira a sfruttare il valore creativo da un’economia di condivisione; oppure un’economia di condivisione che dà vita a un’entità commerciale per agevolare il raggiungimento dei propri obiettivi di condivisione. In entrambi i casi, l’ibrido crea un legame tra le due economie.

Economia commerciale

Una parte cruciale di internet equivale ad un’economia commerciale: la rete ha scatenato un boom di opportunità di fare soldi facendo funzionare meglio le vecchie imprese, ma ha reso possibile anche la nascita di nuove. Ne è un esempio Netflix. Nel 1997, Reed Hastings, ebbe un’idea per l’erogazione di video ai consumatori, pensò infatti che Internet avrebbe rappresentato un ottimo ambiente in cui cercare i film. Così lanciò uno dei casi di successo più noti della rete: Netflix. I clienti pagavano al sito una quota fissa mensile e in cambio avevano la possibilità di noleggiare i DVD dei loro film preferiti. Netflix ha ovviamente cambiato radicalmente il mercato del videonoleggio, e in questo modo, il modello di Hastings è divenuto lo standard di settore. Altro esempio emblematico è Amazon. Fondato nel 1994, Amazon partì con l’idea di fare ciò che le librerie cercavano di fare da sempre: vendere libri. Ovviamente, anche in questo caso, il negozio godeva di una serie di vantaggi: invece di perlustrare tutti gli scaffali di una libreria per trovare il libro desiderato, il cliente usava il proprio computer per esplorare il catalogo dei libri in vendita; e invece di usare la macchina per andarli a prendere, era Amazon a usare il servizio postale. Il caso di successo più famoso di Intenet è, senza dubbio, Google. L’azienda, fondata presso la Stanford University nel 1998 da due studenti, ha migliorato notevolmente l’efficacia delle ricerche online. I primi algoritmi usati da Google ordinavano i risultati sulla base dei link indirizzati ai siti emersi dalla ricerca: un processo chiamato PageRank. Se molti siti contenevano link a un determinato sito, esso otteneva una posizione più alta nell’elenco dei siti più linkati. Successivamente esso ha iniziato a tener conto anche della reazione degli utenti ai risultati di ricerca restituiti dal motore di ricerca. Ottenendo più successo di chiunque altro, Google ha sviluppato un giro d’affari basato sulla pubblicità. La gamma di prodotti offerta da Google è ampia, ma una caratteristica li accomuna tutti: tutto ciò che l’azienda offre la aiuta a sviluppare uno straordinario database di conoscenze relative a ciò che la gente desidera, e alla relazione fra tali desideri e il web. Questi casi legati ad internet rivelano tre principi fondamentali per aver successo in questa economia digitale:

  • Le code lunghe. Tale principio afferma che via via che il costo dell’inventario diminuisce, la gamma efficiente dell’inventario si amplia. Quando poi il costo si riduce a zero, l’inventario efficiente aumenta all’infinito. Quindi, meno costa tenere a magazzino un determinato libro o DVD, più libri o DVD una determinata azienda può tenere a magazzino profittevolmente. Così Amazon può offrire ai suoi clienti più libri di qualunque altro negozio, in quanto può conservarli efficacemente in diversi magazzini sparsi in diversi luoghi.
  • Piccolo Fratello. Il solo fatto di avere i prodotti a disposizione non basta, è infatti necessario far incontrare ai clienti tali prodotti. Ogni azienda, come appunto Amazon, spia ogni mossa del cliente e apprende ciò che con probabilità egli desidera; dopodiché raccomanda nuovi prodotti sulla base di ciò che ha imparato. Appunto, un Piccolo Fratello (imparentato con il Grande Fratello di Orwell).
  • Innovazione LEGOizzata. Tutte le aziende citate creano valore, consentendo ad altri di innovare sulla base della loro piattaforma. Le funzionalità vengono così LEGOizzate: ovvero vengono trasformate in un mattoncino che altri possono aggiungere al loro sito web o al proprio business.

Economia di condivisione

Tra i casi di maggior spessore troviamo indubbiamene quello di Wikipedia. Nel 2000, Jimmy Wales detto ‘Jimbo’, pensò di scrivere un’enciclopedia online: lanciò così Nupedia. L’idea era sviluppare un’opera basata sul meccanismo della peer review (selezione di articoli o progetti di ricerca, effettuata da specialisti del settore per verificarne l'idoneità alla pubblicazione). Ma frustrato per la lentezza con cui cresceva Nupedia, decise di lanciare un wiki per stimolare lo sviluppo delle proprie voci enciclopediche. Un wiki è una piattaforma che consente a chiunque di scrivere o modificare i contenuti all’interno di un’ambiente condiviso; ma in breve tempo i contenuti divennero ben più che semplici bozze: la crescita di voci in quella ‘Wikipedia’ fece impallidire Nupedia. A quel punto il wiki occupò il centro del palcoscenico. L’obiettivo era dar vita ad un’enciclopedia, per questo le voci dovevano essere scritte con un punto di vista neutrale; il progetto inoltre doveva essere gestito da una community di volontari, e infine esisteva una norma relativa alla proprietà: nessuno deteneva la proprietà di Wikipedia a titolo esclusivo. Il contenuto di Wikipedia veniva creato in base a una licenza del copyright, il copyleft, che garantiva che rimanesse liberamente riproducibile da parte di chiunque e che anche le modifiche fossero libere. Wikipedia è parte dell’economia di condivisione perché l’accesso a questa enciclopedia online non viene concesso attraverso il pagamento in denaro.

Economie ibride

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Internet rappresenta l’era dell’ibrido. Il free software è l’ibrido paradigmatico, in cui una serie di entità commerciali estraggono valore da un’economie di condivisione. Alcuni ibridi creano spazi comunitari, altri creano collaborazioni, altri ancora creano community. Fin dai tempi in cui Internet vide la luce, le sue tecnologie sono state usate per dar vita a spazi comunitari, cioè ambienti virtuali in cui la gente interagisce condividendo informazioni o interessi. Un esempio è YouTube, l’obiettivo era sviluppare un servizio di condivisione di video da mettere in Rete. Il successo di YouTube deriva soprattutto dagli utenti che lo utilizzano: sono gli utenti a decidere il contenuto da aggiungere, lo creano in prima persona. Differente dallo spazio comunicativo, è poi lo spazio collaborativo. In questo caso la community rappresenta il focus del lavoro. Un esempio è Microsoft. Un gruppo di volontari lavora per aiutare delle persone a risolvere i loro problemi con i computer. L’aspetto sorprendente di questa storia è che tutto questo sforzo gratis ha un obiettivo particolare: rendere più contenti i clienti di Microsoft. Questi volontari operano all’interno dei ‘newsgroup’ di supporto di Microsoft, ma non sono pagati dall’azienda e comunque lavorano per far arricchire ulteriormente Microsoft risolvendo i suoi problemi. La variabile, appunto, che non entra mai in gioco è il denaro. Siamo in presenza di uno sviluppo di un’economia ibrida da parte di Microsoft. I volontari investono il loro tempo ed energie per aiutare gli utenti Microsoft ad usare meglio i prodotti di tale azienda. Il risultato è una community network-based che collabora per agevolare l’utilizzo dei prodotti Microsoft. Sul web, però, esistono spazi che aspirano ad essere più di uno spazio comunitario, e alcuni di essi meritano davvero l’appellativo di community. Tra gli esempi più interessanti di community ibride troviamo gli spazi virtuali come Second Life. Questo non è altro che un mondo virtuale in cui, un personaggio creato, può fare praticamente ciò che vuole: comprare abiti, costruire case, coltivare fiori ecc. La gran parte delle cose che fanno gli iscritti a Second Life, però, sono cose che creano valore a vantaggio del gioco. I Second Lifer offrono il bene che equivale al loro aiuto: abbelliscono il quartiere in cui si trovano, costruiscono nuovi edifici, creano giardini o parchi ecc. Tutti insieme creano valore. Il World Wide Web è stato capace di cambiare il nostro modo di interagire: sempre più persone fanno qualcosa per gli altri a titolo gratuito; più aziende trovano il modo di fare cose per noi, perché il fatto di farlo incrementa il loro profitto. Il valore di tali ibridi scaturisce dal fatto di dare ai membri delle community ciò che vogliono, in modo tale che la community ricavi in cambio ciò di cui ha bisogno.

Lezioni di economia

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Esistono anche economie parallele: le opere di cui si vende la licenza di utilizzo in un’economia commerciale possono essere, al tempo stesso, disponibili a titolo gratuito nell'ambito di un’economia di condivisione. Spesso, infatti, lo stesso brano è stato diffuso simultaneamente tramite una licenza commerciale ed una non commerciale. Le entità commerciali, sfruttano le economie di condivisione perché sono convinte che il loro prodotto acquisterà valore; e le economie di condivisione inseriscono il commercio nel loro mix, perché sono convinte che il loro fatturato aumenterà. L’ibrido è quindi un modo per produrre valore. Ma un punto cruciale è la differente etica tra l’economia della condivisione e quella del commercio. Se il lavoro dei volontari facesse parte dell’economia commerciale, essi dovrebbero essere pagati; e se non verranno pagati, smetteranno di lavorare. Se invece il loro lavoro facesse parte dell’economia di condivisione, i volontari non dovranno essere pagati. Se però il lavoro di tali volontari fa parte di un ibrido sorge un problema: se l’ibrido ha un’aria troppo commerciale minerà la voglia di lavorare dei volontari, e viceversa. Di una cosa siamo però certi: l’ibrido può aiutare a decriminalizzare i giovani. Questo perché la creatività legale è indispensabile se si vuole favorire lo sviluppo di un business fiorente. Sicuramente a mano a mano che il mercato degli ibridi acquisterà maggior rilievo, le libertà su cui sono fondati diventeranno sempre più importanti per le autorità politiche e legislative.

Aprire la strada al futuro, Parte terza

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Riformare la legge

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La legge sul copyright deve essere cambiata, ma non abolita. Infatti né la cultura RW né RO possono prosperare davvero senza il diritto d’autore. Ma la forma e il raggio d’azione della legge sul copyright, oggi, sono obsolete. Ci sono cinque modifiche, secondo l’autore, che dovrebbero essere apportate per migliorare il rapporto tra tale legge e la creatività RW.

  1. Deregolamentare la creatività amatoriale. Bisogna dotarsi di una legge sul copyright che lasci la creatività amatoriale libera. Ciò potrebbe essere fatto esentando gli utilizzi non commerciali dal raggio d’azione del copyright. Infatti non c’è alcuna ragione convincente per cui la legge sul copyright debba regolamentare, per esempio, il remix amatoriale. Mentre le copie delle opere professionali dovrebbero continuare ad essere regolate nel modo tradizionale.
  2. Diritti chiari. Il copyright equivale alla proprietà, ma per come è configurato attualmente il sistema, questo risulta del tutto inefficiente. Risulta infatti sempre più difficile capire chi detenga il diritto d’autore sulle opere. Non esiste nessun registro volto all'identificazione dei detentori del diritto d’autore. Di conseguenza tali leggi creano solo incertezze. Questo problema potrebbe essere risolto reintroducendo la vecchia legge sul copyright degli Stati Uniti: si possedeva il beneficio della protezione garantita dal diritto d’autore, solo se ne facevi richiesta. Se non lo richiedevi, la tua opera diventava di dominio pubblico. Questo era un sistema che si regolava da sé: limitava automaticamente la sua protezione alle opere che ne avessero bisogno, e lasciava che il resto del mondo pubblicasse opere svincolate dalle norme relative al copyright. Ma comunque, affinché un qualsiasi sistema sul diritto d’autore funzioni, deve esserci la possibilità di capire chi detiene cosa. Per questo motivo, ad esempio, esiste il catasto degli immobili; analogamente i detentori del copyright registrerebbero i loro valori caricando le opere in un determinato server che ne attesti così la proprietà.
  3. Semplificare. Bisogna impegnarsi per semplificare la legge.
  4. Decriminalizzare la copia. La legge sul copyright deve abbandonare la sua ossessione per la copia: non dovrebbe, infatti, regolamentare le copie o le riproduzioni. Piuttosto dovrebbe regolarne gli utilizzi, come la distribuzione pubblica. Se il copyright regolamenta le copie, e copiare è un atto comune come respirare, una legge che fa scattare una prescrizione ogni volta che viene fatta una copia è una legge che ha un raggio d’azione troppo vasto. La legge dovrebbe invece scattare difronte ad utilizzi commerciali. In questo caso, la copiatura non farebbe scattare la normativa, ma l’esibizione o o la distribuzione pubblica sì.
  5. Decriminalizzare il file sharing. Bisognerebbe decriminalizzare il file sharing, autorizzando almeno quello non commerciale attraverso l’imposizione di tasse, oppure concedendo una licenza globale grazie a cui gli utenti possano acquistare il diritto di condividere liberamente i file.

Riformare noi stessi

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Il problema maggiore che sorge con questa guerra del copyright, è però, l’effetto che ha sui ragazzi: infatti l’eccessiva criminalizzazione in quest’area della vita dei giovani, può sortire effetti negativi su altre aree della loro vita. Nella misura in cui i ragazzi considerano le leggi che regolano la cultura insensate, così potrebbero considerare tutte le altre leggi allo stesso modo. Si sta combattendo una guerra contro un’intera generazione, una generazione denominata 'criminale', ed è proprio ciò che diventerà. Ed è il governo che sta combattendo tale guerra, una guerra però insensata e senza speranza, e fa anche poco per evitare i danni che causa. La ragione di questa guerra, in ultima analisi, è che i ragazzi hanno meno soldi da dare alle campagne politiche rispetto, ad esempio, all'industria di Hollywood o quelle discografiche. Questo perché la politica non segue la logica ma solo il denaro.

Lawrence Lessig, Remix-Il futuro del copyright(e delle nuove generazioni), Etas 2009, ISBN 978-88-453-1559-6