Utente:Chiara Rauccio/Sandbox

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Il manicomio giudiziario di Aversa

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Il 20 settembre 1876, sotto il nome di Sezione per maniaci, la casa penale di San Francesco, ad Aversa, raccolse il primo nucleo di pazzi criminali, per un totale di 19 uomini. L’antico convento di San Francesco, più tardi divenuto casa di pena per le donne e poi asilo per invalidi, fu scelto come definitiva destinazione del Manicomio nell’attuale località. Tuttavia, è naturale prevedere che l’asilo di Aversa rappresentava soltanto un ripiego, in quanto si era costretti ad accomunare i pazzi criminali in un’unica località qualsiasi.[1]

Fin dal 1866, anno in cui il Professore Gaspare Virgilio entrò nell’Amministrazione carceraria dello Stato, egli  seguì con particolare interesse gli incessanti progressi delle dottrine mediche nei loro rapporti con le discipline giuridico-penali; questo è uno dei tanti motivi per cui, nel 1889, fu comandato ad assumere il servizio psichiatrico del Manicomio giudiziario. Egli fu incoraggiato di fare tutte le proposte che stimasse opportune per migliorare la struttura; richiamò l’attenzione dell’autorità su certi inconvenienti igienici più elementari, ma si rese presto conto che vi erano ben troppe difficoltà che intralciavano la via di ogni progresso e di ogni nuovo adattamento che dovesse imprimere all’istituto il nome giustificato di “manicomio giudiziario”. Quindi, era poco onesto invitare lo Stato ad effettuare non poche spese per la struttura, quando era impossibile cambiare la sua intima costituzione. Per questo motivo, l’Amministrazione centrale stessa approntò dei progetti e degli studi per trasferire l’Istituto di Aversa in altre strutture più spaziose ed orientate; in realtà Gaspare Virgilio si rese presto conto che uno stabilimento con lo scopo di eliminare i criminali dai carceri, non occorreva che fosse sontuoso e regale.[2]

Organizzazione ed esigenze

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Il Manicomio giudiziario di Aversa doveva prendersi cura dei condannati impazziti, degli imputati probabilmente alienati di mente, e dei prosciolti da ogni accusa, cioè dei pazzi conclamati che furono coinvolti con la giustizia penale. In questo modo i perturbatori di ogni disciplina sarebbero stati eliminati dai carceri, i prosciolti avrebbero potuto evidenziare le loro più segrete pieghe dello spirito, dimostrandone la pazzia, ed ai prosciolti sarebbe stato dato un asilo con cui la società andrebbe salvaguardata dalle loro pericolose azioni. In realtà, per rendere il Manicomio giudiziario una garanzia sicura per la comunità, sarebbe stato opportuno trattenervi anche i condannati che avevano già scontato la pena, se erano ancora temibili dalla popolazione. Essi, trattenuti negli asili comuni e nell’ambiente domestico, avrebbero potuto scaturire guai, disordine e scandali che avrebbero turbato la pace e la tranquillità dei cittadini.[3]

I prosciolti e i condannati

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Il Manicomio giudiziario di Aversa, dunque, favorì l’eliminazione dalle case di pena di coloro che rappresentavano un pericolo ed un ingombro per la società; in circa 22 anni le cifre aumentarono radicalmente: mentre nel 1876 erano 19, nel 1898 diventarono ben 209. Divenne necessario regolare con norme precise e disciplinari le assegnazioni e le destinazioni del Manicomio giudiziario. Per esempio, i prosciolti erano in ogni caso destinati al Manicomio giudiziario solo perché riconosciuti pericolosi da esperienze affrettate e mal studiate, le quali insinuavano nell’animo dei giudici la previsione che il concetto di pericolo fosse in essi sempre presente; eppure, la quotidiana esperienza mostrava che la maggior parte di costoro non erano affatto pericolosi. Questa divenne la prima causa d’ingombro del Manicomio giudiziario, che riuscì a tradire lo scopo dell’istituzione: in tal modo, i prosciolti dovevano rimanere nella struttura per tutta la vita, anche se essi non rappresentavano più un pericolo per la società. Risulta dunque evidente la necessità di disciplinare le assegnazioni al Manicomio dei prosciolti e dei condannati: solo regolandole con norme precise, rigorose e sapienti il Manicomio giudiziario avrebbe potuto diventare un vero asilo di sicurezza, governabile con la responsabilità dovuta.

i giudicabili

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All’attuale problema contribuì anche la categoria dei giudicabili. Dall’apertura dello stabilimento furono internati circa 481 giudicabili, cioè il 29% degli ammessi. Si trattava di individui dementi, cronici ed inoffensivi che avrebbero potuto essere assistiti tranquillamente nelle case di pena, per non togliere ai più meritevoli la cura e la vigilanza di cui avevano bisogno e che non potevano essere donati dalle case penali. Rappresentavano, dunque, un inutile ingombro ed una grave responsabilità per l’Autorità tecnica: era necessario restringere il numero, eliminando coloro per cui fu già annunciato dal medico un giudizio definitivo di incurabilità. In questo modo si sarebbero eliminati molti giudicabili da un ambiente non più adatto a loro, in maniera tale da cedere il proprio posto a coloro che necessitavano inevitabilmente ospitalità.[4]

Al buon governo del Manicomio giudiziario non bastava che fosse salvaguardata la scelta giudiziosa dei predestinati ad essere ospitati, in quanto era necessario praticarne la cura e l’assistenza a seconda della natura delle malattie: condannati, prosciolti ed imputati non potevano essere accomunati senza criterio, ma dovevano avere un’assistenza adeguata alla propria categoria. Quando ciò non era possibile, erano inevitabili il contagio morale tra i pazienti e le relazioni clandestine, le quali screditavano la struttura del Manicomio giudiziario. Per quanti sforzi siano stati fatti per dividere le tre categorie, non si riuscì mai ad attuare rigorosamente un principio, sia per il gran numero di ricoverati , sia per i continui spostamenti della popolazione tra le tre categorie: poiché alcune fasce mancavano di posti liberi, alcuni posti venivano assegnati a persone che non appartenevano a tale gruppo. Fortunatamente, nel Manicomio giudiziario di Aversa non si verificarono episodi e disordini verificatisi altrove, poiché erano assenti i “veri pazzi”, cioè i pazzi ragionanti, quelli affetti da pazzie affettive, gli impulsivi per indole, i quali erano la causa principale di guai, atti osceni e suicidi.[5]

I trattamenti

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La vita all’interno del Manicomio giudiziario di Aversa era spesso monotona, angosciante e, se fossero stati presenti persone nella piena attività psicopatica, si sarebbero verificati molti episodi di violenza contro sé stessi e contro gli altri. Questo è un altro motivo per cui era fondamentale la separazione delle categorie giuridiche, distribuendole in quartieri separati in modo che ciascuno di essi rappresentasse il Manicomio giudiziario, specializzato nella categoria da ospitare: cosicché ogni categoria godesse di perfetto isolamento e di una maggiore indipendenza. Si giunse quindi al bisogno di una conveniente località dove raccogliere e curare gli infermi di malattie accidentali. Invece, in un solo ambiente erano curati malati cronici e acuti, malati di affezioni mediche e chirurgiche, di malattie parassitarie e, soprattutto, di tubercolosi. Per un certo periodo, stesso Gaspare Virgilio praticò le autopsie di tutti i defunti del Manicomio giudiziario. Egli constatò che spesso, anche in individui malati colpiti da altre malattie accidentali, si ottenne il reperto della tubercolosi: era inevitabile in quanto non esistevano comparti dedicati esclusivamente alla cura dei malati di tubercolosi, e gli ambienti restavano infetti, diffondendo il male anche ai non predisposti.[6]

Oltre alla necessità di dividere le varie categorie giudiziarie in modo che esse fossero indipendenti tra loro, era doveroso che anche il trattamento di ognuna di esse fosse diverso: per quanto tutti i pazienti presenti nel Manicomio giudiziario dovessero valutarsi uguali dinanzi alla scienza che li considerava malati, meritavano trattamenti differenti dinanzi alla morale, alla giustizia e alla pietà. Per esempio, per quanto riguarda il trattamento del lavoro, si istituì un lavoro di paglia, un altro di rattoppo, un altro di cucito, ma fu necessario smettere per un’assoluta mancanza di locali di soggiorno, dove una qualsiasi lavorazione potesse essere esercitata, vigilata e disciplinata. È commiserabile che il Manicomio giudiziario mancasse di un’area disponibile per il lavoro della terra: questo poteva essere il più proficuo e salutare lavoro dell’Istituto, ma resterà soltanto un desiderio.[7]

Assistenza e sorveglianza

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I sorveglianti del Manicomio giudiziario dovevano essere scelti secondo criteri precisi, dopo averne valutato la gentilezza e la biografia. Essi, infatti, svolgevano un ruolo particolarmente importante e costituivano un vero e proprio corpo scelto in modo da avere una maggiore considerazione da parte dello Stato: era fondamentale capire che essi interagivano con persone malate di mente, la cui parola serviva per nascondere il proprio pensiero, mai per rivelarlo. A tale corpo bisognava quindi assegnare un capo, il quale costituiva la mente, a cui i sorveglianti dovevano dare ascolto, i quali rappresentavano il braccio. Questa organizzazione, però, non costituiva la norma del servizio sanitario nel Manicomio giudiziario di Aversa. Qui, infatti, mentre al direttore sanitario era attribuito il dovere dello studio e della cura delle malattie mentali, ad altro medico era assegnato il compito delle malattie somatiche: ad essi era riconosciuta una grande indipendenza e libertà di azione. In tal modo si lacerava ogni unità di indirizzo, di studio e di cura, perché non si poteva valutare il complesso di una personalità malata studiando soltanto un lato della stessa. Il direttore sanitario, infatti, avrebbe dovuto essere il centro a cui vanno ad appuntarsi tutti i rami del servizio igienico, clinico e di assistenza, al fine che essi si indirizzassero verso il bene dei malati da assistere.[8]

Mezzi d'indagine

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Il Manicomio giudiziario di Aversa era anche un osservatorio sociologico: stesso Gaspare Virgilio si dedicò, per più di cinque lustri,  alla ricerca dell’uomo criminale, di personalità che non sanno o non vogliono rivelarsi. Le difficoltà per svolgere tale compito erano evidenti e riposte principalmente nella mancanza di documenti concernenti lo sviluppo dell’individuo, della sua razza e dell’ambiente in cui è vissuto, dell’educazione assegnatagli e delle sue abitudini. Egli, aiutandosi dalla locale Direzione amministrativa, ricercò nell’archivio tutto ciò che potesse riguardare ciascun individuo, in modo da procurarsi una base dove costruire lo stato precedente alla malattia mentale dell’individuo. Fece in modo di raccogliere ogni notizia concernente la famiglia e la biografia di un soggetto, e di assistere sia alle relazioni personali tra gli individui, sia ai colloqui con i loro parenti, fondamentali in quanto, durante questi ultimi, si esprimevano certe rivelazioni che in altro modo non si sarebbero messe a nudo. Gaspare Virgilio, dunque, riuscì a redigere per ogni individuo una tabella contenente i dati demografici ed il risultato dell’esame obiettivo, in modo da stabilire per ognuno di essi una anamnesi remota e prossima. Egli eseguì tale lavoro per circa 1100 individui, in quanto esso non potette essere esteso a 1621 pazienti, giacché molti erano usciti, altri defunti, di altri non si potettero rintracciare i precedenti.

Gaspare Virgilio, l'origine e le vicende del manicomio giudiziario di Aversa, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1900, pp. 10-32, ISBN 978-1169593725.

  1. ^ Virgilio, pp. 18-19
  2. ^ Virgilio, pp. 10-11
  3. ^ Virgilio, p. 12
  4. ^ Virgilio, p. 18-19
  5. ^ Virgilio, pp. 22-23
  6. ^ Virgilio, pp. 25-26
  7. ^ Virgilio, p. 28
  8. ^ Virgilio, pp. 30-31