Anitya: differenze tra le versioni

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Versione delle 03:09, 13 feb 2013

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Anitya, "impermanenza", è un termine sanscrito (pāli anicca, cin. 無常 wúcháng, giapp. mujō, tib. mi rtag pa) che indica uno dei tre aspetti fondamentali dell'esistenza nella dottrina canonica del buddhismo, che sono:

  1. l'impermanenza o cambiamento o divenire (anitya);
  2. la sofferenza o l'insoddisfacibilità connaturata alle cose mondane (duḥkha);
  3. il non sé o l'insostanzialità della personalità o l'inesistenza di un nucleo permanente e separato (anātman).

Insieme queste tre caratteristiche fondamentali dell'esistenza, della vita di ogni "essere senziente", formano la base causale della dottrina delle Quattro Nobili Verità e quindi della ricerca spirituale buddhista, consistente nella vita ascetica per i membri del comunità monastica, e nella coltivazione del Nobile Ottuplice Sentiero e dei precetti buddhisti per tutti i praticanti buddhisti: monaci, monache, laici e laiche, che costituiscono la tradizionale quadripartizione della società buddhista.

Nelle parole di Bhikkhu Ñanamoli:

Qualsiasi cosa È, sarà ERA.

Citazioni canoniche

Nelle parole del Buddha Shakyamuni, secondo la tradizione del Canone Pāli:

«La percezione dell'impermanenza, o bhikkhu, sviluppata e assiduamente praticata, porta all'abbandono delle passioni sensuali, all'abbandono della passione per l'esistenza materiale, all'abbandono della passione per il divenire, all'abbandono dell'ignoranza, all'abbandono e all'annullamento di ogni presunzione circa l'"Io sono"».
«Come quando in autunno un agricoltore, arando con un grande aratro, recide tutte le radici che si diramano nel suolo mentre ara; nello stesso modo, o bhikkhu, la percezione dell'impermanenza, sviluppata e assiduamente praticata, porta all'abbandono delle passioni sensuali... all'abbandono e all'annullamento di ogni presunzione circa l'"Io sono"».
Saṃyutta Nikāya, 22.102
«Sarebbe meglio, o bhikkhu, che una persona ordinaria e non istruita consideri questo corpo, costituito dei quattro grandi elementi, come il proprio sé piuttosto che la mente. Perché questo? [Perché] questo corpo si può constatare durare per un anno, o per due anni, cinque anni, dieci anni, venti anni, cinquant'anni, cent'anni e ancora di più. Ma quello che si chiama mente, che si chiama pensiero, che si chiama coscienza, di continuo un momento sorge e un altro cessa, di giorno come di notte».
Saṃyutta Nikāya, 12.61

Bibliografia

  • Vincenzo Talamo (a cura di). Saṃyutta Nikāya. Astrolabio Ubaldini, Roma 1998, ISBN 88-340-1293-3
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