Discussione:Gian Francesco Malipiero

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Sposto in discussione le parti nuove, prese da qui

G. Francesco Malipiero, longevo autore vissuto tra l’ultimo ‘800 ed gran parte del ‘900, è prolifico autore di musica atonale, tra cui otto dialoghi. Il suo stile non sembra allinearsi ad un vero e proprio filone scolastico, ma muta e si evolve nella sua spontanea personalità – o personale spontaneità - giorno dopo giorno. In esso è possibile - e ve n’è pieno riscontro nei dialoghi - ascoltare reminiscenze di De Falla, Satie, Schoemberg, Strawinsky. I dialoghi sono stati scritti in ordine crescente di organico, a partire da soli due pianoforti, aggiungendovi poi nel secondo dialogo una voce di soprano, poi per cinque strumenti a fiato il terzo, a seguire un quarto per piccola orchestra, poi aggiungendo alla piccola orchestra un clavicembalo, poi una viola solista, poi per due pianoforti e orchestra, ed infine, nell’ultimo dialogo, che è quello che andremo ad analizzare, un’orchestra più abbondante con una voce di baritono solista, la quale, per giunta, ricopre vari ruoli: voce narrante - Echécrate - , il protagonista – Socrate –, il ministro degli undici, e Fedone.

L’ordine che sarà reso noto al pubblico, però, per ragioni che a tutt’ oggi ci sfuggono, è diverso. I dialoghi sono presentati ed eseguiti in ordine sparso, e così anche numerati, secondo la provocatoria volontà di Malipiero, che, stando alle date di composizione degli stessi, li aveva scritti secondo l’ordine precedentemente esposto.

In questi dialoghi Malipiero rifugge il suo istinto romantico, a tratti predominante, e sedato prontamente con scrupolosi artifizi matematici e speculativi. Laddove fosse – o sarebbe – udibile l’impeto del romanticismo, egli stesso s’impone di camuffarlo con armonie sporche, tematiche intrecciate e timbriche prorompenti o – diversamente – eteree, utili a descrivere le atmosfere che il dialogo vuole rievocare. Scrive a questo proposito Paolo Cattelan: (Università Ca’ Foscari di Venezia) “Nonostante numerosi fraintendimenti ancora in uso, la concezione musicale e artistica di Malipiero è intrinsecamente e profondamente romantica, radicale. […] Malipiero rivela la sua resistenza a ogni normatività con un eccesso di organizzazione che può perfino disturbare l’eseguibilità dell’opera, […] se, questo eccesso di organizzazione, non lo si interpreta come reazione al suo stesso romanticismo. […] Il suo romanticismo, pertanto, è un esperienza artistica offerta ermeticamente, e sempre razionalmente.”


Dialogo VIII – La morte di Socrate (dal Fedone) – per una voce di baritono e piccola orchestra.

Il brano è scritto per un orchestra di legni (solo i fagotti sono due), e archi, arricchita dalla presenza di due corni, arpa, celesta, pianoforte, grancassa e piatti (di cui si fa per altro un uso parsimonioso). Tale scelta strumentale implica da subito una riflessione, quale può essere quella della presenza di una limitata gamma di colori; una scelta che inquadra da subito la peculiarità del brano. Gli archi saranno il tappeto costante sul quale narrare un evento sommesso, misterioso eppur drammatico, che nulla avrebbe potuto condividere con coloriti squilli di trombe e tromboni e raffiche di percussioni festanti. Scorrendo le numerose pagine della partitura si scopre che il brano si basa da principio a fine su un unico frammento, il quale, subito esposto dalle viole, sarà ripresentato variato in tutte le salse, ma che integralmente come eseguito in battuta “1” apparirà solo altre 11 volte. Dunque viene spontaneo chiedersi quale sarà il ruolo personale, ovvero umano e attivo di ogni strumento. E scorrendo la partitura scopriremo sempre che gli archi sono decisamente melodici e contrappuntistici nel loro incedere, come a fare da didascalia sonora a quanto detto dalla voce recitante, e non solo. Parrebbe preciso intento dell’autore fare sì che la continua e reiterata presenza degli archi nel loro intreccio lugubre faccia restare sempre alta la tensione emotiva dell’ascoltatore, che solo in taluni momenti, all’intervento del “tutti”, potrà riacquietarsi x poi tornare vigile subito dopo, quando il brulichio degli archi tornerà a descrivere l’atmosfera che le sole parole non potrebbero inquadrare a pieno nel loro spessore emotivo. Rarissimi sono invece gli spunti solistici nel senso classico del termine, o contrappuntistici dei legni e dei corni. Essi perlopiù seguiranno il discorso sottolineando taluni concetti espressi con degli accordi di massa, talvolta anticipando la melodia del baritono (per esempio l’oboe anticipa il tema dell’arrivo del ministro degli undici, poi esposto vocalmente dal baritono). Particolarissimo e raffinato è l’uso invece della celesta e dell’arpa, talvolta unitamente al pianoforte, che creano un celestiale impasto, come un qualcosa di angelico, misterioso, impalpabile, ed a tratti un po’ tetro. Tale colore viene utilizzato tre volte, una di queste da battuta “128” a battuta “139”, per sottolineare con atmosfera paradisiaca e surreale le parole di dubbio e di frustrazione di Socrate “che strana cosa è quella che gli uomini chiamano piacere, e come di sua natura comportarsi meravigliosamente verso quello che pare il contrario suo, il dolore”. In tale drammatico momento, l’atmosfera geniale creata dal colore di arpa, celesta e pianoforte sa quasi di contrasto, di beffa, di un qualcosa di fuori luogo con la comprensibile paura del morituro Socrate. L’altro colore geniale, ma qui più che di colore si tratta di un “tutti” magistralmente concepito nell’armonia e nel susseguirsi delle entrate, si trova a battuta “244”. L’effetto consiste nel prendere il medesimo disegno armonico e melodico, frutto dell’accostamento di vari strumenti e prodotto della verticalità di più timbriche, e portarlo avanti, mentre, una battuta dopo, un altro gruppo di strumenti intraprende canonicamente lo stesso disegno, e poi, una battuta dopo ancora, un altro nuovo gruppo, riprende lo stesso disegno con una battuta di scarto dal secondo gruppo, e due battute di scarto dal primo. Il motivo è lento, acutissimo ai violini, alla celesta (che procede però con una battuta d’anticipo) e all’arpa, e portato avanti nel registro medio da strumentini, corni e pianoforte, ovviamente in discrepanza dovuta al ritardo o all’anticipo di un certo strumento, appartenente ad un gruppo o ad un altro. Nel registro basso si trovano i contrabbassi e i violoncelli che procedono simmetricamente col pianoforte. Accordi minori, maggiori, tonalissimi e tradizionali, impastati col ritardo dei loro stessi cloni, e dipinti dalla timbrica di strumenti appositi, creano un atmosfera mortale, ma rilassata, atonale, ma tonalissima, nel senso “profano” del termine, ovvero della loro udibilità. Non ci sarebbe stato modo più perfetto e geniale x descrivere la morte rassegnata di un uomo impotente, di un condannato che abbraccia il suo destino con la quiete d’animo dei forti, con la saggezza, con la pienezza e con lo spirito del giusto, del buono, della vittima. Tale disegno procede incantevole, sommesso, placido, come l’ascesa dell’angelo in cielo, come se l’autore volesse dare della morte un’ idea di purificazione e di liberazione dal male vero. E solo il crescendo finale, a modo suo, lascia un po’ intravedere quello che potrebbe essere il lato terrificante della morte, come se l’urlo di disperazione venisse non prima di morire, ma a morte già sopraggiunta, come se fosse l’uomo angelo, il defunto, il giustiziato, a chiedere vendetta e ad accorgersi tramite una presa di coscienza – la lucidità che la morte pare avergli conferito - di quello che realmente stava accadendo, e che da vivo, sotto lo shock della rassegnazione e dell’orrendo inevitabile destino che si avvicinava rapidamente, non riusciva ad intuire nella sua reale sostanza e crudeltà.

Armonicamente il brano presenta una pluralità di melodie coesistenti, frutto il più delle volte del frammento originario di cui sopra, e talvolta le forme accordali che vengono a crearsi sono impossibili da decifrare nella loro riconducibilità tonale, qualora nel brano sia intuibile un impianto simile alla tradizionale tonalità. Da capo a fondo infatti non v’è mai un epicentro armonico, ma sempre e solo macchie di colori, e di umori, in sincronia stretta con le emozioni che il testo suscita. La nostra analisi per tanto verte sull’identificazione del colore che Malipiero conferisce alla frase parlata (cantata) cercandone le differenze nell’orchestrazione o nella sovrapposizione tonale e plurimelodica che egli affianca ai vari interventi lirici dei personaggi. Anche perché, mi sia consentito, non è detto che se la partitura voglia che per pura casualità, dovuta all’indipendenza melodica di ciascuna parte, si crei un accordo di mi maggiore, e qui parlo per iperbole, noi si debba con certezza affermare che lì si crei un centro tonale riconducibile davvero a “mi maggiore” nel senso tonale del termine; e che non si tratti invece più probabilmente del frutto del cammino indipendente di due, tre o quattro parti che accidentalmente nel loro percorso si incontrano secondo un criterio puramente empirico su un accordo di mi maggiore, il quale, magari, a conferma di tale “involontarietà”, scompare una o due battute più tardi, senza lasciare traccia del presunto – e ingiustificato – centro armonico e tonale che spasmodicamente finiamo per cercare durante le nostre analisi viziate di forma e accecate dal nostro background intriso di “ottocentite acuta”.

Il brano inizia con 34 battute di introduzione in cui l’orchestra da sola espone un elucubrazione sul tema delle viole in battuta “1”, senza creare un impianto tonale, come precedentemente detto, e presentando nient’altro che spunti imitativi, continui cambi di tempo, e quindi, instabilità metrica consequenziale alla mancanza di un battere scandito con regolarità.

“come fu fatto il giudizio e come è passato tanto tempo in sino che Socrate fosse fatto morire?”. Queste parole sono recitate con cadenza parlata, grazie all’utilizzo – presente costantemente in tutto il brano – delle figure irregolari che aiutano la parte vocale a somigliare ad un recitativo e a conservare gli accenti metrici del parlato. L’orchestra sottolinea con un accordo fisso simile ad un si bemolle minore settima - sporcato dalla presenza di un sol bemolle - il quale culmina su un mi bemolle maggiore nona anch’esso contaminato dal sol bemolle estraneo alla tradizionale armonia che avrebbe a questo punto un significato simile ad un “II – V”.

Prontamente celesta e legni spezzano questo principio di tonicizzazione suggerendo un motivo oscillante e misterioso, dopo il quale, su un costante tappeto d’archi, ove appaiono di tanto in tanto disegni dei legni, il baritono intona “fu per un caso, perché il di’ innanzi avvenne che fosse coronata la poppa della nave che gli Ateniesi mandano a Delo; quella nave nella quale Teseo una volta partì verso creta e scampato da morte tornossene a casa.” Un nuovo accordo, stavolta assolutamente indecifrabile, vista la vicina concomitanza di intervalli piccoli e fitti, spezza questa atmosfera meramente descrittiva.

“54”: “avevano gli ateniesi fatto voto, se mai fosse tornato salvo, di mandare ogni anno a Delo un’ ambasceria sacra e di non mettere nessuno a morte in fino che la nave sia arrivata a Delo e qua di nuovo tornata”. Durante questa fase descrittiva, avviene la stessa situazione precedentemente descritta, ovvero quella del falso “II – V”, in diversa disposizione, (non potremmo definirla diversa tonalità) ma col medesimo effetto di sospensione.

“63”: “Talvolta passa gran tempo, quando i venti sono contrari”. Detta questa frase, il narratore tace, come ad attendere l’acquietarsi dei suddetti venti. Tale situazione viene resa musicalmente da 15 battute in cui gli archi intonano un ostinato di quarte ascendenti e discendenti, quasi come il moto perpetuo delle onde del mare, mentre il flauto saltella come a simboleggiare il vento, poi via via muore, come anche l’estensione degli archi cala, e l’ampiezza degli intervalli da loro intonati diminuisce via via, e intervengono legni e celesta che creano la tipica atmosfera rilassante, di calma, come del placarsi del mare – consequenziale alla caduta del vento (concomitante col flauto che scende nel suo registro più grave, maggiormente afono, la cui scrittura si allarga dalle semicrome alle minime).

“80”: “Il ricordarmi di Socrate, o parlandone, o sentendone parlare, mi è la più dolce cosa del mondo. A stare li provava dentro me cosa meravigliosa. Non sentivo compassione come uno che vede morire l’amico suo.” Queste parole sono sottolineate da un armonia via via più dolce, più “tonale”, ovviamente sporcate di dissonanze, x il rifuggir il romanticismo, ma certamente più dense di un sentimento umano. Il quale sentimento – incline al testo - non poteva trovare che in un qualcosa di somigliante ad una serie di accordi affini ad una scala maggiore, ed ai suoi gradi minori, una risoluzione calzante, x definire dolcezza, amicizia e compassione.

Ma quasi pentito della soluzione adottata, Malipiero subito spezza l’atmosfera riportando tutti all’erta con una figurazione perentoria di due crome accentate, che danno inizio ad una frase disillusa del narratore: “92”: “Perché al parlare colla faccia mi parea beato e morì con ‘sì forte animo e ‘sì generosamente, e mi somigliava a un ch’andando nell’ Ade ei va non senza voler divino. Sicuro, la giungendo, di starsene bene.” Per descrivere lo stato di grazia e rassegnazione di Socrate, che, pur consapevole della morte imminente, stava tranquillo e fiducioso ad attenderla “beato”, Malipiero valorizza il forte momento testuale con una scarna orchestrazione di soli archi, oboe e celesta. Gli archi, si presume, per mero dovere d’accompagnamento, la celesta, invece, x colorire di ignoto e di surreale la circostanza in cui altrettanto inverosimile pareva l’atteggiamento del condannato a morte. L’oboe interviene a fine frase con un tipico disegno di terza discendente, poi di seconda, come un lamento, morente.

“103”: “Per questo invece di compassione, provavo entro me una passione nuova; una mischianza di piacere e dolore. Io che pensava che fra poco Socrate doveva morire, e tutti quelli ivi presenti erano con l’animo tutti a un modo”. Durante questa confessione dello strano sentimento, Malipiero conferma la scelta dell’accompagnamento d’archi brulicante di cellule atonali e sofferenti, atte a descrivere il contrasto emozionale dell’uomo in pena per l’amico. Ma appena si parla del medesimo sentimento degli altri presenti, probabilmente un sentimento più omologato e simile al comune dispiacere, l’accompagnamento cambia, e dagli archi sono i fiati a “dispiacersi” - col loro accompagnamento e col loro diverso timbro, diciamo col loro diverso umore - x Socrate. E laddove del concetto di morte si fa un epicentro tematico ed emotivo, la cellula iniziale, simbolo di morte, padrona del brano tutto, ed effige dell’umore glodale del dialogo, si ripresenta x la quinta volta. Sarà curioso, in un secondo momento, analizzare nello specifico quando e perché tale frammento ritorna forte, chiaro e immutato nelle undici suddette volte.

“116”. “L’ultima volta ci raccogliemmo molto di mattino: sentimmo dire che la nave era arrivata da Delo e che quel giorno Socrate doveva morire. Come ci vide, disse: […]” Finisce qui il compito del narratore. La sentenza giunge cruda, accompagnata da un movimento omofonico degli archi, che ad accordi, accentati nella battuta irregolarmente così come disposti, sembrano affliggersi e impietrirsi x la sentenza. A rafforzare il pugno della parola, i cori, e il pianoforte, sempre omoritmicamente con gli archi, scuriscono il colore della notizia. Le parole “Socrate doveva morire” vengono poi riprese dall’oboe solista, come una conferma, come un eco della cruda verità, come se tali parole stessero riecheggiando nella testa dei presenti, e forse di Socrate stesso. La frase viene dilazionata in crome, più lente, come nel dissolversi di un pensiero riecheggiante, al quale i legni si aggiungono come pensieri cattivi, ognuno col suo disegno confuso con quell’altro, come avverrebbe nella mente di chiunque avesse ricevuto tale sentenza.

“128”: “che strana cosa è quella che gli uomini chiamano piacere, e come di sua natura comportarsi meravigliosamente verso quello che pare il contrario suo, il dolore”. C’eravamo già soffermati precedentemente su questo particolare momento musicale. Quasi ipnotizzato e incosciente di quanto sta accadendo, Socrate riflette accompagnato dalla celesta, dal pianoforte e dall’arpa, che conferiscono al momento drammatico quel contrasto tale da rendere chiaro il concetto di fede che egli ripone nella morte. Ovvero, la convinzione, presentata poc’anzi dal narratore, che nell’Ade ci sarebbe stata soluzione alle pene terrene.

“140”: “Ecco, io aveva dolore qui al piede per le catene, ora toccandolo ci sento piacere.” E come al sopraggiungere di un barlume di lucidità, in vista della morte, Socrate minimizza quello che fino a poc’anzi rappresentava un grande dolore. Il tutto viene sorretto da violini acutissimi, seguiti dall’ormai classico oboe solista che ribadisce il tema della morte.

“145” “io per lo passato immaginatami che il sogno m’incoronasse e comandasse a fare quello che io già faceva. Come coloro che confortano a correre quelli che già corrono. Confortando me il sogno a fare musica figuravami ch’ei mi volesse dire di seguitare a fare filosofia essendo la filosofia la più grande musica che sia nel mondo” Se le prime parole esprimono rimpianto e sono accompagnate dagli archi in maniera piuttosto sommessa e rassegnata, la dove il rimorso cresce, cresce anche la rabbia e il volume della musica, che simboleggia la disperazione di Socrate per i sogni infranti. In poche battute, infatti, il tema di morte appare ben due volte, come in una globale intensificazione di stati d’animo. Tale tema da battuta “159” diviene spunto di sviluppo ulteriore, in virtù del gioco che ne fanno violoncelli e contrabbassi, x alcune battute, cambiandone metro e ritmo, figurazioni e accenti, ma lasciandone la costante rabbiosa e la tematica chiara e udibile. La rabbia viene incarnata da corni, legni, violini, in un crescendo improvvisamente interrotto a battuta “165” ove il rimpianto pare tornare, i registri si abbassano, come i volumi, e gli archi scompaiono.

“168” Socrate torna infatti a piangere amare parole: “Se io non credessi veramente di andare presso altri sapienti iddii e buoni e anche presso uomini migliori di quelli vivi, non avrei torto se m’attristassi della morte. Sono consolato dalla speranza che di la sarà alcuna cosa di meglio per i buoni che per i malvagi.” Per il tipo di supplica, Malipiero s’avvale di una forma di recitativo differente. Mentre prima la melodia sobbalzava su e giù in preda alle più umane varianti di stati d’animo, ora le parole di Socrate escono come un filo di voce senza una vera intonazione, e procedono sulla stessa nota salendo di grado solo due volte, e ricoprendo appena lo spazio di una terza come se un piccolo sforzo per parlare volesse in realtà farlo senza averne voce e facoltà. L’accompagnamento è quanto di più scarno si possa immaginare dato il momento. Dapprima il pianoforte e gli archi, e poi solo questi ultimi, procedono con un disegno di figure lunghe, con accordi minori, maggiori, e poche contaminazioni atonali. Si coglie così come l’autore nei momenti di massima intimità, non sappia resistere al suo impeto romantico che solo nei momenti più discorsivi riesce a rifuggire con la ponderazione, ma nei momenti di maggiore innalzamento spirituale, le soluzioni finiscono per essere quelle più istintive e più somiglianti al tonale.

“178”: Tali parole culminavano come detto su un “forte”. Forte che la voce appena accenna, e che l’orchestra sottolinea con un grave. Una sorta di botta e risposta tra basso (pf. e fg.) e accordo (tutti). Come un eco questa situazione ripetuta tre volte muore, e interviene nuovamente Socrate: “Mi chiama ora il fato, è quasi l’ora ch’io vada al bagno, perché mi par meglio bere il veleno dopo lavatomi.” Il tutto sottolineato dal medesimo accordo (quello su cui c’era stato il botta e risposta).

“186”: Singolare disegno dei legni, che in entrata canonica intraprendono un movimento melodico di minime, forse a simboleggiare Socrate che procede verso il bagno (soluzione onestamente inverosimile e banale) tanto più che non si giustificherebbe il pizzicato degli archi, intervenuto saltuariamente nel giro di quattro battute.

“190” i violoncelli procedono per crome puntate intervallate da pausa, e il loro disegno viene preso melodicamente dalle viole, delle quali clarinetto e oboe rubano un frammento, come nel più tradizionale degli sviluppi, mentre i violini, prendono la testa del frammento, ovvero le prime quattro crome seppur variandone le alterazioni, e il tutto serve a fare da preambolo x l’entrata dell’oboe a battuta “197” che anticipa la voce narrante che poi intonando le medesime note parlerà: “ed ecco entrare il ministro degli undici”, subito accolto nella sua severità da un accordo grave e greve (il quale simboleggia la pesantezza caratteriale e forse, chissà, anche fisica, di questo nuovo personaggio) di archi bassi, grancassa, fagotti e pianoforte.

Ed il ministro così parla: “200”: “ora da poi che sai quale novella ti sono venuto a portare ti saluto e fa di sostenere in pace ciò che è di necessità”. Accordi fissi e gravi nel registro e nel tipo di sonorità fanno da tappeto a questo annuncio. “Saluto anco a te, così faremo” dice Socrate, armomizzato sempre “ottimisticamente” dai legni, ma quasi spazientito dalla calma di Socrate, il ministro esclama “Dopo che tu hai bevuto cammina in sino a che tu non senta le gambe tue venire gravi. Ti coricherai poi, e così sarà finito”. A tale spazientito annuncio, l’orchestra commenta con un elevazione tachicardica del ritmo, commentato dal rullo del piatto sospeso, i tremoli del violoncello, i colpi bassi e secchi del fagotto, e, immancabile, a fine sentenza, il tema di morte intonato dal flauto che accompagna l’uscita di scena dell’infausto foriero di morte.

“215” Fedone, voce narrante: “Noi che in sino allora c’eravamo fatti forza di non piangere, come lo vedemmo bere, non potemmo più. A me subito dagli occhi sgorgarono forte le lacrime e mi copersi la faccia col pallio. Piangevo me, non già lui, piangevo la mia disgrazia rimanendo abbandonato da tale amico.” Durante queste parole, Malipiero sostiene con archi, i quali dapprima sono rispettosi del pianto di Fedone, poi, con l’ennesimo annuncio delle viole del tema di morte, subito replicato in maniera lievemente variata dall’entrata dei violini, il dramma s’accende, e il frammento viene ostentatamente spezzato in crome agli archi, in un crescendo in cui i legni incessantemente procedono con un disegno di semiminime. Infine i violoncelli, come era già accaduto in precedenza, prendono il tema di morte e ne fanno un disegno irregolare di crome il cui battere capita sfasato ora a inizio misura, ora in finale, ora nel mezzo (232 -> 234) mentre il lamento dei violini s’acquieta x intervalli discendenti, ovviamente di terza.

“235”: “e le ultime sue parole furono”: Socrate: “dobbiamo un gallo ad Esculapio, dateglielo, e non ve ne dimenticate. Evidentemente Socrate in questo ultimo pensiero era già avvelenato, e tale concetto di agonia, camuffata soltanto in apparenza dalla lucidità di tali parole, viene espressa da un accompagnamento d’archi intrecciato nei registri, come un verme che si contorce nella testa del morituro.

“240” Archi acutissimi, dopo una rapida ascesa di registro; rapida quanto l’ascesa di Socrate al cielo. Angelici archi dal sapore un po’ amaro e stridente, salutano le ultime parole di Fedone “Lo sguardo gli si impietrò, e Critone gli chiuse la bocca e gli occhi”. Puntuale, l’ultimo tema di morte, anzi il penultimo. Manco a farlo apposta è l’oboe ad intonarlo, in saluto a Socrate.

E come detto, a battuta “244” avviene la più geniale delle trovate di Malipiero. Toccante momento, da non contaminarsi con la ponderazione, ma da giocarsi tutto sull’istinto, sugli accordi romantici, toccanti, spontanei. E allora prima pianoforte, corni e archi bassi, poi legni e celesta, poi violini e arpa, intonano quel tema preso a gruppi in modo canonico, in cui si rende perfettamente l’idea della morte, dell’entrata in un nuovo mondo, dove tutto è più “tonale”, più bello, più celestiale, più leggero. Potrebbe finire così, ma a Malipiero non basta. A battuta “252”, durante il crescendo, estatico, o forse drammatico, egli stesso ci da la soluzione per interpretare tale innalzamento sonoro. Il fagotto urla il tema di morte x l’ultima volta, come detto all’inizio, forse perché solo da morto Socrate s’è reso conto di quello che davvero gli stava capitando, e del triste, irrimediabile epilogo. Il crescendo, l’urlo, e più nulla. Solo la morte.


Considerazioni personali: dall’opinione alla forma, sensazioni e intenzioni.

Mi sono trovato ad affrontare Gian Francesco Malipiero alla tenera età di 18 anni non ancora compiuti, e per giunta con un background artistico assai più limitato di quello attuale. Non nascondo che l’impressione epidermica che questo autore mi ha trasmesso è stata di disgusto, di antimusicalità, di fastidio, per intenderci. Senza contare la difficoltà esecutiva dei dialoghi, visto che il brano non ha alcuna riconducibilità alle forme tradizionali di stesura; si consideri che di “classico” c’è solo la presenza di una cellula motivica, la quale potrebbe essere definita tematica x la ricorrenza che assume nel dialogo in questione, e per il fatto che bene o male il brano sembra gravitare con una certa intenzione e intensità attorno al volerla modificare, ampliare, ripresentare, come a renderla spesso significante del significato che la parola già esprime a pieno.

Ho quindi abbandonato Malipiero dopo le forzature preadolescenziali x 5 lunghi anni, per poi riscoprirlo un giorno di pochi mesi fa in preda ad un inatteso attacco di nostalgia misto a curiosità. Era come se volessi sentirlo per vedere l’effetto che mi faceva. Mi sarebbe piaciuto o avrei ancora avuto fastidio nell’ascoltarlo? E così ho riveduto con occhi – e con orecchie, a questo punto – più maturi e preparati l’atonalità tediosa di Malipiero, gustandola con un certo distacco, ma percependone le intenzioni che un tempo dovevano per forza sfuggirmi a causa della mia impreparazione all’ascolto e all’analisi. Così ho colto le affinità tra il dialogo e la musica, un processo compositivo vecchio come il mondo, in cui entrambe le componenti sembrano assecondarsi. Quello che però mi ha anche fatto riflettere è stato che non sempre la musica e il testo sono strettamente l’una descrittiva e l’altra narrativa. La correlazione talvolta muore dove l’esigenza musicale fine a se stessa diviene preponderante, così che la parola diventi autonoma e da sola significhi quello che è necessario, senza che ci sia il “classico” accompagnamento che ne crea l’atmosfera.

Sono a tutt’oggi affascinato dal distacco che Malipiero crea tra se e gli schemi, ma dalla fedeltà che egli accorda con taluni metodi. Lo definirei un compositore autonomo ed accondiscendente, che sfrutta i canoni passati, tipo l’accompagnamento umoristicamente fedele al testo, anche se non vi si vuole sentire obbligato, e che a suo piacere stravolge e se ne frega se ad un certo punto vuole scrivere una nota anzicchè un'altra a prescindere dai presunti obblighi testuali, ormai piuttosto banali e quasi del tutto sorpassati.

E per l’ennesima volta citerò il finale. Quel giorno, riascoltando il cd ho ricordato quanto le dissonanze del finale mi facessero accapponare la pelle, e adesso invece assumono il significato di morte, e quindi hanno tutto un altro colore. Le ho apprezzate nella loro genialità, che non è solo musicale, ma in questo caso assolutamente legate al testo. Anzi, mi spiegherò meglio. Tali accordi, in se, non hanno nulla di geniale, musicalmente parlando. È in virtù del fatto che rendono ineccepibile l’atmosfera testuale che diventano geniali e incredibilmente calzanti.

Che cosa voglio concludere con questo? Che Malipiero in definitiva fa la scelta giusta al momento giusto, crea in base al testo, ma non lo segue pedissequamente. C’è un idea testuale e un idea musicale. Esse a mio modo di vedere non procedono parallelamente, in simbiosi, ma solo alcune volte, secondo la sua volontà, si incontrano. E proprio il fatto che l’incontro sia fortuito e che avvenga di tanto in tanto, rende il tutto più innovativo e creativo. Tanto che non c’è volta in cui - durante l’incontro - testo e musica non si sposino meravigliosamente.