Utente:Valeria D'Itria/Sandbox

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Il Mulino di Dolo

I MULINI DI DOLO[modifica | modifica wikitesto]

STORIA[modifica | modifica wikitesto]

Le prime notizie storiche compaiono intorno al 1400 ed identificano il paese come “Ca’ del Bosco” anche se in altri documenti dello stesso periodo si trovano tracce del nome “Dolo”. L’etimologia del toponimo “Dolo” è incerta e misteriosa, alcuni studiosi ne hanno ipotizzato la derivazione:

1.     Potrebbe derivare dal gentilizio veneziano Dandolo, che ebbe una notevole influenza sul territorio il quale ne prese il nome dopo la caduta dell’iniziale “Dan-”

2.     Derivazione dal nome personale “Davus” trasformato poi “Davulus” e “Dadulus” da cui per contrazione si sarebbe arrivati a “Daulus” e dunque “Dolo”

3.     Nel 1978 lo studioso Alessandro Baldan, dopo aver consultato un professore dell’università di Atene, ipotizza che il nome derivi dalla famiglia Dauli che in greco significa “da luoghi boscosi” da cui la derivazione di “Ca’ del Bosco” quindi il nome Dolo sarebbe una traduzione linguistica dal greco all’italiano elaborata da un umanista del XV secolo

4.     In un grande disegno del 1463 viene raffigurato sopra la sponda settentrionale del Brenta una torre difensiva che in latino veniva chiamata “dolon”, il nome del paese potrebbe quindi derivare dalla caduta della “-n”

5.     Mario Poppi ha ipotizzato che il nome derivi da un esponente della famiglia Dotto, Dolo Dotto, personalità molto importante ed influente, le case dove abitava vennero chiamate “le case del signor Dolo” e con la caduta del termine “signor”, divenne “le case del Dolo”; nel 1460 il luogo faceva riferimento al nome del nobile padovano e venne così registrato ufficialmente in una delibera dello stato come punto geografico.

 La posizione geografica di Dolo e la sua vicinanza con la via Annia fanno presupporre che sia stata una stazione di posta romana, il suo sviluppo inizia, però, solo nel Basso Medioevo. Tra il XII e il XIV secolo il comune di Padova, per difendersi dalla Repubblica di Venezia si espande a danno dei comuni limitrofi e della stessa Venezia costruendo numerose città e opere fortificate fornite di uomini in armi, come Stra, Camponogara, Sambruson, Dolo, Mirano, ecc.

Tra il 1405 e il 1406 ha luogo l'ultima guerra tra Carraresi e la Repubblica di Venezia la quale conquista Padova e tutti i suoi territori, Dolo , quindi, passa sotto la Serenissima. Nel 1406 Rambaldo Capodivacca  acquistò 13 campi ad oriente del centro di Dolo che alla sua morte lasciò alla figlia Francesca e  al marito Dolo Dotto il quale propose iniziative di recupero del pascolo e dell'agricoltura. Tra il 1464 e il 1467 Dolo Dotto muore e i territori passano in eredità ai figli. Negli ultimi decenni del XV secolo il territorio ebbe un cospicuo sviluppo dato dalla costruzione dei mulini, pontili e squeri. Il nuovo paese si caratterizzò fin da subito per la vivacità dei commerci e da qui nacque la necessità di unire le numerose ville sotto un unico toponimo e in un unico comune autonomo.

Nel 1507 il paese fu interessato da un’importante novità, per deviare il flusso delle acque dei fiumi fuori della laguna venne aperto un nuovo alveo del Brenta che univa Dolo a Codevigo: la Brenta Nuova. Questa disposizione spianò la strada per quella che diventerà una delle più efficienti risorse economiche della laguna. Nel 1540 il Collegio delle acque emanò un complesso di disposizioni stabilendo che:

·        La Brenta Nuova non dovesse più scaricare a Chioggia ma a Brondolo

·        Fosse intestata la Brenta a Dolo

La delibera apportò un rivoluzionario cambiamento per il paese: “in detta intestadura nel loco sopraddetto del Dollo  sian fatti quelli molini et altri edifici che faran al bisogno come meglio parerà alli  Savii nostri ”. Così nell’estate del 1547 furono poste le basi degli edifici progettati sull’argine sinistro della Brenta Nuova e nel 1551 furono aperti i mulini funzionanti grazie al lavoro di sei ruote fisse, che lavoravano continuamente, e quattro natanti, attivate in occasione delle piene, galleggiavano su zatteroni ancorati al terreno per mezzo di funi. Si decise la costruzione dei mulini per utilizzare al meglio la diversa altezza dei fondali della Brenta Vecchia e della Brenta Nuova, infatti, sul letto della Brenta Vecchia vennero posti degli sbarramenti che contenevano le acque e ne facevano alzare il livello, le acque, così, superavano gli sbarramenti con notevole velocità creando le condizioni per muovere le ruote dei mulini. Nella progettazione erano stati coinvolti i più esperti idraulici del tempo tra cui Cristoforo Sabbadino. Nel 1552 e nel 1553 furono aggiunte otto ruote e nel giro di 70 anni (1551-1620) si arrivò ad un massimo di diciotto ruote costruite totalmente in legno con un diametro variabile da 3 a 5 metri di cui, poi, la Repubblica di Venezia affittò la gestione a privati mantenendone sempre la proprietà. I mulini divennero, per la Serenissima, uno dei possedimenti più preziosi infatti la produttività era talmente alta da procurare all’erario di Venezia il reddito maggiore tra tutte le macine da farina.

I MULINI[modifica | modifica wikitesto]

L’acqua veniva fatta scorrere su due canali ognuno suddiviso in sette corsie controllate da portelle o paratoie di legno e separate tra loro da sei muretti longitudinali su cui poggiavano le estremità esterne dei fusi delle ruote, con l’aumentare delle richieste di produzione si arrivò a far lavorare anche due ruote sulle stessa corsia. L’architetto Vittorio Zonca osservò, nel libro “Novo teatro di machine et edificii” del 1607, che “quanto più corto sarà il fuso, tanto più veloci andranno le macini, ma in questo caso i legnami molto s’affogano, e s’allargano, e disseparano le fusa, e i denti, però fanno di mestieri bonissime spranghe di ferro e i Maestri esperti, che li tengano racconciati, e aggiustati ”. sempre l’architetto nel medesimo libro spiegava le fasi di lavorazione all’interno dei mulini: il mugnaio sollevava la paratoia della corsia, l’acqua irrompeva nell’alveo dove erano immerse le pale della ruota, il fuso della ruota, attraverso un apposito foro aperto nella parete e ampio da impedire pericolosi attriti, trasmetteva il movimento alla seconda ruota dentata la quale faceva muovere un rochello. Il moto, così, cambiava da verticale a orizzontale e arrivava alla mola (macina del mulino) superiore, la mola corrente, che girando sopra quella fissa, la mola giacente o dormiente, sminuzzava i chicchi. Le due mole avevano un diametro superiore ad un metro e pesavano alcuni quintali. Le loro facce interne erano porose e scalpellate in modo che la giacente fosse leggermente convessa, a forma di cono molto schiacciato, e la corrente invece concava; questo meccanismo permetteva alla farina di scivolare meglio verso l’esterno , risultando però scura, poco raffinata e ricca di semola. Furono poi costruiti dei buratti (macchina munita di setacci) che setacciavano la farina separandola dalla semola; c’erano diversi tipi di buratti:

·        Buratto grosso, da cui si ricavava la farina per il povero

·        Buratto medio, si ricavava la farina per il borghese

·        Buratto piccolo, usciva la farina per il nobile che era più sottile e raffinata

Era questa un’industria ben organizzata e redditizia tanto che alcuni investitori della nobiltà veneta, dopo essersi suddivisi il possesso delle ruote, ne affittarono l’uso ai mugnai, con canoni annui proporzionali alla potenza di macinazione.

Verso la fine del Settecento cominciarono a sentirsi i primi cenni del declino dell’industria molitoria di Dolo, infatti in una relazione tecnica del 1798 l’ingegnere P. A. Letter affermava che “ al dì d’oggi li mulini del Dolo sono tutt’altro che li migliori di tutto lo Stato Veneto come erano nel 1733”, suggerendo di “livellare la caduta d’acqua ed innalzar con egual parallelismo anche le ruote e le soglie”. Le modifiche apportate agli inizi del XIX secolo riportarono in attività quattordici ruote.

 La dieta del tempo era sempre più povera e basata sul consumo della polenta, infatti, si cominciarono ad utilizzare sempre di più le macine “da zalo” che macinavano  granoturco o mais, mentre le macine “da bianco”, prima produttrici di segale, venivano impiegate per la lavorazione del solo frumento.

Con l’avvento delle nuove tecnologie e quindi di una maggiore concorrenza tra industrie molitorie vicine, Dolo vide, nel 1900, una necessaria innovazione: per sfruttare appieno la portata del fiume, migliorando la qualità e la quantità della produzione, si passò all’ “alta macinazione”, consistente nel montaggio di due turbine che, mediante cinghie e pulegge, azionavano sia il vecchio complesso molitorio a macine che il nuovo laminatoio a cilindri e il grande buratto. Questa fu l’ultima ristrutturazione che permise ai mulini di macinare frumento e granoturco fino al 1989, data in cui l’ultimo mugnaio, Primo Scarante, andò in pensione.      

BIBLIOGRAFIA[modifica | modifica wikitesto]

  • “Dolo 1406-1581" di Mario Poppi
  • articolo “Un’industria antica, Dolo e i suoi mulini” di Luca Fattambrini
  • fascicolo “I molini di Dolo” scritto da Giuseppe Conton