Utente:Murrecci/Sandbox

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca

<nowiki>Inserisci il testo da non formattare <gallery FURRIADROXUS

I Furriadroxus sono un agglomerato di cascine presenti nel sud della Sardegna, precisamente nella zona del Sulcis.

                                  INDICE

1 La storia

1.1 L'insediamento nel Sulcis: un pò di storia 

2. Architettura

    2.1 L'insediamento 
    2.2 L'uso del territorio 

3 L'organizzazione sociale

    3.1 Le classi sociali 
    3.2 I rapporti sociali 

4 Le attività

    4.1 Le attività produttive 
        4.1.1 L'organizzazione produttiva 
        4.1.2 La divisione del lavoro
        4.1.3 La cooperazione e la competizione 
    4.2 Le attività non produttive 
        4.2.1 Le feste 
        4.2.2 Il tempo quotidiano 

5 bibliografia

LA STORIA

a. L'INSEDIAMENTO NEL SULCIS: UN PO' DI STORIA Il Sulcis nella sua lunga storia ha, per quanto riguarda il File:Numero di insediati, avuto diverse fasi alterne. Gli insediamenti sono legati alla fertilità del terreno, soprattutto per la coltivazione del grano, e alle risorse minerarie che questo territorio da sempre ha offerto. Ma ha sempre dovuto fare i conti con la sua vicinanza alle coste, e di conseguenza alle continue incursioni da parte di popolazioni straniere. In questo mio breve profilo storico non mi occuperò di tutta la storia del Sulcis, ma soltanto degli aspetti legati all'insediamento a partire dal XIII secolo in poi. Stando alle composizioni fiscali pisane 1[[File:]], il Sulcis nel XIII secolo venne caratterizzato dalla nascita di nuovi centri abitati. Nel 1200 si contavano circa quaranta nuclei insediativi, tra cui Iglesias (Villa Di Chiesa durante il dominio pisano, divenne poi Iglesias con la dominazione spagnola2) principale centro urbano della zona, oltre che uno dei principali dell'intera Sardegna. Un grosso contributo al ripopolamento di queste aree, rimaste deserte in seguito alla crisi bizantina, vennero dalla nascita di centri monastici e dalle bonifiche che da questi ultimi furono volute. Questo ripopolamento tuttavia non ebbe lunga durata, già nel 300 inizia una nuova fase di declino. In questo periodo molti abitanti dei piccoli centri di campagna, si trasferiscono verso Iglesias per lavorare nelle miniere di argento. Il crescente potere accentratore di Iglesias, venne confermato anche dal trasferimento della sede di diocesi da Tratalias (paese al centro del Sulcis), verso la cattedrale di Iglesias. Un duro colpo, nei confronti dei piccoli centri avvenne definitivamente con le lotte che segnarono, il passaggio dal periodo pisano-giudicale a quello spagnolo, momento in cui molti piccoli nuclei abitativi scomparvero. Nei primi del 1400 queste terre erano nuovamente spopolate, e chi è sopravvissuto alle lotte tra pisani e spagnoli, ha dovuto fare i conti con i barbareschi 3 e con la peste arrivata ad Iglesias nel 14764. Le Lannou5 cita il Fara che nel 1586 descrive un gran numero di villaggi distrutti dalle incursioni dei Barbareschi, a ciò possiamo aggiungere la petizione della città di Iglesias al parlamento del 1583-1586 in cui si sostiene : « Le terre della provincia del Sulcis più vicine al mare sono assolutamente deserte; degli audaci hanno cercato di andare a dissodarsi qualche pezzetto di terra o a sfruttarvi un po' di pascolo, ma hanno pagato il loro coraggio con la schiavitù in Barberia»(Archivio di Stato di Cagliari, Atti del Parlamento, 1583- 1586). Sempre il Le Lannou parla di un ripopolamento del Sulcis avvenuto nel XVIII secolo, in concomitanza con quello della Gallura, per lo sfruttamento dei terreni incolti 6. Non mancano però documenti che attestano l'occupazione dei territori fin dal XVI secolo, da parte di pastori barbaricini, che con le loro greggi praticavano la transumanza in cerca di un clima più mite rispetto a quello del centro Sardegna. I terreni per il pascolo venivano concessi temporaneamente dal vescovo di Iglesias o da feudatari in cambio di una piccola tassa o fitto. «I pastori transumanti, poi, col tempo, per concessione baronale si costituiscono delle proprietà private su aree più o meno vaste, e infine contribuiscono alla colonizzazione di zone incolte» (Gian Giacomo Ortu, 1981: 42). I pastori costruivano nei territori a loro concessi, delle capanne di argilla e frasche,cinte da un muretto a secco. Queste abitazioni sorgevano sempre ad una certa distanza dalle coste, per la continua paura di incursioni barbaresche. Le Lannou identifica questi primi insediamenti come furriadroxus, facendo derivare tale termine dal verbo sardo furriai, che lui traduce in questo modo: «spingere un gregge per riunirlo»7. In realtà furriai si traduce con “rientrare” ed è spesso usato per le persone, la traduzione data dal Le Lannou corrisponde al termine accorrai usato per gli animali8. Quando gli insediamenti erano grossi con più muretti a secco a delimitarli, si parlava di boddeusu. Questa denominazione è ricavata dal verbo boddiri, che Le Lannou traduce così «riunire, raggruppare »9. Ma anche, questa traduzione non è corretta. In quanto il termine boddiri si traduce con “raccogliere”10, il che farebbe pensare più a degli insediamenti di tipo agricolo, piuttosto che pastorali, al contrario di ciò che sostiene Le Lannou. Stando a Vittorio Angius11, i boddeusu sarebbero nati per l'esigenza, da parte delle persone che vivevano in case sparse, di riunirsi vicino alle chiese che in questi luoghi erano presenti in quanto,costruite dai precedenti abitanti. In effetti ancora oggi, nei paesi del Sulcis, si può notare come i centri storici siano sempre attorno alle chiese, mentre le costruzioni più recenti si trovano disposte nel modo che A. Sanna definisce “centri strada”12 , ossia disposte sul ciglio della strada. Le nuove costruzioni sono dunque proiettate verso le vie di comunicazione, verso l'esterno. Al contrario, i furriadroxus hanno mantenuto una forma circolare, chiusa che marcava il carattere di autosufficienza che questi insediamenti sparsi avevano. Tornando ai boddeusu essendo dei centri divenuti più grandi, quindi più simili a villaggi, rispetto ai furriadroxus, lo stato sabaudo iniziò ad avviare nei confronti dei boddeusu, funzioni amministrative di base in modo tale da creare veri e propri villaggi. In sintesi, i boddeusu non erano altro, che alcuni degli attuali piccoli comuni del Sulcis ossia: Tratalias, Suergiu, Santadi, Nuxis, Masainas, Narcao, Villa Villaperuccio, Villarios e Palmas. Gli insediamenti passarono da temporanei a stabili, all'incirca dopo il 1750, quando le coste erano ormai più sicure. A questo punto i primi coloni iniziarono a far arrivare le proprie famiglie e le abitazioni da capanne diventavano case in muratura, aumentava l'uso della terra per attività agricole e ai primi pastori si unirono coloro che avevano perso il lavoro nelle miniere dell'Iglesiente in seguito alla crisi mineraria, andando dunque a formare quegli insediamenti di case sparse ancora vive nel Sulcis note come furriadroxus. Nel XVIII secolo con l'avvento del governo piemontese, ci fu un' ulteriore spinta verso la ripopolazione del Sulcis. I sabaudi non solo rilanciarono vecchie cittadine come S. Antioco e Portoscuso, ma ne fondarono di nuove: Carloforte, Gonnesa e Calasetta.13 Queste nuove città erano caratterizzate da una fiorente attività di pesca che, per lo meno in termini di storia recente, non era tra i principali impieghi dei sardi. Per quanto riguarda i boddeusu, col tempo aumentarono la loro importanza fino a divenire completamente autonomi da Iglesias. Con una legge del 1853 il Sulcis venne diviso in cinque circoscrizioni comunali14. «Solo dopo la legge dell'11 luglio 1853, i principali Boddèus vengono eretti in comuni, e Santadi è scelta come capoluogo del dipartimento. Di questa contraddizione Santadi porta tuttora il segno: insieme a Santadi Basso ed a Terresoli si è costituito il tipico complesso di “centri di strada”, allungati sui principali assi di comunicazione, ma comunque molto distanti dagli oltre 40 nuclei rurali( molti dei quali ad oggi del tutto spopolati ed in parte distrutti) sparsi su migliaia di ettari di territorio» (Antonello Sanna 2008: 21). Alla fine del 1800 Santadi risulta essere il comune più popolato del Sulcis, tenendo conto del fatto che inglobava Nuxis, Villaperuccio e Terresoli, arrivava ad avere 3768 abitanti stando al censimento del 1881. La crescita del comune di Santadi era dovuta anche allo sfruttamento delle sue foreste, da cui si ricavava carbone da legna. Nonostante la tendenza di addensarsi verso i nuovi comuni, i furriadroxus hanno comunque continuato ad essere una presenza costante e diffusa all'interno del territorio del Sulcis15. In un primo tempo, gli spazi adibiti a pascolo, (che tra l'altro erano molto vasti) potevano essere sfruttati da tutti. Ma in un secondo momento,per volontà del governo Piemontese, si cercò di tutelare in tutta la Sardegna i raccolti dal bestiame e vennero in tal senso applicati diversi provvedimenti: il primo risale al 1771, in cui con un'ordinanza si dava il permesso ai proprietari privati, di chiudere con siepi o muri i propri terreni a condizione che all'interno si coltivasse fieno che doveva poi essere custodito negli appositi fienili o aie. La possibilità di chiudere era considerata decaduta nel momento in cui non si procedesse con la coltivazione e raccolta del fieno; secondariamente vi fu l'editto del 1806, che aveva lo scopo di incentivare la produzione di olio. L'editto in questione, sosteneva che tutti i possessori di terreno avevano facoltà di chiuderli se procedevano con l'innesto degli olivastri. In tal senso si arrivò ad offrire titoli nobiliari, a chi avesse innestato o piantato quattromila olivi; ma fu l'editto delle chiudende del 1820, a sancire definitivamente la possibilità per i proprietari terrieri, di chiudere qualsiasi terreno che non fosse soggetto: a servitù di pascolo, passaggio o abbeveratoio. Dello stesso diritto potevano godere anche i comuni sui loro terreni, che potevano anche dividere in parti uguali tra i capi famiglia o venderli o darli in affitto. Questa normativa nel momento dell'applicazione non fu controllata a dovere, di conseguenza molti proprietari ne abusarono, recintando ampie porzioni di territorio, andando oltre quelli effettivamente posseduti16. Ecco cosa scrive a tal proposito la Reale Udienza nel 1830: «Una legge molto saggia, che doveva provocare la prosperità di quest'isola attraverso il progresso dell'agricoltura, favori, in effetti, per il modo in cui fu applicata, soltanto i ricchi e i potenti, che non esitarono affatto a chiudere immensi spazi di terra d'ogni genere, senza alcuna intenzione di migliorarne il sistema agricolo, ma col solo proposito di far pagare molto cari ai contadini e ai pastori la facoltà di seminarvi o il diritto di farvi pascolare le greggi»(Le Lannou 1979:157). I piemontesi volevano imporre la loro idea di “proprietà perfetta”, dopo aver visto le condizioni della Sardegna, caratterizzata da scarsa proprietà individuale, carenza di recinzioni, produzione scarsa e scadente dei prodotti (soprattutto pastorali), attrezzi arcaici e un numero di piante da frutto e da ardere limitato. Non tenendo conto però delle problematiche, che cosi facendo, avrebbero creato ad una fetta importante della popolazione sarda costituita da pastori (a cui veniva negato l'accesso a territori di pascolo un tempo sfruttabili) e piccoli agricoltori (che non avevano i mezzi per poter recintare)17. Ulteriormente a discapito dei pastori, vene emanata nel 1839 la Carta Reale, che divideva il territorio in privato, comunale e demaniale. Oltre a non concedere territori ai pastori, avevano anche aumentato le loro tasse, mentre nel settore agricolo venivano diminuite. A questo punto è abbastanza evidente l'intento del Piemonte di incentivare l'agricoltura a discapito della pastorizia. Come se non bastasse nel 1851, l'amministrazione sabauda decide di togliere la servitù di pascolo dal vidazzone e dal paberile. I territori non erano dunque più amministrati dai comuni ma dai privati, che richiedevano, da parte dei pastori, il pagamento di un canone in base ai capi di bestiame introdotti nel proprio territorio18. « Si evidenziava una novità assoluta: l'accordo non era più di pertinenza dell'amministrazione comunale ma degli stessi privati che, per la prima volta, entravano in un rapporto diretto» (Maxia, 2006: 121). Vi erano dunque tutti i presupposti per creare una situazione in cui i pastori si trovavano ad avere una posizione subordinata nei confronti dei proprietari terrieri.