Utente:Malta95/Sandbox

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca

Espedienti comici

[modifica | modifica wikitesto]
  • All'inizio della commedia, più precisamente nella prima scena del primo atto, Demeneto ordina a Libano di dirgli tutto quello che riguarda l'amore del figlio per Filenia usando l'espressione:
(LA)

«Teque obsecro hercle ut quae locutu's despuas.»

(IT)

«Ti scongiuro, per Ercole, di sputare questa parola.»

(v.39)

Libano, al posto di confessare quello che sà, sputa nel vero senso della parola.

  • Demeneto, durante la prima scena, impone al servo:
(LA)

«Me defraudato.»

(IT)

«Derubami!»

(v. 92), per sottintendere i derubare la moglie la quale era l'unica a possedere il patrimonio familiare.

  • Demeneto ordina a Libano di derubare la moglie del denaro e di utilizzarlo per pagare Filenia ad Argirippo. Nella prima scena del primo atto, Libano, rivolto al padrone, gli risponde che è un'impresa impossibile usando un paragone divertente:
(LA)

«Iubeas una opera me piscari in aere venari autem rete iaculo in medio mari.»

(IT)

«Tanto vale che mi ordini di pescare in cielo o d'andare a caccia col giacco in alto mare.»

(vv. 99-100)

  • Dopo aver rassicurato Libano che, nel caso in cui il piano di derubare la moglie non andasse a buon fine le conseguenze non si sarebbero riversate sul servo, Demeneto chiede al servitore dove lo avesse potuto trovare in caso di bisogno. Libano risponde tra sè e sè:
(LA)

«Ubicumque libitum erit animo meo.»

(IT)

«Dovunque me ne salterà il ghiribizzo.»

(v. 111)

  • Durante l'accesa conversazione con Diàvolo, Cleereta paragona il suo mestiere a quello del cacciatore di uccelli:
(LA)

«Non tu scis? Hic noster quaestus aucupi simillimust. Auceps quando concinnavit aream, offundit cibum. Aves adsuescunt: necesse est facere sumptum qui quaerit lucrum. Saepe edunt; semel si sunt captae, rem solvunt aucupi. Itidem hic apud nos: aedes nobis area est, auceps sum ego, esca est meretrix, lectus inlex est, amatores aves.»

(IT)

«Devi sapere che il nostro mestiere è assai simile a quello del cacciatore d'uccelli. Il cacciatore d'uccelli, preparato il terreno, vi sparge il becchime. Gli uccelli ci prendono l'abitudine: bisogna spendere, se si vuol guadagnare. Essi vengono spesso a beccare, e, una volta presi, risarciscono le spese della caccia. Da noi è lo stesso: il nostro terreno è la casa; il cacciatore sono io; l'esca è la ragazza, lo zimbello è il letto, gli uccelli sono rappresentati dagli amanti.»

(vv. 215-221)

  • Durante la scena seconda dell'atto secondo, l'incontro e il reciproco saluto tra Libano e Leonida fa intendere, in modo scherzoso, la consapevolezza della propria condizione schiavile dei due personaggi.
(LA)

« LEONIDA: Gymnasium flagri, selveto.
LIBANO: Quind agis, custos carceris?
LEONIDA: O catenarum colone!
LIBANO: O virgarum lascivia!
LEONIDA: Quond pondo ted esse censes nudum?
LIBANO: Non edepol scio.
LEONIDA: Scibam ego te nescire: at pol ego qui te(d) expendi scio. Nudus vinctus centum pondo es, quando pendes per pedes.
LIBANO: Quo argumento istuc?
LEONIDA: Ego dicam quo argumento et quo modo. Ad pedes quando adligatumst aequum centumpondium, ubi manus manicae complexae sunt atque adductae ad trabem, nec dependes nec propendes, quin malus nequamque sis.
»

(IT)

«LEONIDA: Ti saluto, campo d'addestramento degli staffili!
LIBANO:Come va, guardia del carcere?
LEONIDA:O cultore delle catene!
LIBANO: O sollazzo delle verghe!
LEONIDA:Quanto credi di pesare, nudo?
LIBANO: Non lo so , per Polluce!
LEONIDA: Lo sapevo che non lo sapevi: ma lo so io, per Polluce! - io che t'ho soppesato. Il tuo peso, quando pendi per i piedi, nudo e incatenato, è di cento libbre.
LIBANO: E le prove?
LEONIDA: Le prove? Te le darò. Ecco qua: dopo che t'è stato legato ai piedi un bel peso da cento libbre, quando le mani sono strette tra i ceppi e spinte contro la trave, tu pesi nè più nè meno di un briccone buono a nulla.»

(vv. 297-305)

  • Il mercante giunge alla porta dell'abitazione di Demeneto per consegnare il denaro al servo di Artèmona, Saurea. Libano, che sapeva dell'arrivo del mercante e aveva accordato precedentemente il piano con Leònida per ingannare il mercante e sottrargli la somma di denaro, apre di scatto la porta e si rivolge in modo sgarbato con il mercante:
(LA)

« LIBANO: Quis nostras sic frangit foris? ohe, inquam, si quid audis.
MERCANTE: Nemo etiam tetigit: sanusne es?
LIBANO:At censebam attigisse propterea huc quia habebas iter. Nolo ego foris consevas meas a te verberaries; sane ego sum amicus nostris aedibus.
MERCANTE: Pol haud periclum est cardines ne foribus effringantur, si istoc exemplo omnibus qui quaerunt respondebis.
LIBANO: Ita haec morata est ianua: extemplo ianitorem clamat, procul si quem videt ire ad se calcitronem. Sed quid venis? Quid quaeritas?
»

(IT)

«LIBANO: Chi sta fracassando la nostra porta? Ehi dico, mi senti?
MERCANTE: Nessuno l'ha ancora toccata. T'ha dato di volta il cervello?
LIBANO:Ah! Credevo che avessi picchiato, perché stavi dirigendoti qua. Non voglio che tu batta questa porta, mia compagna di schiavitù; le sono affezionato.
MERCANTE: Per Polluce! Non v'è pericolo che si possa scardinarla, se risponderai in questo modo a tutti coloro che chiedono di te.
LIBANO: E' una porta ammaestrata, questa: chiama sùbito il portiere, quando da lontano vede venir qualcuno che vuol prenderla a calci. Ma qual è il motivo della tua venuta? Che vai cercando?»

(vv.384-392)

  • Nella quarta scena del secondo atto, durante la conversazione tra Leonida, fintosi Saurea come precedentemente stabilito, Libano e il mercante, poichè il mercante non si fida se il Saurea che ha di fronte è quello a cui deve consegnare la somma di denaro, Leonida pensa tra sè e sè:
(LA)

«Hercle istum di omnes perduint. Verbo cave supplicassis!»

(IT)

«Per Ercole! Che gli dèi tutti l'annientino!»

(v.467)