Utente:IreneSileo/Sandbox

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La nona ecloga.

Licida incontra per caso Meri, che conduce i capretti al nuovo padrone, un veterano, quello che ha cacciato via Menalca; dal discorso si apprende che purtroppo Menalca non è riuscito ad avere salvi i suoi beni e a nulla gli hanno giovato i carmi. Su Menalca, che è il vero protagonista del carme, si è abbattuta la vera catastrofe. Licida per dare sollievo a Menalca, gli ricorda le promesse fatte dai triumviri: in grazia dei suoi canti avrebbe potuto mantenere i suoi canti. Menalca, però, non trova conforto nelle parole di Licida. Egli incarna ora il personaggio di Melibeo della prima ecloga. Ma, mentre questi accettava l'esilio a fronte alta e con tutte le sue conseguenze, rinunciando a vedere per sempre il tetto della sua casa, Menalca invece rimane. Verrà ancora a implorare presso Varo pietà per la sua Mantova. Meri, il servo di Menalca, ora passato ad altro padrone, va <<dove mena la via>>, e la via porta a Mantova, come si comprende dal v.27 e 59; ancora tutto sgomento di quel che ha veduto, egli narra che gli sono accadute cose, quali da vivo non avrebbe mai immaginato; un estraneo,come se fosse il padrone, gli ha detto : <<Questi campi sono miei;voi, vecchi coloni, andatevene>>. Sebbene sia un servo, quel campo è anche un poco suo. Deplora che la violenza si sostituisca al diritto; che i coloni romani, da due secoli stanziati nella pianura padana, ne siano cacciati. Non soltanto la pianura padana, ma tutta la repubblica romana è sconvolta dalle guerre civil; l'atto di accusa è contro Varo, ma non risparmia neppure Ottaviano. Licida si stupisce, perché aveva inteso dire che Menalca, grazie ai suoi canti, conservava la terra che si stende da quella parte, ove i colli prendono a declinare in dolce pendio, fino ai canali e ai vecchi faggi ormai scapezzati. I carmi di Menalca erano allora meritamente famosi, se avevano suscitata l'ammirazione di Pollione e di Varo, governatori della Cisalpina. Ma i canti hanno al momento della guerra la medesima forza delle colombe all'appressarsi dell'aquila. Se da sinistra gracchiando una cornacchia non avesse avvertito Meri di troncare ogni lite, a quest'ora né Meri, né lo stesso Menalca sarebbero ancora in vita (vv.11-16). Licida si stupisce che sia commesso un tale reato; non pare possibile che Menalca, suo conforto nei canti, sia stato sul punto di essere ucciso insieme a Meri. E chi allora canterebbe le Ninfe, il suolo cosparso d'erbe in fiore e la verde ombra dei fonti? Chi intonerebbe quei canti che Licida stesso ha udito da Menalca, quando si recava da Amarillide,communis amica? Meri preferisce ricordare altri versi, non ancora rifiniti, che Menalca cantava per Varo,il qaule aveva la facoltà di assegnare o no i territori di Mantova ai veterani. Cremona fu punita con la confisca poiché aveva parteggiato per Bruto e Cassio contro i triumviri; non bastando i territori di Cremona, fu aggiunta-per disposizione di Varo-anche Mantova, che dista da Cremona poche miglia. Licida prega Meri perché gli reciti qualche altro verso di Menalca. Anche Licida, per volere delle Muse, aveva composto versi; sebbene i pastori lo dicano poeta, lui non ci crede.Tutto il passo è ricalcato su un'arguata scena dell'Idillio settimo di Teocrito. Licida non ritiene di essere ancora giunto alla pari con i due maggiori esempi e modelli della poesia neoterica: Rufo e Cinna. È come un'oca a confronto dei canori cigni. Meri concentrandosi vede se riesce a ricordarsi del canto: una bella imitazione dell'idillio undicesimo di Teocrito, dove Polifemo supplica Galatea, comparsa sulle onde del mare, perché si rechi presso di lui, in una situazione molto simile a quella della seconda ecloga, dove Coridone pastore invita Alessi cittadino; qui, invece, della campagna contro la città,c'è la terra contro il mare, la quiete dell'una contro il turbamento dell'altro (vv.37-43).Nei versi successivi Licida chiede se Meri ancora ricordi quello che udì cantare in una notte tranquilla, di cui ha in mente l'aria, non le parole. Meri le sapeva, ma l'età gli aveva portato via con tutto il resto anche la voglia di cantare. Gli sono sparite dalla mente tante canzoni; la stessa voce gli è venuta meno (Johnston 1931). Per dare parvenza bucolica all'intermezzo epico-lirico (vv.46-55), il canto s'immagina rivolto a un pastore, e il nome Dafni suona qui, come quello di Titiro e di altri, a indicare un personaggio bucolico, che con intenti agricoli, cerca di trarre pronostici sul raccolto: da quando brilla l'astro di Cesare, non c'è più da indagare l'avvenire, né da temere mali futuri. La cometa, che era apparsa dopo il cesaricidio, fu creduta la prova migliore dell'assunzione di Cesare tra gli dei, di quel Cesare che si considerava nipote di Venere (vv 44-55). Allora Licida rimprovera Meri, che, a forza di scuse, sta eludendo il suo desiderio di udire ancora il canto di Menalca. Ora la distesa delle acque (sono i laghi che circondano Mantova) e i venti si sono quetati. I due pastori sono a mezza strada; si vede apparire il sepolcro di Bianore. Qui, dove la campagna è di una dolcezza infinita (Van Dooren 1930) Meri è invitato a cantare dal compagno : <<deponi i capretti, giungeremo ugualmente in città.>>. Ma il vecchio sconsiglia il giovane amico; non deve insistere, bisogna fare quello che urge; quando Menalca stesso sarà qui, allora si canterà meglio.

Ecloga X[modifica | modifica wikitesto]

Tutta la natura, i pastori, le divinità olimpiche e pastorali, impietosite per il grande dolore di Gallo, amante infelice e non corrisposto di Licoride, prendono parte alle sue pene d'amore, cercando di consolarlo. Gallo, il discepolo di Partenio che a lui dedicò il mitologico trattato dei Ἐρωτικὰ Παθήματα, soffre ora un autentico dolore d'amore; e non per un'eroina del mito, bensì per la volubile e infedele Licoride. V'è nel sottofondo una larvata polemica letteraria: genere bucolico contro genere elegiaco, con dichiarazione della superiorità della bucolica sull'elegia. Lo schema poetico è teocriteo, ma - omaggio a Gallo - il tono è mestamente elegiaco. Il canto, che Titiro aveva iniziato sotto l'ombra di un faggio, è ormai terminato: l'ombra è nociva a chi canta (v. 75); è l'ora di andare. Tutto il passo è imitazione del teocriteo lamento (1, 66 ss.) per la scomparsa di Dafni. Attorniano Gallo malato d'amore i monti d'Arcadia, le pecore e alcuni personaggi bucolici, tra i quali Menalca. Ognuno chiede a Gallo il perché di tanta pena d'amore. Viene anche Apollo e, rivolgendosi a lui chiede perché si dia in smanie, quando ormai la sua Licoride è fuggita con un altro. Licoride è lontana dalla patria; per la sua lontananza Gallo soffre, egli prova dolore nel sapere che Licoride è esposta, oltre che ai pericoli, anche alle avversità della natura. Gallo incide sui tronchi d'albero le sue pene d'amore e i suoi canti; col crescere degli alberi cresceranno anche, in grandezza, le scritte incise su di essi (vv. 31-54). Si dedica poi alla caccia, illudendosi che questa sia una medicina al suo folle amore. Ma l'illusione è di breve durata. Gallo è ormai scoraggiato, e quanti propositi avanza, altrettanti stronca egli stesso, convinto della loro inutilità[1].

  1. ^ Cfr. V. A. Estevez, Pastoral Disillusionment. Ecloga X, The Classical Bulletin, 38 (1962), pp. 70-71.