Utente:GiuliaAdamo/Sandbox

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Si definisce moda sostenibile, in inglese sustainable fashion, un movimento e un processo di promozione del cambiamento del sistema moda verso una maggiore integrità ecologica e giustizia sociale.

Il cambiamento auspicato non è indirizzato esclusivamente alla filiera tessile o del prodotto di moda, bensì comprende un cambiamento di paradigma per l'intero sistema.

Ciò significa occuparsi di sistemi sociali, culturali, ecologici e finanziari interdipendenti[1] considerando la moda dal punto di vista di molti stakeholder- utenti e produttori, e tutte le specie viventi, facenti parte dell’ecosistema terrestre presente e futuro.

Le definizioni "moda sostenibile" o "moda per la sostenibilità" indicano dunque la consapevolezza delle influenze sistemiche ed interconnessioni complesse e di lungo periodo tra contesti materiali, sociali e culturali nella moda.

La moda sostenibile appartiene, ed è responsabilità dei cittadini, del settore pubblico e privato.

Un esempio chiave della necessità di pensare in modo sistemico (system thinking)[2] nella moda è evidenziato dal fatto che i benefici delle iniziative a livello di prodotto, come la sostituzione di un tipo di fibra con un'opzione meno dannosa per l'ambiente, sono vanificati dagli effetti negativi dell'aumento dei volumi di prodotti di moda.

Un termine adiacente alla moda sostenibile è "eco moda" (eco fashion).

Differenti sono invece gli approcci e le definizioni di "green fashion", "moda etica" , "moda ecosostenibile" e "moda ecosolidale" che sebbene indichino una volontà di affrontare questioni ambientali e sociali, si limitano ad avere un approccio circoscritto alla risoluzione di singoli problemi tralasciando la prospettiva sistemica.

Le origini del movimento della moda sostenibile si intrecciano con quelle del movimento ambientalista moderno, di cui fa parte, e in particolare la pubblicazione nel 1963 del libro Primavera Silenziosa[3] della biologa americana Rachel Carson. Il libro della Carson, avveniristico per l'epoca, esponeva il grave e diffuso inquinamento associato all'uso di agrofarmaci come parte dell'industrializzazione, tema ancora oggi importante nel dibattito sull'impatto ambientale e sociale della moda.

Nei decenni successivi, l'impatto delle azioni umane sull'ambiente è stato oggetto di un'indagine più sistemica, che comprende gli effetti dell'attività industriale, e di nuovi concetti per mitigarne gli effetti, in particolare lo sviluppo sostenibile, termine coniato nel 1987 dal Rapporto Brundtland.[4]

All'inizio degli anni '90 e in concomitanza con la conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo del 1992, nota popolarmente come Summit della terra (Rio Earth Summit), i "temi verdi" (come venivano chiamati all'epoca) sono entrati nelle pubblicazioni di moda e tessili.[5][6]

In genere, queste pubblicazioni presentavano il lavoro di note aziende come Patagonia ed ESPRIT, che alla fine degli anni '80 hanno portato preoccupazioni ambientali nelle loro attività. I proprietari di queste aziende dell'epoca, Yvon Chouinarde Doug Tompkins, erano outdoorsmen e hanno visto l'ambiente danneggiato dalla sovrapproduzione e dal consumo eccessivo di beni materiali.

Pertanto hanno commissionato una ricerca sugli impatti delle fibre utilizzate nelle loro aziende. Per la Patagonia, questo ha portato ad una valutazione del ciclo di vita di quattro fibre: cotone, lana, nylon e poliestere.

Per ESPRIT l'attenzione si è concentrata sul cotone - e sulla ricerca di migliori alternative ad esso - che all'epoca rappresentava il 90% del loro business. È interessante notare che una simile attenzione all'impatto e alla selezione dei materiali è ancora la norma nella moda sostenibile da oltre trent'anni.[7]

I principi della moda "green"o "eco", come proposti da queste due aziende, si basavano sulla filosofia dell'Ecologia Profonda di Arne Næss, Fritjof Capra, Ernest Callenbach e del teorico del design Victor Papanek.[8]

Questo imperativo si basa anche sulla comprensione femminista delle relazioni uomo-natura,[9] sull'interconnessione e sull' etica della cura come sostenuto da Carolyn Merchant[10], Suzi Gablik[11], Vandana Shiva[12] e Carol Gilligan[13]. Personalità che hanno cofinanziato la prima conferenza sul cotone biologico tenutasi nel 1991 a Visalia, in California. Mentre nel 1992, basata sulla Eco Audit Guide, pubblicata dall'Elmwood Institute, è stata lanciata l'ESPRIT eco-collection, sviluppata dalla stilista Lynda Grose[14].

Nel corso degli anni '90 e all'inizio degli anni 2000, il movimento della moda sostenibile si è esteso a molti marchi. Anche se l'attenzione primaria è rimasta incentrata sul miglioramento dell'impatto dei prodotti attraverso la lavorazione delle fibre e dei tessuti e la provenienza dei materiali, Doug Tompkins e Yvon Chouinard hanno presto notato la causa fondamentale dell'insostenibilità: la crescita esponenziale e il consumo.[15]

Nel 1990 ESPRIT ha pubblicato un annuncio su Utne Reader, chiedendo un consumo responsabile.

Nel 2011 il marchio Patagonia ha pubblicato un ulteriore annuncio e una campagna di comunicazione dal titolo: "Don't buy this jacket" con un'immagine della propria merce. Entrambi i messaggi intendevano incoraggiare i consumatori a considerare l'effetto che il consumo di moda ha sull'ambiente e ad acquistare esclusivamente ciò di cui hanno bisogno.

Parallelamente all'agenda dell'industria, dall'inizio degli anni '90 si è sviluppata un'agenda di ricerca sulla moda sostenibile, che ora ha una propria storia, dinamica, politica, pratiche, sotto-movimenti ed evoluzione del linguaggio analitico e critico[16]. Il settore ha una vasta portata e comprende progetti tecnici che cercano di migliorare l'efficienza delle risorse delle operazioni esistenti[17], il lavoro dei marchi e dei designer per lavorare secondo le priorità attuali[18] e quelli che cercano di ridisegnare il sistema della moda in modo fondamentalmente diverso, compresa la logica di crescita.[19] Nel 2019, un gruppo di ricercatori ha costituito la Union of Concerned Researchers in Fashion per sostenere attività di ricerca radicale e coordinata, commisurata alle sfide della perdita di biodiversità e dei cambiamenti climatici.

Obiettivi[modifica | modifica wikitesto] L'industria della moda ha una chiara opportunità di agire diversamente e considerare il ruolo del profitto e della crescita, creando allo stesso tempo nuovo valore e ricchezza più profonda per la società e quindi per l'economia mondiale.

L'obiettivo della moda sostenibile è quello di creare ecosistemi e comunità fiorenti attraverso la sua attività[18], che può comprendere: aumentare il valore della produzione e dei prodotti locali, prolungare il ciclo di vita dei materiali, aumentare il valore di capi di abbigliamento senza tempo, ridurre la quantità di rifiuti e ridurre i danni all'ambiente creati dalla produzione e dal consumo.[20][21]

Un altro dei suoi obiettivi è talvolta quello di educare le persone a praticare un consumo rispettoso dell'ambiente promuovendo il "green consumer".

C'è tuttavia una crescente preoccupazione che il "green consumer" possa trarre profitto e incentivare la crescita economica nonostante gli obiettivi dell'azienda sostenibile siano quelli di mitigare e invertire l'inquinamento, lo sfruttamento del lavoro e le disuguaglianze che l'industria della moda promuove e da cui trae profitto.

Ciò è emerso chiaramente nelle discussioni che hanno fatto seguito al rapporto Burberry, secondo cui nel 2018 il marchio ha bruciato merci invendute per un valore di circa 28,6 milioni di sterline (circa 37,8 milioni di dollari), esponendo non solo la sovrapproduzione e la successiva distruzione delle scorte invendute come una normale pratica commerciale, ma anche i comportamenti dei marchi che minano attivamente un'agenda della moda sostenibile.[22]

La sfida per rendere la moda più sostenibile richiede un ripensamento dell'intero sistema. La Union of Concerned Researchers in Fashion sostiene che l'industria della moda sta ancora discutendo le stesse idee che erano state avanzate in origine alla fine degli anni '80 e all'inizio degli anni '90. Se si prende in considerazione il lungo termine e si esaminano i progressi della moda e della sostenibilità a partire dagli anni '90, i progressi effettivi in termini ecologici sono pochi. Come osserva l'Unione: "Finora, la missione della moda sostenibile è stata un totale fallimento e tutti i piccoli e crescenti cambiamenti sono stati annegati da un'economia esplosiva di estrazione, consumo, sprechi e continui abusi sul lavoro ".

Una domanda che si pone spesso a chi opera nel campo della moda sostenibile è se il settore stesso sia un ossimoro[23]. Questo riflette la possibilità apparentemente inconciliabile di coniugare la moda (intesa come costante cambiamento, e legata a modelli di business basati sulla continua sostituzione dei beni) e la sostenibilità (intesa come continuità e intraprendenza). L'apparente paradosso si dissolve se la moda viene vista in senso lato, non solo come un processo allineato ai modelli di business espansionistici[24][25]e al consumo di nuovo abbigliamento, ma piuttosto come un meccanismo che porta a modi di vivere più impegnati[26][27][28] su una terra preziosa e mutevole[29][30].