Utente:Federica Lucia/sandbox

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca

Egloga VII[modifica | modifica wikitesto]

Di nuovo una gara di canto, dopo le ecloghe III e IV. Il modello è Teocrito, dalle Talisie; ma al posto dell'ambientazione di Cos, si trovano, qui, i cenacoli romani degli amici e nemici virgiliani. Melibeo, Coridone e Dafni, anche se nomina ficta, rimangono sostanzialmente uguali a se stessi: Coridone continua ad amare Alessi[1] come nella ecloga II; Dafni ad essere il principe dei pastori, maestro e giudice di gare come nella V (dove si parla della sua morte e apoteosi) e Melibeo continua a dilettarsi, come nella I, nella poesia.

Più volte nel corso dell'opera troviamo un hysteron proteron, dove si anticipano avvenimenti che dovrebbero essere invece posposti e se ne posticipano altri avvenuti prima: questo è il rapporto tra la VII e la I egloga. I contendenti non sono così ingiuriosi come Menalca e Dameta, svolgono ognuno il proprio canto in strofe alterne di quattro esametri: Coridone, che cantava lamenti d'amore sui monti e nelle selve, ora sostiene una parte più raffinata; invece Tirsi, indulgendo nelle volgarità, sarà dichiarato perdente perché non considerato al pari di Coridone[2].

Una differenza importante fra i due riguarda l'ambito religioso: Coridone nomina gli alberi sacri ad Ercole, a Bacco, a Venere e a Febo[3]; Tirsi invece dice di preferire i pastori arcadi, così che lo adornino di edera, in quanto è un poeta esordiente; con queste parole si dimostra poco devoto agli déi. L'unica divinità che incontri le sue simpatia è Priapo. C'è un forte contrasto di tono, pacato quello di Coridone, aggressivo e volgare quello di Tirsi. Coridone, infatti, invoca le Ninfe affinché gli concedano un canto al pari di quello di Coro, poi come Micone cacciatore, consacra a Diana la testa di cinghiale e le corna di un cervo. Dopo aver celebrato la caccia, invoca la sua amata Galatea, dicendole di raggiungerlo, se lo ama davvero. La sua modestia fa sì che l'invito non appaia come un'imposizione, anzi al contrario mostra tutta la sua dedizione.

Egloga VIII[modifica | modifica wikitesto]

Come le altre egloghe di numero pari, l'egloga VIII reca una premessa in cui il poeta introduce il canto a gara tra Damone e Alfesibeo. Probabilmente l'egloga celebra la fama poetica di Asinio Pollione, che anche se non viene nominato è sicuramente identificabile dai fatti[4].

Il primo canto è quello di Damone, che dà voce ai pensieri di un infelice amante, anonimo, disperato perché la fanciulla che ama, Nisa, ha preferito Mopso e per questo egli ha intenzione di suicidarsi ("Comincia con me, mio flauto, i versi menalii. Tutto diventi alto mare. addio, boschi! Mi getterò giù dalla vetta di un aereo monte nei flutti: sia questo il mio ultimo dono per te, la mia morte.") [5]. Nel secondo canto troviamo Alfesibeo, il quale racconta di una donna, anch'essa innominata che, con l'aiuto dell'ancella Amarillide, compie un rito magico per far sì che l'amato Dafni ritorni ("Riportatemi dalla città, miei incantesimi, riportatemi Dafni. Intreccia in tre nodi, Amarillide, i tre colori, intrecciali presto, Amarillide...") [6] Ci sono delle descrizioni pittoresche che sono prese dall'esperienza teocritea; in generale tutta la scena ricorda l'autore greco: l'atrio della casa, l'ancella che porta gli ingredienti, il cane sulla soglia, il fuoco,la cenere e gli altari; ancora Dafni che è fuggito in città. La maga a poco a poco cessa di essere irreale, sovraumana, fittizia e diventa sempre più donna; il suo dolore è profondo e universale, è il dramma dell'amore infelice [7]. L'obiettivo della donna è di far impazzire d'amore Dafni, poichè essendo in città, la sta trascurando. L'incantatrice immagina di rivolgersi al pastore che viene nominato nel ritornello, in quanto ne ha il ritratto innanzi a sé. Cinge la sua immagine tre volte con tre fili di colore diverso, per un totale di nove: tre per ciascuna volta e per ciascun colore. Il rituale termina con lo spargimento delle ceneri nel ruscello vicino l'abitazione della donna, subito dopo sente dei passi sulla soglia: è Dafni, l'incantesimo è riuscito [8].

Damone canta in prima persona, ma la sua disperazione è diversa da quella espressa da Coridone nella II, piuttosto si avvicina a quella di Pasifae nella VI e di Gallo nella X; Coridone nella II si consola cercando un nuovo Alessi ("Coridone, Coridone, quale follia ti ha preso! Hai lasciato sull’olmo frondoso le viti potate a metà. Perché almeno non prepari qualcosa che occorre,non intrecci vimini e giunchi flessuosi? Se questo non ti vuole, troverai un altro Alessi.” [9] Damone invece arriva alle estreme conseguenze, ossia la morte, come detto prima (vv. 57-60). Quando giunge la notte, il pastore comincia a cantare il suo infelice amore per Nisa: constata di essere stato crudelmente ingannato e si lamenta del fatto che nonostante li abbia invocati, gli déi non lo abbiano aiutato, per questo si appresta a morire. Nisa, che un tempo era legata a Damone, adesso lo disprezza, odia la sua zampogna, le sue caprette e anche la sua lunga barba. Eppure egli ricorda il loro primo incontro quando lei era ancora una bambina: vederla fu amarla, ma questo amore, definito folle, lo ha rovinato. Ora Damone ha capito chi sia Amore: un dio generato sulle pietre dure dei monti o in deserte e selvagge regioni; proprio l'essere nato in un luogo pietroso ha indurito il suo animo. Infatti fu lui a spingere Medea a macchiarsi le mani del sangue dei propri figli. Amore è definito malvagio, così come la madre Venere; inoltre il pastore annuncia che d'ora in poi l'intero ordine della natura sarà sovvertito e accadranno le cose più assurde (adynata): il lupo fuggirà dalla pecora, i gufi gareggeranno con i cigni... Le sue ultime parole sono dedicate ancora all'amata, dice infatti che la sua morte sarà come l'ultimo dono dell'infelice innamorato [10]. Il canto dei due pastori è tale da attirare l'attenzione delle giovenche immemori dell'erba, le linci e i fiumi che arrestano il proprio corso; questo passaggio è suggerito dal mito di Orfeo, il cui canto attira le fiere che, come essere umani, sentono l'effetto magico della musica e condividono con il poeta il suo dolore; inoltre le linci fanno parte della fauna cara a Bacco (vv. 1-5)[11].

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ V. 55.
  2. ^ "Questo ricordo, e che Tirsi vinto gareggiava inutilmente. Da allora Coridone è per noi Coridone": vv.69-70, trad. F. Della Corte.
  3. ^ "Carissimo è il pioppo ad Alcide, la vite a Bacco, il mirto alla bella Venere, a Febo il suo alloro; Filli ama i nocciòli; fin tanto che li amerà Filli, né il mirto né l'alloro di Febo vinceranno i nocciòli": vv.61-64, trad. F. Della Corte.
  4. ^ A. Cucchiarelli, Introduzione e commento, in Virgilio, Bucoliche, Roma 2012, p. 405.
  5. ^ A. Cucchiarelli, Introduzione e commento, in Virgilio, Bucoliche, Roma 2012, p. 121, vv. 57-60
  6. ^ A. Cucchiarelli, Introduzione e commento, in Viriglio, Bucoliche, Roma 2012,p. 123, vv.76-78
  7. ^ Enciclopedia Virgiliana, Ecloga VIII, p.565.
  8. ^ Enciclopedia Virgiliana, Ecloga VIII, p. 566.
  9. ^ Virgilio, Bucoliche, Egloga II, vv. 69-73.
  10. ^ Enciclopedia Virgiliana, Ecloga VIII p. 566.
  11. ^ Enciclopedia Virgiliana, Ecloga VIII p. 565.