Utente:Ester79/Iconografia del Barbaro nell'Arte Romana

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Benevento Arco di Traiano

Roma si trovò a confrontarsi con i tanti popoli sparsi nei più lontani territori dell’oikouméne [1]. I rapporti intrattenuti con le popolazioni straniere potevano essere, di volta in volta, all’insegna dell’alleanza, dell’integrazione o della sottomissione ma le fonti che possediamo, comprese quelle greche, sono sempre concordi nel tramandare come, nelle relazioni internazionali, la posizione romana fosse costantemente improntata a una convinzione di superiorità morale e di irresistibile capacità civilizzatrice. I popoli che entravano a far parte del suo immenso impero potevano in genere conservare le tradizioni e i culti aviti ma erano comunque costretti ad adeguarsi ufficialmente alla cultura romana.

La rappresentazione del Barbaro nell'Arte Romana[modifica | modifica wikitesto]

Roma Arco di Settimio Severo

L’arte figurativa dei grandi monumenti celebrativi, espressamente innalzati dall’Urbe per la glorificazione del proprio potere e delle proprie vittorie sui popoli nemici, ci conserva preziose testimonianze, fondamentali per capire a fondo l’atteggiamento della civiltà romana verso i popoli con cui entrava in contatto e ai quali imponeva la propria supremazia. Nei grandi monumenti celebrativi, espressamente innalzati da Roma per la glorificazione del proprio potere e delle proprie vittorie sui popoli nemici, la figura umana occupava sempre un posto fondamentale, anche se in modi differenti. Poteva trattarsi, infatti, dell’immagine colossale del vincitore, come la statua di Augusto sulla sommità del Trophée des Alpes a La Turbie oppure dei rilievi realizzati per decorare monumenti di diversa tipologia, come le colonne coclidi di Traiano e di Marco Aurelio a Roma, dove una moltitudine di figure esalta ancora oggi le imprese degli eserciti romani riproducendo non solo gli scontri bellici ma anche gli altri episodi che caratterizzarono l’andamento delle campagne di guerra. Le rappresentazioni di nemici sottomessi divengono peraltro uno dei tópoi dell’arte ufficiale e privata come è attestato da un grande numero di esempi di ogni genere, dalle monete che rappresentano barbari inginocchiati, a barbari immortalati nella pietra, al frequente schema dei prigionieri incatenati che continueranno ad essere impiegati di frequente nei monumenti pubblici fino a Teodosio. Il complesso iconografico relativo ai nemici si può attribuire a due diversi ambiti: da un lato troviamo raffigurazioni relative alla guerra e alla lotta, dall’altro lato si tratta di rappresentazioni che fanno risaltare gli effetti inesorabili per i ribelli con un’ostentazione spavalda ed umiliante di schiavi e prigionieri. Le scene belliche però sono sporadiche se confrontate a quelle disumane in cui vengono raffigurati mentre implorano pietà, incatenati, afflitti, puniti, gementi che appaiono nell’arte a Roma per la prima volta durante la tarda età repubblicana, circa nel 100 a.C., nascendo come descrizioni illustrate delle campagne militari e come resoconti propagandistici. Nella creazione di questi stereotipi hanno avuto un’influenza determinante i cortei trionfali nei quali i nemici barbari erano condotti vivi dinanzi alla plebe legati con le loro donne ai trofei, sofferenti, picchiati e maltrattati. Le immagini “vissute” risultano quindi inscindibili dalle effigi raffigurate e si influenzano a vicenda. I nemici non sono reputati dei rivali da fronteggiare seriamente, si rovesciano al suolo prima ancora di esser stati colpiti, invocano la "pietas", fuggono o giacciono a terra morti o feriti, sono fantocci con le membra disarticolate, calpestati e adoperati come tappeto umano, disprezzati e irrisi. L’esercito romano guidato dall’imperatore domina facilmente senza perdite da lamentare e senza che il proprio assetto venga minimamente intaccato.


Iconografia[modifica | modifica wikitesto]

Istambul Base Obelisco Teodosio

Nonostante inizialmente si fosse tentato di caratterizzare i nemici mediante attributi fisici, non volendo lasciare alcun dubbio circa la loro natura etnica, l’iconografia romana sporadicamente opera delle classificazioni basate sugli abiti tradizionali e sulle peculiarità etniche, man mano infatti i barbari sono raffigurati con caratteri poco precisi, piuttosto generalizzati e stereotipati, tanto che risulta sempre più difficile precisarne la nazionalità. Ci troviamo di fronte a schemi iconografici predeterminati, a stereotipi, a formule e modelli regolarmente reiterati nel tempo, che si adattano con un’eccellente flessibilità alle mutate esigenze ideologiche e politiche. L’intera iconografia riguardante i barbari tra l’età repubblicana e la tarda antichità è caratterizzata da formule e tipi limitati, sorprendentemente monocorde, invariata e del tutto negativa. É ovunque la stessa: nudo o con le sole brache, occasionalmente con qualche marginale contrassegno della nazionalità, indicata da armi, mantelli, copricapi o acconciature particolari, raffigurato nella sofferenza, inginocchiato, seduto o in piedi con le braccia legate dietro la schiena o incatenato. Plutarco [2] ci informa sulla posa più frequente per i barbari vinti “con le braccia conserte: atteggiamento (schéma) reputato un’ammissione di schiavitù (douléia), quasi essi avessero venduto la propria libertà, pronti a subire (patéin) più che ad agire”. Dove compaiono, nel corpus della produzione artistica di età romana, scorci di umanità delle popolazioni barbare, questi si possono comunque spiegare sempre nell’ottica della conquista, come le genti deportate che, insieme ai loro animali, si incamminano verso un incerto futuro nell’ultima scena della Colonna Traiana. Risulta evidente una palese contraddizione nell’iconografia dei barbari. Da un lato i nemici nelle scene di battaglia non vengono mai raffigurati come rivali di egual valore, ma sempre come sopraffatti o già sconfitti, in attesa solo di essere massacrati dai soldati romani, se non già uccisi. Lottano e si danno alla fuga in modo confuso e oppongono una resistenza che risulta assurda considerate le armi insufficienti di cui sono dotati. Nello stesso tempo, però, si considera la loro invasione talmente perniciosa da ritenere appropriato un comportamento duro ed una singolare ferocia e da reputare inevitabile il totale annientamento di alcune popolazioni, per salvaguardare la tranquillità e l’armonia. Il barbaro nemico esterno, figura del tutto negativa, minaccia l’orbis romanus di cui l’imperatore era responsabile divenendo l’essenza del disordine e del caos. Non è quindi sufficiente battere i singoli soldati barbari ma intere popolazioni devono essere punite, ovvero annientate seguendo l’ideologia romana del parcere subiectis et debellare superbos. Il dato di certo più evidente che emerge dall’esame di queste rappresentazioni nell’arte romana è che esse appaiano di norma finalizzate, in un modo o nell’altro, a esaltare la potenza romana, quasi fosse una necessità voluta dal fato. Queste diverse raffigurazioni concorrono tutte alla glorificazione del vincitore mediante il pathos della lotta e le sofferenze degli sconfitti, perché solo per tale scopo, in ultima analisi, sono utilizzate.

Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ il mondo abitato che gli antichi conoscevano, a partire dalla seconda metà del III secolo a.C.
  2. ^ Plutarco, Vite Parallele. Cimone-Lucullo, 21,5.

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