Utente:Domenico mazzù/Sandbox

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                                                            La torre di Gallico
     Il territorio di Gallico compreso tra le fiumare Gallico e Scaccioti, (fig. 1) fino a pochi anni fa era costituito da vasti e fertili terreni coltivati a gelsi, vigne, agrumi, alberi da frutto, oggi, sugli stessi terreni vi sorgono palazzi, case, villette, in mezzo a tanta incontrollata e devastante cementificazione, si è fortunatamente salvato il sito della “Torre di Gallico” che una recente e accurata ricognizione, effettuata in conformità a una “Carta topografica” del 1873  e di vari altri documenti, hanno permesso di individuare insieme al muro che racchiudeva i suoi ruderi, alti un metro e mezzo, (fig.2) costruito dalla famiglia Calogero a metà ottocento. Si trattava di una struttura militare, costruita alla fine del ‘500 accanto alla foce della fiumara Gallico (fig.3) che alla fine del ‘700 si presentava con un fronte abbastanza ampio.  La torre faceva parte di un progetto difensivo voluto dal vicerè don Pedro de Toledo, fu “il più importante provvedimento adottato dal governo spagnolo di Napoli nella lunga lotta contro i turchi. La disposizione che sviluppò l’antico progetto fu emanata nel 1563 dal vicerè Pedro Afan De Ribera duca di Alcalà”.  La scelta di costruire la torre di Gallico fu dovuta principalmente alla mancata costruzione dell’altra fortezza di Reggio, per questo chiamata “Castelnuovo”, prevista sulla punta di Calamizzi, i cui lavori, iniziati nel 1547, furono interrotti inspiegabilmente nel 1556 e mai più ripresi, per la costruzione della torre di Gallico il regio tesoriere Giacomo Scoppa, consegnò a mastro Andrea Borrello la somma di trecento ducati.  La scelta del sito, accanto alla fiumara Gallico, era strategica perché i corsari erano soliti rifornirsi d’acqua anche alla foce di questo fiume, da qui avrebbero potuto risalire la vallata devastando il territorio con saccheggi, violenze, e seminando terrore e sgomento tra la popolazione.  Nella bassa vallata del Gallico si verificavano spesso assalti turcheschi, tra quelli maggiormente ricordati ci furono quelli di Samay Rais del 1561 e del rinnegato Scipione Cicala respinti dall’eroica resistenza organizzata dal sacerdote sambatellese Mario Cagliostro detto “Prete Maio”.  Nel codice Romano Carratelli, (fig.4) da pochi anni riscoperto, risalente alla fine del ‘500, contenente novantanove acquarelli rappresentanti le torri costiere e le fortificazioni della Calabria Ultra, la torre di Gallico non fu disegnata o forse il foglio si è perso tuttavia nella penultima pagina, dopo il disegno della torre di Ravagnese, l’autore disegnò un’altra torre che a suo parere era urgente e necessario costruire sulla punta di Calamizzi e scrisse: “ …………Nel luogo detto Calamizi territorio di Reggio vi bisognaria la suprasignata torre a causa quella di Ravagnisi con quella di Gallico non riceuono lofano l’una l’altra per esservi in mezzo la città di Reggio in luoco eminente in questo luoco ……..”.  Il segnale anzi “lofano” di cui si parla nel testo era il fuoco di notte e il fumo di giorno e serviva per segnalare alle torri limitrofe il pericolo incombente di uno sbarco di navi corsare.

Struttura della torre. Della torre di Gallico non esiste che un disegno (fig.5) realizzato agli inizi dell’ottocento conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli. La sua struttura era simile ad altre torri costruite in quel periodo lungo il versante tirrenico (Pellaro, Cannitello, Bagnara, Palmi), variavano solo le misure e qualche elemento costruttivo. La Torre di Gallico (fig.6) era alta sedici metri e aveva un diametro di otto metri, una base tronco – conica e corpo superiore cilindrico, i muri della parte inferiore erano senza aperture fino all’altezza del locale sotto la piazza. Inoltre essa era provvista di due finestre, una rivolta a nord e l’altra a sud, vi si entrava da una porta posta a metà altezza del lato est, tramite una scala di legno. I segnali che la torre doveva trasmettere alle torri limitrofe per avvertire di arrivi di navi corsare, erano fuoco di notte e fumo di giorno. Il terreno sul quale sorgeva la torre, accanto alla foce della Fiumara Gallico, era malsano e distante dalla contrada di Mottarossa, nel locale al primo piano, grande circa trenta metri quadrati, il caporale e la piccola guarnigione, esposti alle intemperie del clima e a un’alienante inoperosità, trascorrevano le giornate in un’attesa estenuante che rendeva la loro vita deprimente e monotona. Pirati e Corsari. Per capire meglio la funzione della torre occorre ricordare ciò che accadeva sui mari specie dopo la caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi il 29 maggio 1453 e l’accentuarsi della contrapposizione tra il mondo islamico e quello cristiano dopo la battaglia di Lepanto del 1571. I violenti scontri sulle acque e gli sbarchi sulle coste di pirati e corsari condizionarono alquanto la marineria del Regno di Napoli e l’esistenza di numerose comunità. Intanto bisogna intendersi sul significato dei termini “pirata” e “corsaro”. Il pirata era chi tentava la fortuna in mare assalendo e depredando qualunque nave incrociasse, senza licenza alcuna, solo per perseguire un utile personale, il corsaro invece era munito dal governo di uno stato, di apposita carta formale detta”lettera di corsa” che lo autorizzava, ad assalire e rapinare le navi mercantili delle nazioni nemiche, per danneggiare gli interessi commerciali dello Stato nemico e per impossessarsi, in parte, dei bottini rapinati. I pirati erano autentici assassini, i corsari erano mandatari del principe per conto del quale si erano armati, ma spesso le due figure s’identificavano. I corsari giungevano dalla Barberia, area dell’Africa settentrionale compresa tra l’Egitto e la zona atlantica abitata dai Berberi e per questo definiti “Barbareschi”. Altri provenivano dall’Arabia ed erano denominati “Saraceni”. Entrambi erano soggetti ai turchi. Le basi delle operazioni piratesche e corsare erano in primo luogo le reggenze barbaresche di Tripoli, Algeri, Tunisi, Salè e i porti del Marocco. Durante gli attacchi ai territori una furia umana si scatenava contro la popolazione e i villaggi erano soggetti a spietati saccheggi e deportazioni di centinaia di profughi e schiavi, per questo le popolazioni dei litorali subirono dei veri tracolli demografici e determinarono i superstiti a scegliere per sicurezza di abitare in luoghi posti in alto. Schiavi-Rinnegati. Le persone catturate sulle navi o lungo i litorali dai turchi, erano deportate e ridotte in schiavitù, molti venduti o impiegati sulle galee turche come rematori. Alcuni riuscivano ad ottenere la libertà solo dopo il pagamento, da parte dei propri familiari, di cospicue somme di denaro, ma poteva accadere che si verificasse anche un trasferimento volontario verso gli islamici come quello che decisero di fare, nel 1666 centocinquanta famiglie povere di Badolato, le quali, ritenevano che fosse: “……..assai meglio in mano ai turchi che sotto il dominio del principe di Belmonte….”. Per molti calabresi la cattura fu l’occasione dunque per sfuggire a disumane condizioni di vita, dalla fame, dall’intolleranza del governo spagnolo. Molti furono i catturati che per avere salva la vita abiurarono la fede cristiana, i cosiddetti “Rinnegati”, (fig.7) taluni di questi ricoprirono nella società turca, ruoli importanti, cariche pubbliche o assunsero il comando di navi o d’intere flotte. Altri rinnegati erano passati dalla parte degli infedeli perché covavano vecchi rancori per i torti subiti in patria e attendevano il momento favorevole per vendicarsi. Con i turchi si aveva un rapporto intenso, tormentato, impastato di odio, terrore, ma anche curiosità, attrazione, malcelata ammirazione. Le riduzioni in schiavitù di cristiani e le forzate e frequenti abiure al cristianesimo, preoccuparono il governo spagnolo e la Chiesa, per questo furono prese iniziative atte al riscatto di moltissimi schiavi, se ne stimavano oltre ventimila ad Algeri, diecimila a Tunisi, alcune centinaia a Tripoli. Sorsero per questo un po’ ovunque, delle congreghe che avevano lo scopo di riscattare gli schiavi catturati dai turchi. In quest’attività, motivazioni di ordine pratico favorivano il riscatto del giovane maschio e valido, catturato lungo le coste, per evitare che per la conoscenza dei luoghi, questo fungesse da guida per successive scorrerie. Attività corsara degli europei-Schiavi cristiani. Anche gli europei, per vari motivi, conducevano la loro “guerra di corsa”, ricorrendo agli stessi metodi dei turchi. Con la ripresa del conflitto franco-spagnolo, nella seconda metà del ‘600, l’attività dei turcheschi fu affiancata dai corsari francesi i quali, secondo quanto riportato dal cronista napoletano Innocenzo Fuidoro,: “…….predano per mare e non curano di vendere le genti in mano dei turchi in Tunesi, come hanno fatto. Però gli Spagnoli non stanno a spasso, che procurano di rendergli la pariglia, e massimamente quelli di Maiorica e Minorica…”. Corsari francesi erano anche quelli che assalirono una feluca di Giuseppe Morace di Gallico il 21 ottobre 1798, la quale partita da Napoli per Reggio, all’altezza di Capo Rasocolmo fu assalita per due volte da uno sciabbeco francese. I corsari, armati di sciabole, pistole e boccacce, saliti sulla feluca rubarono quattro cannoni di bronzo con “l’impresa la casa di Roccella”, denaro, oro, argento, orologi, mobili e abiti. Anche Padron Paolo Cimato, nel gennaio 1804, alla marina di Roccella fu predato dai corsari del suo sciabacotto nominato S. Maria di Porto Salvo, carico di castagne diretto a Malta. Si salvarono solo lui e i marinai. La guerra di corsa non fu quindi una prerogativa dei soli turchi ma anche degli europei in uno scenario di contrasti tra gli stati. Quest’aspetto non è stato mai abbastanza messo in risalto. Schiavi turchi cristiani. Nei registri parrocchiali delle chiese di Reggio sono annotati numerosi Battesimi di musulmani che catturati da navi cristiane durante gli scontri in mare e ridotti in schiavitù, erano comprati da famiglie reggine, istruiti nella fede cristiana, battezzati e tenuti come domestici. E’ il caso del “mancipiu album adultum” catturato da una triremi pontificia, portato a Reggio e comprato da Paolo Mantica che lo fece battezzare imponendogli i nomi di Cristoforo, Domenico, Francesco Saverio. Anche Michele Caravaglio, figlio di Antonino, (sopracavallaro della torre di Gallico ?) era un “mancipiu album” e fece da padrino al battesimo di Antonia Vinci nella parrocchia dei S.S. Filippo e Giacomo in Reggio. Nella Chiesa di S. Biagio in Gallico il 19 agosto 1624 fu battezzato Francesco Antonino, “….mancipium Didaci Strozzi…”. Sui registri degli introiti ed esiti degli oratori di Gesù e Maria eretti nelle chiese di S. Nicola in Santa Domenica e S. Maria delle Grazie in Gallico, alla voce “uscite”, sono indicati tre casi di “Turchi fatti cristiani” ai quali, per premio, furono donate delle somme di denaro. Le scarse misure di difesa adottate dal governo napoletano, riguardo agli attacchi dei corsari, convinsero il popolo a votarsi alla protezione della Madonna della Catena e la pietà popolare a essere attenta e trovare posto anche per quei turchi fatti schiavi che avevano abbracciato la fede cristiana. A Cittanova, a Polistena e in altre località, la Madonna è rappresentata con uno schiavo moretto in catene che prega la Vergine (fig.8) per impetrare la sua liberazione. Personale della torre. Responsabile del funzionamento della torre di Gallico era il caporale detto anche castellano o torriere coadiuvato da due soldati, dai cavallari e dagli aggionti. Ricoprirono l’ incarico di caporali: 1571-1586- 1588 DAMIANO PARDO. 1589 MIGUEL MANRIQUE. 1616 DAMIANO PARDO. 1618 -1624 ANDREA MARTINEZ. 1628 GIOVANNI BARBA. 1691 ANTONINO CAMA. 1707 PLACIDO CAMA. Per la scelta dei caporali competente era il governatore provinciale, sub condizione che fossero spagnoli e non si trattava di una scelta casuale. Perché, scriveva l’ingegnere militare alla fine del sec. XVI, Carlo Gambacorta, quando il caporale era italiano: “ per tenere cose nelle terre, acconciar vigne, massarie, andar a cumplir con parenti a nozze, morte de’ parenti, visite ed altre cose, la Torre resta sempre senza guardia”. Ma di fronte all’insopprimibile necessità di vigilanza dei litorali, la rigida normativa sulla nazionalità dei caporali tendeva a divenire desueta nel corso del seicento. Cavallari e Aggionti. La torre di Gallico era cavallara perché prestavano servizio anche uomini forniti di cavallo destinati alla vigilanza, il loro compito era di percorrere la costa di pertinenza sia di notte sia di giorno tra una torre e l’altra, dando fiato ai corni o sparando colpi di archibugio, per avvisare il torriere delle minacce di sbarco dei corsari. Era un lavoro molto faticoso. Per loro esisteva nella marina di Gallico una casetta per uso di servizio denominato “Posto del fondaco”. In periodi particolari, in genere da giugno a settembre, quando gli sbarchi erano più frequenti, l’università di Sambatello designava i cosidetti “aggionti”. Nell’aprile 1771 si stipulò una convenzione con Domenico Marra e Bruno Salzone, nominati, aggionti della “Regia Torre di Gallico”, con il salario di sei ducati al mese per ciascuno. Per sopperire alla mancanza di personale adeguato, il governo napoletano pensò di affidare la custodia delle torri al Reggimento invalidi, corpo formato nel 1736 e ordinato in battaglioni nel 1745, era costituito da ex combattenti che avevano preso parte alla conquista del Regno e da altri che avevano combattuto in Lombardia contro gli austriaci. Il comando si trovava a Napoli. Alla fine del ‘700 la Torre di Gallico fu custodita dagli invalidi di Gallico-Sambatello. La torre e l’origine del borgo marinaro di Gallico. Il borgo marinaro della Marina che si iniziò a formare con la costruzione della Torre, continuò il suo sviluppo nel corso del seicento con un’ intensa attività commerciale favorita anche dall’apertura, alla fine del secolo, di uno “scaro” commerciale, già attivo nel 1672 e usato tra gli altri, dal nobile reggino Diego Strozzi che si era aggiudicato l’appalto per la fornitura della neve alla città di Messina. Proprio nei pressi della “Torre di guardia”, dalla parte di scirocco, il suddetto Strozzi, aveva costruito una casa usata come deposito della neve in attesa di essere imbarcata per la città peloritana. La “ Regia torre di guardia della Marina” era un punto di riferimento per le barche che caricavano e scaricavano sulla spiaggia della Baronia di Sambatello prodotti e mercanzie varie. Nell’”Apprezzo dello stato dei Carafa di Bruzzano del 1689” si legge che nei pressi della torre si svolgeva anche una fiera: “….….…et esce al mare, dove e la Torre detta Gallico nel qual loco si fa la fiera dalli cittadini di detta Terra, et segue marina marina…….”. Il borgo nato attorno alla torre, era composto da numerose case disposte in fila una accanto all’altra, per questo, nel settecento, la Marina di Gallico, era indicata con il toponimo di “ Ringo della Marina” o “Ringo” . Si tratta di un francesismo che significa “Arringare” nel senso di “Schierare”, “ Allineare”. E’ il medesimo toponimo usato ancora oggi a Messina per indicare il quartiere marinaro situato a nord della città. La costruzione nel 1766 di una Chiesa dedicata alla Madonna di Porto Salvo, la nomina di un economo curato avvenuta nel 1786 e la successiva erezione della parrocchia nel luglio 1789, sono tappe indicative di quanto popoloso e ricco di attività commerciali, alla fine del settecento, fosse diventato il borgo marinaro di Gallico. Fine della pirateria e declino delle torri. Il lento declino delle torri era iniziato con la firma di un trattato di pace e amicizia tra la reggenza e il Re di Spagna conclusosi a Tripoli il 10 settembre 1748 ma una data fondamentale che segna la fine della pirateria nel Mediterraneo, è il 13 giugno 1830, quando una potente flotta francese attaccò dal mare la città di Algeri investita così dal fuoco di centinaia di navi. La battaglia di Algeri si concluse il 5 luglio con l’atto di resa dell’ultimo Dey di Algeri. Dopo centinaia di anni di servizio, nel 1862, molte torri furono poste in vendita e acquistate da privati che le rilevarono con il terreno a esse circostante. Stessa sorte toccò alla Torre di Gallico divenuta proprietà della famiglia Calogero, come documentato nella Carta topografica del 1873. Una parte delle torri rimase proprietà del demanio e parte fu abbandonata a se stessa. Con la fine dell’ostilità turco-barbaresca, il neo governo italiano, non riscontrando più alcuna funzione militare antiaggressiva, decise con decreto Reale del 30 dicembre 1866, la dismissione dell’intero sistema. Domenico Mazzù

Archivi consultati: Archivio di stato Napoli (ASNA)

             “                Catanzaro                          (ASCZ)
             “                Reggio Cal.                        (ASRC)

Archivio storico comunale di Reggio C. (ASCRC) Archivio diocesano Reggio C. - Bova (ADRCB) Biblioteche: Bibiblioteca del Consiglio regionale Calabria. Biblioteca comunale Reggio Calabria. Biblioteca Comunale Vibo Valentia. Bibliografia: Cataldo V. La frontiera di pietra. Edizioni scientifiche italiane. Napoli 2014. Codice Romano Carratelli. Città fortificate, castelli, apprestamenti difensivi e territorio della Calabria Ultra alla fine del ‘500. De Maio D. Fanòi. Calabria, Musulmani, Torri costiere. Bolis. Bergamo. 1990. Mafrici M. L’antica angoscia delle coste calabresi. La pirateria turca e barbaresca tra cinquecento e settecento. Rivista storica calabrese. A, X-XI. 1989-1990. N. 1-4. Mafrici M. Mezzogiorno e pirateria in età moderna (sec. XVI-XVIII). Edizioni scientifiche italiane. Napoli. 1965. Savaglio A. – Capalbo M. Mare horribilis. Le incursioni musulmane. Il mercato dgli schiavi e la costruzione delle torri costiere in Calabria Citra. Edizioni Bakos. Castrolibero. 2004.