Utente:Claudio.ballardini01/Sandbox

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In seguito all'entrata dell'Italia nella Prima Guerra Mondiale a fianco della Triplice Intesa, si venne a creare un nuovo fronte, che si estendeva dallo Stelvio all'attuale Slovenia. Il Trentino, in quanto confinante con il Regno d'Italia, fu direttamente coinvolto dalla Grande Guerra. Le operazioni belliche, in particolare, si svolsero per la maggior parte sulle creste di confine, in condizione estreme superando anche tremila metri di altezza. Per mantenere una linea di difesa solida ed efficace, ovviamente, furono necessari molti sforzi. A questo scopo, si dovette ricorrere all'aiuto dei bambini, degli anziani e delle donne che vivevano nelle vallate adiacenti al fronte. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, si utilizzarono i prigionieri di guerra provenienti dal fronte orientale. Pur essendo di nazionalità diverse, questi ultimi erano genericamente chiamati "russi".[1] Durante la Prima guerra mondiale le montagne del Trentino diventarono una sorta di vero e proprio crocevia di culture, lingue e genti, la cui storia viene poco spesso narrata.

Erano impiegati nei lavori più disparati: per tracciare e migliorare le strade, le ferrovie e le funivie, per scavare ricoveri, come portatori se aggregati alle colonne di munizioni e di viveri, per il ripristino delle trincee e la sistemazione dei sentieri, nonché, in inverno, per lo sgombero della neve. Erano, quindi, utilizzati come "muli umani" e si trovarono sottoposti a fatiche inenarrabili, malvisti e nutriti, male acquartierati, sporchi, poco assistiti e maltrattati.[2] Va attribuita a quest unità parte del merito per la costruzione delle opere campali, la creazione di scalinate in granito e quanto altro è ancora oggi possibile ritrovare sui luoghi della Grande Guerra. Alcuni prigionieri vennero impiegati anche per lavori agricoli e di manovalanza, andando a sostituire gli uomini partiti per il fronte. In particolare, secondo i verbali d'interrogatorio di alcuni prigionieri russi, che nel 1917 disertarono in varie zone del fronte presidiato dalla I armata, si legge che molti di loro erano occupati nei mulini, nei forni da campo, nei panifici, nelle torbiere e nelle segherie.[3] I prigionieri di guerra venivano utilizzati come manodopera coatta in vari ambiti, quali il lavoro nei campi, ma maggiormente nella trasformazione del territorio alpino in territorio bellico. Furono impiegati nella costruzione di forti, trincee e baraccamenti ma anche di linee ferroviarie, le cui tracce permangono ancora oggi.

La presenza dei prigionieri di guerra emerge continuamente nei diari, nelle lettere, nelle testimonianze e nei documenti. Dovunque fossero, questi uomini pativano la fame e morivano da paria, senza un nome e senza un volto. Il territoriale viennese Josef Medvescig, nel suo diario, annotò il 5 aprile: "Nove russi sono scappati e sono andati dagli italiani. Tre sono stati uccisi, mentre gli altri sono andati dall'altra parte. Non credo proprio che di là riceveranno di più da mangiare. Sono sempre affamati e molti cercano qualcosa per terra come le galline".[4] Si può notare, quindi, quali fossero le condizioni in cui i prigionieri russi si ritrovarono a vivere, poco nutriti e sottoposti a qualsiasi tipo di ingiuria. Per molti di loro, una delle possibilità di sottrarsi a una condizione di schiavitù e alla fame era fuggire, attraversando la frontiera e trovando rifugio presso gli italiani. Il tenente Felix Hecht von Eleda, ad esempio, registrava nel suo diario molti casi di fuga, criticando il fatto di usarli in prima linea.[5] Altri, invece, si nascondevano e andavano a formare delle bande che uscivano la notte a razziare. Nei diari e nelle memorie viene raccontata la faticosa convivenza: i prigionieri erano guardati con diffidenza, in quanto venivano da luoghi lontani e cercavano disperatamente di sopravvivere. Questo suscitava la compassione dei locali, poiché rivedevano nelle sofferenza dei prigionieri quelle a cui figli e mariti, prigionieri in Russia, potevano essere soggetti[6].

Oggigiorno si tende a ricordare solo coloro che caddero sui campi di battaglia, come nel caso del monumento nei pressi di Malga Slapeur, sull'altopiano di Asiago, che celebra i caduti per la conquista del monte Fior. Nel caso di caduti a causa di stenti e sfruttamento si hanno più difficoltà nel cercare di far riemergere cosa accadde: nel 1917 una frana uccise 55 prigionieri, che vennero poi ricordati semplicemente come "lavoratori", senza tener conto di tutto ciò che queste persone avevano dovuto subire[7].

La memoria di questi prigionieri di guerra è molto più sentita in Alto Adige grazie all'azione di centri che organizzano ricerche e commemorazioni in luoghi significativi, le prime svolte sul Carè Alto, dove è presente una piccola cappella lignea, costruita dai prigionieri russi nel 1917. I prigionieri di guerra serbi vengono minormente ricordati, dal momento che, fin dall'inizio venivano visti come colpevoli dello scoppio della guerra[8].


Note[modifica | modifica wikitesto]

  1. ^ Diego Leoni, La guerra verticale, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2015, p. 338.
  2. ^ Diego Leoni, La guerra verticale, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2015, p. 338.
  3. ^ Diego Leoni, La guerra verticale, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2015, p. 339.
  4. ^ Diego Leoni, La guerra verticale, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2015, pp. 339.
  5. ^ Diego Leoni, La guerra verticale, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2015, pp. 340.
  6. ^ Marco Abram, Gli ultimi: prigionieri serbi e russi sul fronte alpino, in Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, 2 novembre 2018
  7. ^ Marco Abram, Gli ultimi: prigionieri serbi e russi sul fronte alpino, in Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, 2 novembre 2018
  8. ^ Marco Abram, Gli ultimi: prigionieri serbi e russi sul fronte alpino, in Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, 2 novembre 2018