Utente:Andrea Rais Goldman/Sandbox

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Il Capitano senza nome - Andrea Murgia Lupo - delitti senza luna (Capitoli nascosti 1)

Il Coroneo è un grosso palazzo che comprende un tribunale austero e l’annesso carcere di Trieste. Il procuratore capo mi aveva chiamato, ero un’avvocatessa alle prime armi. Era l’anno 2006, il magistrato voleva parlarmi di una situazione delicata. Lo trovai nel suo studio serio e preoccupato, con lui c’erano due ufficiali dei carabinieri scuri in volto e imbarazzati per la situazione. Il procuratore prese a parlare senza preamboli: “Avvocato l’ho fatta chiamare perché voglio che lei si occupi di una persona, diventi la sua ombra e la sua copertura. L’uomo a cui le chiedo di dare supporto è come un figlio, un uomo dello Stato, un guerriero che ha servito il suo paese in silenzio e senza indietreggiare.

Un brutto male lo ha colpito nell’ultimo anno ed insieme al male lo hanno colpito i suoi troppi nemici. Noi lo abbiamo protetto qui per oramai due anni, ora vi è la necessità che riprenda la libertà “ Io un po’ sorpresa ed incredula cercai di interrompere un uomo cosi austero: “Signor procuratore io faccio l’avvocato e non saprei fare altro, non capisco in che modo dovrei seguire e far da balia ad un uomo dello Stato. A questo incarico mi sembra sarebbero più dotati questi uomini in divisa che l’accompagnano in questa stanza” Ma il procuratore andò per la sua strada e non si curò delle mie osservazioni: “Vede avvocato lei ha l’occasione di fare qualcosa di importante per me e per lo Stato, le chiedo di mettersi al servizio di questa persona e di riferirmi tutto quello che farà. Le affido questo dossier per conoscere i fatti e gli eventi che hanno fatto di questa persona un uomo da difendere da tutti i pericoli che lo circondano. Lui ora vuole uscire di nuovo nel mondo e noi non possiamo trattenerlo oltre. Dopo anni di esercizio ad inseguire i peggiori criminali ora ha il capriccio di diventare pure un avvocato. È capace di tutto ma ci sono rimasto anche male! Avrei preferito che si facesse prete o al più seguisse le mie orme, invece non è stato così” Io risposi sempre più sorpresa: “Quindi dovrei insegnargli il mestiere?”

Al procuratore venne spontaneo un sorriso e con l’arroganza che solo un procuratore generale può avere, mi rispose quasi ironico: “Le assicuro che avrà lei molto da imparare anche come avvocato” Mi sembrava tutto degno della più accecante follia ma ero oramai curiosa così mi convinsi che non avevo scelta e dissi: “Bene dove è quest’uomo da proteggere?” I due ufficiali aiutarono il vecchio procuratore ad alzarsi e da una porta secondaria per vari cunicoli bui e tetri venni condotta in un’altra ala del palazzo. Ero entrata senza quasi accorgermene nel carcere, ne sentivo l’odore nauseante, quasi che i corpi reclusi nelle celle emanassero un’essenza di dolore rancido misto a una sofferenza di privazione. Vi era nell’aria un cocktail acido di odori insopportabile ad un animo non preparato. Attraversammo non so quanti corridoi tra il vociare dei condannati e le urla sorde degli agenti della penitenziaria, fino a raggiungere un’ampia rotonda e da lì entrare in una grande stanza. Era la biblioteca del carcere con immensi scaffali e libri in fila indiana. Nel lato opposto della sala c’era un uomo seduto, quasi ancora un ragazzo dall’aspetto, magrissimo dal viso olivastro, un filo di barba incolta ed uno sguardo penetrante. Il procuratore mi sembrava amorevolmente preoccupato, si rivolse a lui quasi con rispetto e benevolenza paterna: “Capitano, le ho portato la persona che le potrà essere d’aiuto per il suo inserimento nella sua città, coprirla nella sua nuova identità. Lei sa che io preferivo tenerla ancora qui al sicuro perché i tentacoli dei nemici potrebbero non essere recisi, ma so che è inutile riparlarne. Per farla restare qui dovrei arrestarla veramente e so bene che forse neanche questo servirebbe a fermarla” Il ragazzo mi guardò come chi ti spoglia in un secondo corpo e anima, con superiorità e disprezzo. Dopo aver guardato i suoi compari in divisa si rivolse a me con certa superbia: “Nella mia vita avrei messo in conto tutto, ma che mi potesse far da balia un avvocato e per giunta una donna non avrei mai potuto immaginarlo, comunque venga alle otto del mattino domani, si parte assieme per Belluno” Ebbi la forza solo di domandargli: “Posso sapere almeno come devo chiamarla?” Ma lui sorridendo mi rispose “Di nomi ne ho avuti tanti di quello vero oramai mi sono dimenticato ma mi piace che mi chiamino Lupo.” Infastidita da quell’atteggiamento risposi ironica: “Signorsì”. La mattina partimmo per Belluno dalla stazione di Trieste. Quel treno era fin troppo grigio per quell’inizio di settembre. Nella cabina del vagone a noi riservata, incrociavamo poco gli sguardi senza mai scambiarci una frase. Lui guardava dal finestrino ammirando i paesaggi, sembrava non respirasse aria pura da troppo tempo. Il carcere anche da pseudo infiltrato non doveva essere stato piacevole e lo aveva reso estraneo al mondo. Il suo desiderio di rivalsa e di vendetta traspirava dai pori della sua pelle. Non dovevano essere stati facili gli ultimi suoi anni in fuga.

Guardava lontano il Lupo, oltre l’orizzonte, soprattutto il mare lo incantava facendoli tradire le sue origini isolane. Nel dossier a lui dedicato, che mi ero curiosamente attardata a leggere tutta la notte, erano indicati i vari soprannomi con cui nel tempo era stato apostrofato. Il sardo punico era il nomignolo che gli si addiceva di più, non meno dell’appellativo di “Lupo”, soprannome che gli affibbiò uno dei suoi avversari della mafia emergente e poi perdente siciliana di Gela” Non sarebbe stato facile stargli accanto. Non era mai stato facile seguirlo neanche per i suoi scudieri più fidati, la sua squadra creata minuziosamente. I suoi uomini detti “i pretoriani”, uomini d’armi scelti ad uno ad uno, per lo più selezionati tra i militari più spavaldi ed incoscienti. Sicuramente tutti abili cacciatori di prede, dediti al loro capitano forse più che alla loro stessa divisa. Questo ci misi poco tempo a capirlo. Il capitano non era mai stato un esempio di stile e di rispetto delle forme. Ufficiale prestato ai servizi informativi dello Stato, impermeabile al bene ed al male. Era stato più volte coinvolto in procedimenti disciplinari, tutti conclusi con un virtuale timbro di assoluzione e perdono, un timbro in cui vi era stampata la parola “indispensabile”. Lui era l’indispensabile custode di mille patti, mille trattative e mille segreti, che forse nel tempo gli avevano consentito la libertà di oltrepassare gli umani limiti del confine legale e morale.

Indispensabile come quella falsa carcerazione di copertura, con un posticcio fascicolo e sentenza fatta ad arte ma troppo puerile ad un occhio attento. Una montatura grossolana dell’imputazione priva di credibilità. Non dovevano aver avuto molto tempo coloro che si erano presi la briga di inventare quegli strafalcioni giuridici. Personaggio capriccioso e vanitoso era quel capitano. Anche in carcere lo aveva dimostrato, risultando spesso insofferente a tutto ciò che non gli aggradava, credo insofferente pure a sé stesso. Come un mare agitato ed impetuoso, nel silenzio di troppe battaglie e troppe identità rinnegate e nascoste, appariva agli altri come un’anima in pena alla disperata ricerca della pace interiore. Precedentemente al suo pernottamento nel carcere del Coroneo di Trieste, nei giorni peggiori in cui i nemici gli si erano avvicinati troppo, era stato ospite indesiderato dell’austero carcere di Baldenich di Belluno, ma fu spostato in tutta fretta a causa di una imprecisata boutade amorosa. Si dice avesse fatto arrivare nel suo appartamento in città e senza autorizzazione alcuna dei suoi capi, una giovane fidanzata di allora direttamente dalla Sicilia. Voci fondate e maligne raccontano che una guardia dell’istituto penitenziario avesse scoperto la tresca per caso e spifferato il tutto ai superiori.

Sicuramente l’allontanamento ed il cambio d’hotel residenziale furono immediati per il capitano, come immagino repentino fu anche il trasferimento della guardia ingenua e malcapitata testimone. Le vendette del Lupo non sono normali contrappassi. Il Lupo assapora il dolore e se ne nutre quasi in un primordiale istinto che si sfoga in un urlo lancinante. Capacità camaleontica all’ambientamento la dimostrò anche dopo la riconquistata libertà d’azione, nascondersi e farsi ombra, era la sua qualità migliore, il suo marchio genetico dominante. Inventarsi parvenze di identità per poi vestire la toga alla stessa maniera in cui si indossa una divisa, conquistando vittorie su vittorie come se si trattasse di battaglie e missioni militari impossibili, era solo un gioco per lui, un puro esercizio narcisistico. Arrivammo presto a Belluno, città grigia ai piedi delle dolomiti, silenziosa ed umida divisa dal Piave. In una casa appartenente alla Curia vescovile era stata prevista la sua dimora. Più che delle stanze quelle di quell’appartamento mi sembravano gli androni di un museo. C’erano cimeli ovunque e ricordi di guerre e missioni dei Balcani, vecchie foto che lo ritraevano in giovinezza. Diplomi di laurea e alcune onorificenze alle pareti, tra cui una mi colpì particolarmente poiché riportava una strana scritta “All’uomo che perse la sua vita per il silenzio della sua lotta”. Ma quanti anni aveva il Lupo? Quante vite aveva già vissuto quell’uomo!

Mi suggestionavo a pensare che forse non doveva essere troppo umano e mortale. Magari nei palazzi romani di Sisde, Sipar e Sismi, oggi AISI-E, poteva nascondersi una clinica estetica rigenerante per dare un nuovo volto ai suoi uomini per ogni vita. Per me comunque erano matti quei militari. Decisi di chiamarlo sempre Andrea perché all’anagrafe così risultava identificato, il nome Lupo mi faceva un po’ paura, anche se lo caratterizzava al meglio in quanto solitario silenzioso e sicuramente pericolosamente mortale con le sue prede. Perché di un cacciatore spietato di uomini si trattava! Questo l’ho pensato subito d’istinto e lo penso tutt’oggi a distanza di quindici anni, ora che l’antipatia si è trasformata in rispetto e ammirazione, e che ho imparato che dietro l’arroganza c’è spesso un dramma e un segno indelebile che riporta ogni anima ad un destino già segnato nell’esistenza di uomini molto differenti dagli altri. Nel suo comodino oltre un calibro 22 beretta forgiata con l’impugnatura sul calco delle sue mani, c’era anche la foto di una bella ragazza mora giovanissima ed a riccioli, foto in bianco e nero. Chiesi al capitano chi fosse quella ragazza. Forse una sorella o una vecchia amata pensavo.

Lui si sedette su un grande divano blu e con la solita aria da residuato della seconda guerra mondiale cominciò il suo racconto, iniziando con una frase quasi da romanzo: “Questa è la storia di un pescatore di anguille e di una ragazza che non sorrideva mai”. Io replicai di botto: “Sarà magari la storia di un capitano senza nome”. Sorrise alla mia battuta ma il suo viso si fece scuro e una lacrima che doveva essere salata gli solcò la guancia raggiungendo le sue labbra. Lui dopo averla quasi succhiata avidamente in bocca, come una belva che si disseta dei suoi stessi umori, incominciò a parlare rivelandosi un esperto narratore.