Ex ospedale psichiatrico di Volterra: differenze tra le versioni

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== Storia ==
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=== Come nasce l’Ospedale ===
=== Come nasce l’Ospedale ===
In seguito all’istituzione di un ospizio di mendicità per i poveri del comune, riconosciuta Ente Morale il 5 giungo 1884, nel 1887 Caioli gettò le basi per la costruzione nell’Ospedale psichiatrico. <br />
In seguito all’istituzione di un ospizio di mendicità per i poveri del comune, riconosciuto Ente Morale il 5 giugno 1884, nel 1887 Caioli gettò le basi per la costruzione nell’Ospedale psichiatrico. <br />
In quel tempo la provincia di Pisa mandava circa 500 malati di mente all’Ospedale di S. Niccolò di Siena. Per diminuire il numero dei ricoverati la direzione dell’Ospedale di S.Niccolò aumentò la retta giornaliera a 1,50 lire. Il Prefetto di Pisa, Comm. Sensales, si adoperò per farla ridurre, ma inutilmente; si rivolse quindi agli enti locali di ricovero della provincia, offrendo la retta di una lira.
In quel tempo la provincia di Pisa mandava circa 500 malati di mente all’Ospedale di S. Niccolò di Siena. Per diminuire il numero dei ricoverati la direzione dell’Ospedale di S.Niccolò aumentò la retta giornaliera a 1,50 lire. Il Prefetto di Pisa, Comm. Sensales, si adoperò per farla ridurre, ma inutilmente; si rivolse quindi agli enti locali di ricovero della provincia, offrendo la retta di una lira.
Caioli accettò l’offerta e fece una convenzione con la provincia con conseguente trasferimento dei primi trenta malati di mente da Siena a San Girolamo.<ref>P. Lino Delle Piane, ''Com’è sorto l’ospedale psichiatrico'', rivista «Volterra», anno XIII, novembre 1974, n° 11</ref> <br />
Caioli accettò l’offerta e fece una convenzione con la provincia con conseguente trasferimento dei primi trenta malati di mente da Siena a San Girolamo.<ref>P. Lino Delle Piane, ''Com’è sorto l’ospedale psichiatrico'', rivista «Volterra», anno XIII, novembre 1974, n° 11</ref> <br />

Versione delle 01:56, 26 giu 2011

L’ex Ospedale psichiatrico di Volterra, un’istituzione per il ricovero di malati mentali, nacque nel 1887, anno in cui il Cavalier Aurelio Caioli divenne Presidente della Congregazione di Carità di Volterra. La sede dell’Ospedale corrispondeva e corrisponde tutt’ora alla zona Borgo San Lazzaro.
Dal 1978, in seguito alla legge n. 180, l’Ospedale è in stato di abbandono.


Storia

Come nasce l’Ospedale

In seguito all’istituzione di un ospizio di mendicità per i poveri del comune, riconosciuto Ente Morale il 5 giugno 1884, nel 1887 Caioli gettò le basi per la costruzione nell’Ospedale psichiatrico.
In quel tempo la provincia di Pisa mandava circa 500 malati di mente all’Ospedale di S. Niccolò di Siena. Per diminuire il numero dei ricoverati la direzione dell’Ospedale di S.Niccolò aumentò la retta giornaliera a 1,50 lire. Il Prefetto di Pisa, Comm. Sensales, si adoperò per farla ridurre, ma inutilmente; si rivolse quindi agli enti locali di ricovero della provincia, offrendo la retta di una lira. Caioli accettò l’offerta e fece una convenzione con la provincia con conseguente trasferimento dei primi trenta malati di mente da Siena a San Girolamo.[1]
Nel 1889 il Cav. Caioli trasferì la sezione anziani dal convento di S.Girolamo all’attuale Ospizio di S.Chiara, perché i ricoverati nella sezione dementi aumentavano di anno in anno. Nel 1890 la Congregazione dovette affittare la villa di Papignano, nelle vicinanze del convento, per ospitarli. Nel 1897 la sezione dementi divenne ufficialmente «Asilo Dementi». In quell’anno i ricoverati erano saliti a 75. Già nel 1896 il Cav. Caioli aveva incaricato l’Ing. Filippo Allegri di preparare il progetto per un vero e proprio manicomio, pensando ad un istituto convenzionato non solo con la provincia di Pisa ma anche con quelle limitrofe.
Tra il 1896 e il 1897 fece costruire un padiglione capace di oltre 200 posti letto: si tratta del «Krafft-Ebing», successivamente denominato «Scabia».
La nuova struttura permise l’aumento della popolazione dell’Asilo Dementi: dai 130 del 1898 ai 282 del 1900. Ma l’anno seguente le presenze diminuirono a 156 a causa del mancato accordo con l’Amministrazione pisana che riteneva inopportuno costruire il manicomio lontano dal capoluogo e dalla sede dell’Università. L’opposizione pisana fu dettata inoltre anche dalla volontà di far nascere un manicomio nella Certosa di Calci, certamente più vicina al capoluogo. Ciò indusse l’allora direttore dell’Asilo Dementi, Prof. A. Giannelli, psichiatra romano, a rinunciare all’incarico.

La direzione di Luigi Scabia (aprile 1900 - maggio 1934)

Era necessario, dopo il fallimento del 1899-1900, porre rimedio ai vuoti che si erano venuti a creare nelle presenze.
Nell’aprile del 1900 la Congregazione di Carità decise di affidare l’incarico di psichiatra presso l’Asilo dementi, per internato, a Luigi Scabia, che inoltre, fu nominato per concorso, sempre nello stesso mese, Direttore dell’Asilo Dementi di Volterra. Scabia cercò subito di stipulare nuove convenzioni ed avviò trattative con la provincia di Porto Maurizio (oggi Imperia) per trasferire i malati di questa provincia dal manicomio di Como dove erano custoditi a quello di Volterra; l’accordo, grazie alle favorevoli condizioni economiche dell’amministrazione, andò in porto e nel 1902 i malati furono trasferiti da Como a Volterra con un treno speciale.
Scabia strinse contatti con molte Amministrazioni provinciali per ottenere la custodia di ammalati provenienti dalle varie parti d’Italia e questo permise l’ampliamento del complesso ospedaliero. Dal 1902 al 1910 circa il 22% delle ammissioni provenivano da Porto Maurizio. Nel 1931 i malati provenivano dalle province di Pisa, Livorno, La Spezia, Savona, Imperia e dalle province di Viterbo, Nuoro, Rieti e in parte anche dalla provincia di Roma. I ricoverati aumentarono vertiginosamente, le presenze medie giornaliere passarono dalle 150 del 1900 alle 750 del 1910, per arrivare a 2621 nel 1930 e al loro massimo di 4794 nel 1939. L’aumento dei ricoverati rese necessaria la costruzione di nuovi padiglioni per accoglierli.
I terreni su cui dovevano essere costruiti i padiglioni dovevano rispondere alle esigenze di illuminazione ed aerazione che prevedevano le terapie sostenute da Scabia. La dislocazione degli edifici era dovuta alla necessità di evitare la simmetria, per far apparire tutto come un villaggio; questa soluzione comportò la costruzione anche di strade interne, necessarie per collegare i padiglioni fra loro. Queste strade sono tutt’ora in uso sebbene non fossero progettate per essere percorse dalle auto. Tra il 1902 e il 1909 lo Scabia incaricò l’ingegnere Filippo Allegri di redigere un piano di sviluppo edilizio per le nuove costruzioni. I padiglioni venivano battezzati con i nomi dei più celebri studiosi e alienisti del tempo e tutt’oggi sono conosciuti con questi nomi. Fu un vero e proprio boom edilizio:

  • venne ricostruita la villa Falconcini trasformandola in padiglione Kraepelin;
  • venne ampliato il padiglione Krafft-Ebing, successivamente intitolato a Luigi Scabia, costruito nel 1896;
  • vennero costruiti gli altri padiglioni sempre più moderni e funzionali (Verga, oggi sede del poliambulatorio dell’ospedale civile, Lombroso, Zacchia, colonia agricola Zani, Koch, Morel, sede del dipartimento di igiene mentale, Morgagni, l’officina elettrica, la Villa Cronici).

Inoltre vennero portati a termine:

  • nel 1916 i padiglioni Biffi e il vecchio forno;
  • nel 1918 la cucina e il reparto Esquirol;
  • dal 1926 al 1935 i padiglioni Charcot, Caggio, Ferri, Maragliano, le infermerie, i magazzini, il macello, la lavanderia, i laboratori scientifici, l’autorimessa.

Inoltre il Manicomio era dotato di un suo acquedotto. Nel 1901 venne installato un impianto di illuminazione a gas di benzina, con generatore di gas interno all’istituto, sostituito nel 1910 dall’energia elettrica; si avevano infine fognature, arredi urbani, rotonde, giardinetti.[2] I risultati ottenuti nei primi dieci anni di lavoro furono descritti dallo stesso Scabia nella pubblicazione “Il frenocomio di San Girolamo in Volterra” del 1910, la cui prefazione, stesa dall’allora presidente della Congregazione di Carità Avv. Giulio Bianchi, testimonia dello spirito di collaborazione esistente tra la direzione amministrativa e quella sanitaria, premessa indispensabile per lo sviluppo dell’istituto.
Nel maggio 1934, in seguito alla modifica dello statuto interno dell’istituto per abbassare l’età di pensionamento da settanta a sessant’anni, Scabia venne messo d’autorità in pensione e sfrattato dalla villa di S.Lazzaro, da sempre residenza del direttore dell’Ospedale Psichiatrico. Dopo pochi mesi, il 20 ottobre 1934 Scabia morì in seguito ad una crisi cardiaca all’interno di una camera dell’albergo Etruria nel centro della città di Volterra. Il Prof. Scabia volle essere sepolto nel settore del cimitero nel quale si seppellivano i poveri dementi non reclamati dalle famiglie.[3]

L’ergoterapia e il no-restrainct

Scabia contribuì in modo originale alle pratiche di ergoterapia e no-restrainct. L’ergoterapia, ossia terapia del lavoro, prevedeva lo svolgimento di un’ attività pratica da parte del malato in vista della guarigione o per lo meno di una stabilizzazione della malattia. La terapia del no-restrainct prevedeva la limitazione (non l’abolizione) dei mezzi di contenzione fisica del malato.

Scabia voleva sviluppare il concetto di villaggio autonomo, dove l’ammalato non doveva sentirsi rinchiuso fra quattro mura, ma come in famiglia, libero di girare nei pressi dell’ospedale e nella campagna circostante.
Per fare ciò Scabia fece costruire all’interno dell’ospedale una falegnameria, un panificio, una lavanderia, un’officina elettrica, una calzoleria, botteghe di stagni e fabbri, vetrai, addirittura una fornace per la fabbricazione dei mattoni da utilizzare nei padiglioni da costruire.
Vi erano inoltre due colonie agricole gestite da due famiglie di coloni nelle quali lavoravano i malati e che provvedevano a rifornire, anche se non per l’intero fabbisogno, i magazzini dell’Ospedale Psichiatrico; allo stesso scopo servivano gli allevamenti di oche e conigli del manicomio.
Nel 1933 venne addirittura istituita una moneta ad uso esclusivo dei ricoverati lavoratori per gli acquisti presso l’Ospedale psichiatrico; 70.988 esemplari incisi da Marinelli furono coniati dalla Casa di B.Cellini in Firenze.
Per un certo periodo funzionò anche un autonomo ufficio postale.
Gli ammalati venivano impiegati nei lavori edili, nei lavori agricoli, nelle officine, nella lavanderia, nella cucina, negli scavi in terreno archeologico.
Secondo Scabia, anche la ricreazione aveva una funzione importante: egli organizzava quindi quello che alcuni giornalisti italiani e stranieri chiamavano il «Carnevale dei pazzi», che consisteva in feste da ballo e recite a cui prendevano parte malati, infermieri e personale sanitario, così che il malato potesse scaricare in attività estroverse le sue anomalie psichiche.
L’ergoterapia aveva alimentato un’attività di notevole consistenza sul piano economico e produttivo. Questo però non era privo di ambiguità: rischiava di tradursi in uno sfruttamento sistematico della forza-lavoro fornita dai ricoverati. Non a caso una delle critiche spesso rivolte a Scabia era la spregiudicatezza e una sorta di imprenditorialità dell’assistenza psichiatrica.

È lo stesso Scabia, in uno scritto del 1933 <refLa terapia del lavoro nello Spedale Psichiatrico di Volterr, estratto dalla Rivista di Diritto Penitenziario, a.XI, n.2, marzo-aprile 1933, Tipografia delle Mantellate, Roma, 1933</ref>, a descriverci la linee-guida della terapia del lavoro e i suoi risultati.
Per Scabia “…se il lavoro è elevazione morale, questa è tanto maggiore quando il malato può venire incontro alla società che lo salvaguarda e lo cura”. Scabia spiega l’obiettivo dell’ergoterapia: il raggiungimento della dignità di un uomo da parte del malato, raggiungimento possibile solo con l’elevazione morale data dal lavoro. Sempre Scabia dice: “…solo per l’applicazione costante di un così vasto metodo di utilizzazione del malato di mente, in ogni ramo del lavoro, ha potuto sorgere l'istituto che dirigo”. Infatti grazie al lavoro dei ricoverati si poté applicare una politica di alleanze basata sul mantenimento di una retta giornaliera inferiore a quella degli altri istituti del tempo: in un certo senso i malati si autofinanziavano.

L’obiettivo inoltre era quello di preparare il malato al reinserimento, quando possibile, nella società. Questo portò allo sviluppo del cosiddetto manicomio aperto, teorizzato dalla dottrina dell’open door, inteso come sistema dove il malato non era costretto all’ interno con la forza. Infatti, il manicomio di Volterra non ha mai avuto una recinzione per segnare il distacco tra “l’interno” e “l’esterno”, il cancello di entrata era spesso aperto, le strade comunali e provinciali attraversavano l’istituto e non mancavano i contatti tra i malati e il mondo esterno. Si concedeva ai malati di andare al cinema in città, di andare al caffè, di fare piccole compere nei negozi esterni all’Ospedale; inoltre vi erano malati-maestri che andavano nei poderi limitrofi all’istituto per insegnare a leggere e a scrivere ai figli dei contadini.

Alcuni malati erano impiegati negli uffici tecnici del manicomio o nella contabilità. In pratica ai malati venivano assegnate mansioni in base alle loro capacità. L’ergoterapia quindi non prevedeva solo lavori di fatica nei campi e nei cantieri, ma anche lavori intellettuali. Scabia inoltre spiega che la prevalenza del lavoro nei campi è dovuta al fatto che la maggior parte dei ricoverati provenivano dal mondo contadino.

È proprio per lo svolgimento di questo particolare tipo di terapia che, per la costruzione dei padiglioni dell’Ospedale, si sceglie un luogo appena fuori le mura cittadine, a circa un chilometro dal centro cittadino, in quanto il malato poteva, sotto concessione, uscire, recarsi in città e sentirsi parte di essa; l’ospedale rimaneva comunque il suo punto di riferimento. Scabia afferma che questo tipo di terapia non poteva svolgersi in città, in quanto si sarebbe rimarcato la diversità del malato con un conseguente annullamento dell’efficacia della terapia.

Inoltre, sempre nello stesso scritto del 1933, Scabia risponde alle critiche che lo accusano di imprenditorialità affermando che l’organizzazione del lavoro ha uno scopo strettamente medico e solo il medico psichiatra è capace di organizzarlo e di deciderne gli orari.
Il lavoro produttivo dei malati, era retribuito e i malati disponevano di un proprio conto corrente che potevano utilizzare due volte a settimana per il prelievo, per poter spendere i loro soldi guadagnati nei negozi cittadini.

Gli anni successivi alla morte di Scabia

I successori di Scabia si attennero alle sue indicazioni. Seguirono gli anni difficili della guerra e il crollo del numero dei ricoverati: dai 4794 del 1939 si scese nel 1946 a circa 2000[4]. Nell’immediato dopoguerra si susseguirono Amministrazioni straordinarie caratterizzate da problemi di gestione; infine nel 1948 fu nominato un commissario prefittizio, l’Avvocato Pintor Mameli che, nell’ambito e nell’organizzazione dell’Ospedale Psichiatrico, propose la creazione di una sezione destinata alla rieducazione dei minorenni con indirizzo modico-psicopedagogico. A tale scopo vennero utilizzati i padiglioni Bianchi e Chiarugi, gli ultimi costruiti, il primo nel 1936 e il secondo nel 1937.
L’iniziativa permise di ospitare cinquecento minori, la direzione venne affidata ad un funzionario del Ministero di Grazia e Giustizia; il resto del personale venne trasferito dall’Ospedale Psichiatrico per evitare i licenziamenti in un periodo di emergenza sociale come il dopoguerra.

Lo sviluppo in negativo fino al 1963

All’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Volterra fino al 1963, veniva applicata senza riserve la legge n. 36 del 14 febbraio 1904, strutturando così un rigido custodialismo all’interno dell’Ospedale. Si rafforzarono sempre più il regime poliziesco e il verticismo organizzativo: “la struttura sanitaria e assistenziale era di tipo gerarchico, piramidale” dove “ognuno era responsabile delle proprie azioni solo nei confronti delle persone da cui dipendeva direttamente”[5]. Era il primario che distribuiva gli ordini a tutto lo staff, gli infermieri eseguivano gli ordini e i pazienti li subivano. Non c’era nessun tipo di rapporto tra lo staff tecnico e i pazienti che venivano strumentalizzati.
Il clima era carcerario: gli infermieri venivano chiamati “guardie” o “superiori” (avevano il ruolo di custodia e di sorveglianza), le finestre dei reparti erano protette da sbarre che di notte venivano chiuse a chiave.

Verso il rovesciamento istituzionale dal 1963

Dal 1963 si iniziarono i passi verso una trasformazione sociale, verso l’abbandono della politica tradizionale di gestione dell’Ospedale Psichiatrico attuata fino ad allora. Si svilupparono le prime idee di riforma e le prime pratiche alternative antiistituzionali per arrestare il rigido regime che si era instaurato.
Queste idee, nonostante inizialmente fossero aderite solo da pochi operatori, rappresentarono l’inizio dei primi passi verso il cambiamento. Si iniziarono a diffondere le idee di deistituzionalizzazione, dell’aumento della libertà dei ricoverati e della riconquista dei loro diritti.

Nel 1963 venne costituito il Consorzio interprovinciale delle provincie di Pisa e Livorno. Con gli accordi di quest’ultimo solamente le persone provenienti dalle due provincie potevano essere ricoverate.

L’Ospedale Psichiatrico si intrecciava con i problemi dell’occupazione e dell’economia dell’epoca volterrana, era quindi necessario iniziare il rovesciamento istituzionale in modo graduale, da creare meno disagi possibili.
Era indispensabile un dialogo con la città, per poter confrontare il nuovo concetto di psichiatria con la realtà che avrebbe dovuto contribuire a trasformare e superare i dubbi da parte di coloro che ancora si rifacevano alla visione tradizionale della psichiatria, del malato mentale e degli Ospedali Psichiatrici.
I tempi però non erano ancora maturi. Vigeva ancora una visione medica dell’istituzione manicomiale che imprigionava occupati e ricoverati.
Una volontà reale di cambiamento totale della gestione del manicomio di Volterra, come in tutta Italia, si iniziò a concretizzare solo molti anni dopo, intorno agli anni settanta, anni in cui le nuove scienze, le critiche delle forze sociali come gruppi politici, studenteschi, sindacali e cittadini, iniziarono ad affacciarsi nel campo della psichiatria.
I primi gruppi a muoversi in questo senso furono quelli politici e sindacali che soprattutto miravano alla salvaguardia dei posti di lavoro.
In occasione dell’insediamento del nuovo consiglio, nel 1973 venne presentata dal Consorzio dell’Ospedale Psichiatrico una relazione in cui si gettavano le basi per una nuova gestione organizzativa e terapeutica di tipo comunitario. Le necessità erano quelle di:

  • rompere il verticismo che gravava soprattutto sul malato, quindi abolire o comunque diminuire la distanza tra malato e operatori a tutti i livelli;
  • sensibilizzare il personale;
  • stabilire delle regole di vita dei pazienti decise in modo comunitario in base alle singole situazioni.

Tutto questo però necessita di una presa di coscienza dei problemi reali causati dal tradizionale modello di ospedale.

Il primo contatto significativo con la realtà esterna avvenne con l’operazione culturale patrocinata dal comune di Volterra, chiamata “Volterra ‘73”, che prevedeva la collaborazione da parte di artisti italiani e stranieri attraverso interventi architettonici, scultorei e pittorici all’interno dell’istituzione, per rompere quella rigidità che era ancora presente al suo interno. L’operazione avrebbe occupato una struttura che sarebbe diventata un laboratorio artistico, un punto di aggregazione culturale. Ma il manicomio però non accettava ancora il cambiamento tanto che avvenne la rottura con gli organizzatori della manifestazione.

I Comitati

Alla fine del 1973 il Consiglio di amministrazione dell’Ospedale Psichiatrico di Volterra, attraverso un accordo politico sottoscritto dai partiti politici della città e dal Consorzio delle due provincie di Pisa e Livorno, pose le basi per un reale processo di superamento dell’Ospedale Psichiatrico grazie alla realizzazione di una comunità terapeutica.
Il progetto iniziò dal 1975, anno in cui venne deciso di creare dei Comitati di gestione per poter combattere il centralismo istituzionale fino ad allora presente.
Nonostante le contrapposizioni riscontrate da parte di Primari e medici dell’Ospedale che volevano mantenere inalterato il loro livello di potere, i Comitati di gesione cominciarono comunque a svolgere le loro funzioni. I Comitati erano cinque e ognuno aveva compiti e finalità diverse:

  • “Comitato per la gestione del lavoro” per la riorganizzazione dell’ergoterapia, per dare maggiore dignità ai lavoratori, ai ricoverati;
  • “Comitato per la gestione della scuola professionale” per riqualificare il personale;
  • “Comitato di gestione tecnico-economale” per umanizzare i reparti di degenza e per rendere più funzionali i servizi ospedalieri psichiatrici;
  • “Comitato di gestione delle attività socio-culturali” per rompere il cerchio che stringeva e rendeva prigionieri i ricoverati e i loro controllori attraverso l’apertura al sociale: i primi passi verso l’esterno si ebbero attraverso le scuole e gli istituti superiori della zona. Il movimento studentesco permise un rapporto più continuativo con l’Ospedale. Inoltre un tentativo di cambiamento fu provato dal “Centro di sperimentazione di Pontedera”, composto da teatranti e studenti, che decise di vivere per un periodo all’interno del’Ospedale Psichiatrico con l’obiettivo di impostare un ritmo di vita al di fuori delle regole istituzionali coinvolgendo in questo i degenti ma anche gli operatori, i medici e i tecnici che avrebbero dovuto impostare anch’essi, dopo l’esperimento, questo ritmo. Ma il tentativo fallì: si irrigidirono i medici e gli operatori ancora fedeli al vecchio modello istituzionale che accusavano il Comitato di una mancanza di terapeuticità. Allo stesso tempo però, aumentavano gli operatori e i degenti coinvolti nelle nuove attività. Si creò una vera e propria lotta interna. Quando l’obiettivo del Comitato di rompere l’isolamento dell’Osedale Psichiatrico fu chiaro alle forze di opposizione, il Comitato venne smantellato.
  • “Comitato per la gestione del territorio”: per stabilire un dialogo e un approccio positivo con il territorio di provenienza dei ricoverati per un eventuale progetto di reinserimento. Una prima fase per il raggiungimento dell’obiettivo fu quello della “zonizzazione”.

La “zonizzazione”

La zonizzazione prevedava la sistemazione in diverse “divisioni” psichiatriche di assistiti che provenivano da una stessa area territoriale per poter ottenere un reale reinserimento del malato nel territorio di origine.
Ogni “divisione” doveva avere una propria organizzazione interna per poter affrontare i problemi dalla prima fase di osservazione a quella di deospedalizzazione. Lo scopo era anche quello di cercare di impostare un programma di prevenzione della malattia mentale. In un secondo momento vennero create delle divisioni corrispondenti a quelle già presenti all’interno dell’Ospedale: gli operatori e i medici che aderivano alle teorie riformatrici, intervenivano in un territorio ben delimitato e impostavano i rapporti con i pazienti sulla continuità terapeutica in quanto il malato era assistito dagli stessi operatori in Ospedale, nel suo eventuale reinserimento nel territorio e durante gli eventuali successivi ricoveri.

La legge n. 180 del 1978 nell’Ospedale

La legge n. 180 rappresenta per l’Ospedale Psichiatrico di Volterra l’unico riconoscimento delle pratiche alternative sperimentate negli anni precedenti. Per la sua attuazione era necessario:

  • applicare i cambiamenti metodologici che essa prevedeva;
  • umanizzare i rapporti, i trattamenti e i reparti;
  • decentrare l’assistenza psichiatrica;
  • elaborare gli strumenti operativi per tutelare e portare avanti una diversa promozione della salute, una diversa visione della malattia.

Inizialmente ci furono dei problemi da affrontare: il malato, dopo aver trascorso lunghi anni di internamento in Ospedale Psichiatrico non era più in grado di vivere in società. Questo comportò un ulteriore esclusione del malato e il reinserimento in società e soprattutto in famiglia, era un progetto assai difficile. Infatti tanto più era durato il periodo di permanenza di un individuo all’interno dell’istituzione, tanto più era difficile il suo reinserimento all’interno della società. Inoltre alcuni cittadini si opponevano alla dimissione e alla presenza di ex-ricoverati nel loro stesso territorio. La nuova legge veniva quindi applicata con difficoltà e lentezza.

Gli “ospiti”

Per rendere graduale il reinserimento dei malati all’interno della società, nacquero gli “ospiti”, ex-ricoverati che alloggiavano in strutture all’interno dell’Ospedale Psichiatrico. Si trattava di una sorta di passaggio tra la totale chiusura all’interno dell’Ospedale e l’apertura alla società.

Nel 1977 all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Volterra erano ancora ricoverati 630 degenti che provenivano maggiormente dalle provincie di Pisa e Livorno. Di queste persone 530 vivevano ancora all’interno dell’Ospedale, mentre gli altri 100 erano ufficialmente dimessi, erano gli “ospiti” che alloggiavano in quattro case-famiglia con camere da due o tre posti. Gli infermieri erano pochi e intervenivano solamente in caso di reale bisogno; alcuni degli “ospiti” lavoravano sia dentro che fuori dall’Ospedale. Si trattava di un momento fondamentale per il malato in quanto le case-famiglia rendevano autonomi gli ex-degenti che si autogestivano per prepararsi alla risocializzazione, per rompere i vincoli di istituzionalizzazione, per riassumersi la responsabilità della propria vita, delle proprie scelte. Era un luogo in cui trovare le basi per affrontare una vita normale in società.

Non tutti gli obiettivi furono raggiunti perché nonostante la maggiore libertà e autonomia, le case-famiglia erano comunque all’interno del complesso ospedaliero e i rapporti con gli operatori presenti avevano ancora caratteristiche manicomiali.
Inoltre gli “ospiti”, sentendosi ancora parte del manicomio, non avevano la necessità di cambiare abitudini di vita; non solo, ma c’era anche una mancanza di volontà nel partecipare alle problematiche comuni. Nonostante questo, gli ex-ricoverati dimostrarono di non aver perso totalmente la capacità di autogestirsi; inoltre sempre più persone volevano provare questa esperienza. La novità non fu solamente per gli ex-degenti ma anche per gli operatori che avevano scoperto un nuovo modo di lavorare e non consideravano più il malato diverso e incapace, riconoscendo che non era più necessaria una continua protezione. Gli “ospiti” stessi infine chiedevano più integrazione con il resto della popolazione; infatti solo lavorando fuori dal manicomio avrebbero avuto l’occasione di vivere una vita reale.

Il Centro di Igiene Mentale

Il Centro di Igiene Mentale aveva un ruolo centrale nell’avviare i ricoverati verso il reinserimeto nel territorio, aveva il compito di creare un’unione tra le forze che lavoravano all’interno e quelle che lavoravano all’esterno, di qualificare e formare gli operatori. Il lavoro del Centro di Igiene Mentale era già iniziato nel 1977.
Le difficoltà non mancarono: molti centri di lavoro erano molto lontani rispetto all’Ospedale Psichiatrico e inoltre il contatto con la realtà aumentava il numero di problemi in quanto la realtà stessa aveva già dei problemi legati alla comunità, alla convivenza ecc. Era necessario coinvolgere, nel reinserimento territoriale, i familiari. Infatti erano soprattutto gli incontri con le famiglie che costituivano i nodi fondamentali per il reinserimento.
Con la nuova organizzazione il ricovero in Ospedale, cioè il Trattamento Sanitario Obbligatorio, diventava una soluzione temporanea, di emergenza, che veniva praticato solamente in casi particolarmente gravi.[6]

La partecipazione agli scavi del teatro romano (1950-1953)

In Vallebona (zona a nord della città di Volterra), a seguito di lavori di sterro fatti nel 1941 per allargare l’area del campo sportivo, erano tornati alla luce alcuni ruderi appartenenti a età romana. Questi stavano ormai per essere seppelliti dai detriti delle spazzature. Si nascondeva lì un monumento dell’antichità classica: un teatro o un anfiteatro. Nacque sempre più la curiosità.
La Sovrintendenza alle Antichità d’Etruria non aveva allora fondi a disposizione per campagne di scavi; il Comune non poteva impegnarsi in attività archeologiche.
Ricorrere all’opera dei ricoverati dell’Ospedale Psichiatrico sembrava la soluzione al problema.
Nel 1926 una squadra di ricoverati aveva già partecipato agli scavi sul piano di Castello ottenendo risultati positivi.
Nel 1950 il Professor Umberto Sarteschi, allora direttore dell’Istituto, si impegnò a mettere a disposizione un certo numero di ricoverati per avviare gli scavi di Vallebona.
Il presidente dell’Amministrazione ospedaliera, Giulio Topi, fu addirittura affascinato dall’idea e fece il possibile per agevolarne la riuscita. Il Museo Guarnacci riuscì a provvedere all’assicurazione dei lavoratori e a corrispondere loro un modestissimo compenso. Il sindaco Mario Giustarini approvò l’iniziativa.

Lunedì 10 luglio 1950 gli scavi ebbero inizio con una squadra di sei ricoverati e due assistenti-infermieri che si alternavano sul lavoro. I primi scavi furono deludenti ma successivamente l’esplorazione archeologica cominciò a dare i suoi frutti. Il direttore dell’Ospedale concesse un’altra squadra, e così dodici ricoverati parteciparono ad una tra le più appassionanti ricerche di monumenti dell’antichità.
Da luglio a novembre si era scavato nel settore di ponente mettendo in luce la galleria o «parodos» che lega la gradinata del teatro (ormai era stato accertato trattarsi di un teatro) al vestibolo che fiancheggia la scena.
Il 18 novembre 1950 visitarono gli scavi Antonio Minto, sovrintendente alle Antichità d’Etruria e l’ispettore Guglielmo Maetzke per valutare i risultati archeologici finora ottenuti. Rimase colpiti dall’ampiezza dei reperti monumentali e dettero quindi il loro pieno consenso alla prosecuzione degli scavi.

Il teatro di Vallebona costituisce una delle opere superstiti più importanti della romanità nell’Etruria. L’economia della città di Volterra ne ha avuto un grande vantaggio in quanto il rudere viene ancora oggi utilizzato per le rappresentazioni teatrali. L’ampiezza dello scavo e la necessità di consistenti restauri e consolidamenti determinò il massiccio intervento della Sovrintendenza alle Antichità e l’impiego di mezzi meccanici messi a disposizione dalla Società Larderello.

Dal 1955 gli operai civili sostituirono i ricoverati, ma è certo che senza gli scavi degli anni 1950 – 1953 da parte dei ricoverati dell’Ospedale psichiatrico Vallebona sarebbe rimasto un campo di gioco.[7]

N.O.F.4 e il suo graffito

N.O.F. 4, ovvero Nannetti Oreste Fernando, come lui stesso si firmava, fu un paziente dell’Ospedale psichiatrico di Volterra dal 1959 al 1973. Dalle iniziali del suo nome (N.O.F.), insieme al numero di matricola che gli era stato assegnato in Ospedale Psichiatrico (4), Nannetti ricavò un acronimo (N.O.F. 4) che spiegò poi in questo modo: “Nucleare Orientale Francese - Nazioni Orientali Francesi = Nannetti Oreste Fernando, il Signor Nanof detto lo Scassinatore Nucleare”.

Nannetti Fernando nacque a Roma nel 1927. Il padre abbandonò la madre, Nannetti Concetta, alla nascita del figlio. Frequentò le elementari in un istituto privato. Dal 1934 fu accolto in un istituto di carità . Tre anni dopo, a soli dieci anni, fu trasferito in una struttura per minorati psichici. Fu ricoverato all’Ospedale Forlanini per due anni per curare una grave forma di spondilite.
Non si hanno documentazioni relative alla sua vita fino al 1948, anno in cui fu sottoposto a perizia psichiatrica a causa di resistenza a pubblico ufficiale. Nel 1956 fu ricoverato all’Ospedale Psichiatrico di Santa Maria della Pietà a Roma dalla quale nel 1959 fu trasferito alla sezione giudiziaria “Ferri” dell’Ospedale Psichiatrico di Volterra per scontare una condanna di due anni. Poco dopo il 1961 il Nannetti passò alla sezione civile “Charcot”.
Alcuni degenti all’interno di questo reparto godevano della “sconsegna”: avevano il permesso di uscire fuori dalle mura manicomiali per andare al lavoro; altri invece potevano uscire solamente in “squadre”, cioè in gruppi di lavoratori che venivano accompagnati da un infermiere. La maggior parte dei ricoverati rimaneva comunque all’interno del reparto.
Nel 1968 Nannetti venne sconsegnato e lasciato libero di andare al borgo di San Lazzaro. Nel 1973 venne trasferito all’istituto “Bianchi”, in quell’anno ristrutturato per accogliere alcuni degli ex ricoverati della provincia di Roma che si trovavano in quel periodo nell’Ospedale Psichiatrico di Volterra e nell’Ospedale Psichiatrico di Santa Maria della Pietà a Roma.
La struttura “Bianchi” era stata progettata per quei pazienti che venivano dimessi dall’Ospedale Psichiatrico. In realtà la sua collocazione rimase all’interno dell’area ospedaliera stessa, e tutta l’organizzazione interna rimaneva molto simile a quella di un reparto ben controllato e assistito.
Fu un errore trasferire il Nannetti al “Bianchi” in quanto il suo più grande desiderio era sempre stato quello di tornare a Roma. Lo aveva sempre comunicato in modo chiaro, non solo nei discorsi che tavolta riusciva ad avere con gli infermieri, ma anche con il suo continuo scrivere e disegnare.
Nannetti morì a Volterra nel 1994 senza aver più rivisto la sua città, Roma, né suoi parenti in quanto nessuno era andato a fargli visita.

I particolari del graffito

Durante il periodo rinchiuso nell’Ospedale Psichiatrico di Volterra, Nannetti Oreste Fernando, incise su 180 metri di muro interno del padiglione Ferri – sezione giudiziaria del Manicomio Volterrano - particolari graffiti, un’opera enciclopedica di sentimenti, una sorta di «libro graffito» in cui riuscì a comunicare il suo disagio, le sue idee. Con questo il Nannetti ci fornisce una straordinaria testimonianza della sua presenza nel manicomio e ne fece soggetto di studio e di attenzione da parte di artisti, esperti del settore psichiatrico e persone comuni.

Innanzitutto Nannetti, attraverso la fibbia metallica del panciotto (parte della divisa da paziente), delimitava un rettangolo che rappresentava la pagina in cui avrebbe inserito la scrittura, proprio come se volesse di fronte a sé una pagina vera, un normale foglio di carta. Il procedimento di scrittura del Nannetti è del tutto originale. Un esempio:

L’Elemento ammonio
Si allungua e si accor
aic[8]

L’incisione delle lettere partiva sempre dall’angolo in alto a sinistra e di solito la scrittura non aveva un andamento lineare. Arrivato al termine della pagina che aveva delimitato, invece di tornare a scrivere a capo, da destra verso sinistra, il Nannetti torna indietro a partire da destra, capovolgendo le lettere.

Il “libro graffito” originariamente era lungo 180 metri, adesso ne rimangono 53 metri per un’altezza di circa 120 centimetri in media. Alcune “pagine” sono state rovinate dall’umidità, altre da incursioni notturne di vandali e ladri, a causa dell’abbandono della struttura. Nonostante il degrado del supporto, osservando attentamente il graffito possiamo riconoscere le parole usate dal Nannetti, la composizione e il susseguirsi delle frasi seguendo i segni cuneiformi che apparentemente appaiono sparsi: simboli alchemici, numeri, elicotteri, astronauti, volti; inoltre si hanno ricorrenze, ritorni tematici, allitterazioni, figure simboliche, simboli geometrici. Nannetti scriveva di :

  • se stesso, «Nato a Roma, Italia, ore 23.40, rione Sant´Anna, moro, secco, spinaceo, alto un metro e 65, naso a ipsilon, secco, bocca stretta di materialista e spiritualista», «Nannetti Fernando disteso sotto i raggi del sole sulla spiaggia»;
  • Genesi: «Adamo e Noè e la sua Arca…Eva e l’albero di melo e vipera»;
  • terra, con miniere e metalli, materie prime e fonti energetiche, «Piombo nichel rame», «piombo carbonio ghisa ferro», «piombo rame ciclamino e avorio»;
  • petrolio: «fonte internazionale di petrolio», «pozzi petroliferi mondiali»;
  • energia nucleare: «Somme katotici nucleare atomico», «lancio uranio 19,50 verso ore 12,50 RUSSIA…30nove ottobre ore 17,50 su circa 15,58 America ore 19,50 uranio»;
  • universo: «L’elettromagnetica isolante stratosferica», «Saturno con il suo cerchio», «lancio sole su 8-9», «apparecchio per raccogliere i raggi magnetici correnti emessi dal suono delle campane», «stazione con telescopio internato fascia catotica in cui i pianeti non possono essere attratti», «telestazioni in collegamento diretto telepatico»;
  • armi fantastiche: «fulminatore microscopico e telescopico», «l’uomo invisibile armato con fibbia catotica così anche gli animali»;
  • elementi deformati di spiegazione scientifica del mondo: «le nuvole si trasformano e diventano materia mediante condensazione», «un corpo solido vive negli spazi come un corpo nell’acqua e manda le immagini», «il vetro le lamiere i metalli il legno le ossa dell’essere umano e animale e l’occhio e lo spirito si controllano attraverso il riflessivo fascio magnetico catotico sono materie viventi le immagini che hanno una temperatura e muoiono»;
  • Chiesa cattolica, o forse si riferiva a suo padre che non ha mai conosciuto: «Ricordati di santificare il padre»;
  • città e Paesi: «Siena nata fusione Corano», «Cairoli Korea Kalifornia», «fusione India Cina 1940», «Garigliano confine Francese Prissiano in Italia».[9]

Nannetti tentava nei suoi graffiti di spiegare la fecondazione e la nascita: «Maternità le bocche larghe e strette hanno quando la fecondazione maschile e femminile sono orecchie destra e sinistra».
Ci sono notizie, fucilazioni immaginarie, trasporti e spedizioni di cadaveri di parenti mai realmente accadute: «Un tuo cuggino nato a Udine Sabbotino il 1891 modello moschetto 91 Defunto a Gaeta: fucilato il 23–3–1964 La Carabbina Elettrica che sparò, modello seconda guerra di successione 1961, è stata sequestrata dal settantunesimo Fanteria di Marina da sbarco Francese del Forte di Gaeta…Il cadavere trasferito a Siviglia Spagna il 24-4-1964», accompagnati da annunci di mutamenti globali per l’assetto della terra: «Ginevra non è più capitale della Svizzera. Ma la capitale della Svizzera dell’Austria e della Germania è Vienna».
Nei suoi deliri scalfiti sul muro ci sono i luoghi in cui avrebbe voluto vivere e i parenti che avrebbe voluto avere vicino, tutti mori, spinacei, con la bocca stretta come lui stesso si descriveva.

Leggendo il “libro” si ha l’impressione che il Nannetti stia scrivendo una sorta di messaggio interiore, che, come affermava nelle lettere dedicate ai suoi parenti, conteneva notizie derivanti da quello che lui chimava “Sistema Telepatico”. Da qui si ha la supposizione che il Nannetti soffrisse anche di allucinazioni uditive e che sentisse il bisogno di annotare le notizie che percepiva.
Si desciveva come un “Astronautico Ingegnere Minerario nel sistema mentale”. Si può notare un particolare interesse verso tutti i fenomeni che riguardavano la luce, la sua propagazione, le onde elettromagnetiche, le scariche elettriche, l’energia. Questo interesse è principalmente dovuto al fatto che prima di essere internato aveva svolto per un periodo di tempo il lavoro di elettricista.

Nannetti probabilmente attraverso il graffito cercava di comunicare con i suoi parenti, di farsi riconoscere come persona e di uscire da quell’isolamento dove il manicomio lo aveva portato. Neanche lui stesso riconosce gli altri, e lo dimostra il fatto che scriveva sul muro al di sopra delle teste degli altri pazienti seduti su una panchina, come se questi fossero parte del muro stesso.

Il Nannetti non scriveva solamente sul muro, ma su ogni cosa scrivibile che gli capitava in mano. Se non trovava un foglio di carta, utilizzava la carta stagnola che trovava all’interno del pacchetto di sigarette.
Nonostante non venisse ascoltato, era l’unico che comunque aveva trovato il modo di comunicare, di farsi sentire.

Mino Trafeli, professore dell’Istituto d’Arte di Volterra che per anni fu scultore all’interno di un reparto dell’ex Ospedale Psichiatrico, ci fornisce la testimonianza dell’ultimo periodo di degenza del Nannetti. Quest'ultimo, interrogato sulla sua opera, rispondeva sempre in modo molto distaccato e non era mai riuscito ad accettare il compenso in denaro che gli era stato offerto per la sua opera.
Secondo la percezione del Trafeli, il graffito era una personale forma di espressione, di comunicazione e di creazione poetica del Nannetti: era un modo per isolarsi dal mondo esterno che non lo accettava; una volta riconquistata la libertà, il Nannetti continuò a rifiutare qualsiasi tipo di comunicazione con gli altri, tranne che in rare occasioni.
Quando venne trasferito al reparto “Kraepelin”, instaurò un rapporto più stretto con il Trafeli durante il quale cercava di farsi dare i suoi disegni, per vederli e per poterli mostrare, ma lui insisteva nell’affermare che erano cose private, come del resto lo erano anche i graffiti sul muro. Per poter avere i disegni di Nannetti, i due misero in atto una specie di baratto in cui il Trafeli forniva al Nannetti tutti i fogli di carta e i lapis necessari alla sua attività e quest’ultimo permise di far fare le fotocopie dei suoi disegni.

L’ultimo graffito di N.O.F.4 è stato trovato a fine giugno del 1996 sul passamano di cemento di una scala dell’Ospedale: è un graffito di 106 metri per un’altezza di 22 centimetri. Purtroppo l’intonaco sta cedendo ma una trascrizione integrale lo ha salvato dalla sua distruzione totale.

La biblioteca-museo

La biblioteca-museo dedicata all’Ospedale psichiatrico si trova nel complesso ospedaliero di Volterra. All’interno si conservano quadri a olio, che illustrano l’idealizzazione dei padiglioni, le foto dei graffiti di N.O.F.4, i plastici dei padiglioni che costituivano il complesso dell’Ospedale psichiatrico (circa 140), che avevano forme particolari, ad esempio a U rovesciata, a M (in riferimento al leader del fascismo italiano Benito Mussolini) etc., bollitori, sterilizzatori, busti di grandi scienziati, vestiti di infermieri, camice di forza, guanti senza dita per gli autolesionisti, scarpe, stoviglie, cucchiai, chiavi, scaldabagno, libri, attrezzature da dentista, macchinari per gli interventi chirurgici, macchinari oculistici.
Attualmente il museo è accessibile con autorizzazione da parte della ASL 5.

Le lettere dei pazienti

Le lettere che i pazienti scrivevano ai familiari, durante la loro degenza in ospedale, non venivano considerate da parte dei medici ma venivano semplicemente raccolte nelle cartelle cliniche.
Nel 1978 vennero raccolte e pubblicate nel libro “Corrispondenza negata”, epistolario contenente tutte le lettere originali ed integrali. Nel 2007 uscì la seconda edizione in cui si aggiunse il saluto alla banca, la relazione del direttore dell’epoca e la prefazione.

Note

  1. ^ P. Lino Delle Piane, Com’è sorto l’ospedale psichiatrico, rivista «Volterra», anno XIII, novembre 1974, n° 11
  2. ^ Giani E., Le origini e l'evoluzione nel tempo dell'ospedale psichiatrico di Volterra, Laboratorio Universitario Volterrano, a cura di Caciagli C., Quaderno III 1998-1999, edizione ETS, pagg. 120-124
  3. ^ Bertini S., Luigi Scabia e l'Ospedale Psichiatrico di Volterra, Volterra, a.3, n°9, 1964
  4. ^ Agostini E., Dalla commovente storia di ieri alla squallida realtà di oggi, 1973
  5. ^ Tesi di laurea Volterra e il suo Ospedale Psichiatrico, studente: Enrico Rumori, relatore: Prof.Simone Neri Serreri
  6. ^ Tesi di laurea La legge 180 e l'ospedale psichiatrico di Volterra tra memoria e progetto, studente: Rachele Lemmi, relatore: Prof. Nicola Spinosi, a.a. 2000/2001
  7. ^ E. Fiumi, La partecipazione dei ricoverati dell'ospedale psichiatrico agli scavi del teatro romano (1950 - 1953), rivista Volterra, Anno X, n°10, ottobre 1971, pagg. 14-15
  8. ^ Trafeli M., a cura di, N.O.F.4 il libro della vita, in Neopsichiatria 2, tav. 48
  9. ^ Trafeli M., a cura di, N.O.F.4 il libro della vita, in, Neopsichiatria, 2-3, 1981, Pacini Editore, Pisa, 1985, ristampa anastatica Edizioni del Cerro, Tirrenia-Pisa, 1996

Bibliografia

  • P. Lino Delle Piane, Com’è sorto l’ospedale psichiatrico, rivista «Volterra», anno XIII, novembre 1974, n° 11
  • Tesi di laurea “Volterra e il suo Ospedale Psichiatrico”, studente: Enrico Rumori, relatore: Prof.Simone Neri Serreri
  • Trafeli M., a cura di, N.O.F.4 il libro della vita, in, Neopsichiatria, 2-3, 1981, Pacini Editore, Pisa, 1985, ristampa anastatica Edizioni del Cerro, Tirrenia-Pisa, 1996
  • Tesi di laurea “La legge 180 e l’ospedale psichiatrico di Volterra tra memoria e progetto”, studente: Rachele Lemmi, relatore: Prof. Nicola Spinosi, a.a. 2000/2001
  • E. Fiumi, La partecipazione dei ricoverati dell’ospedale psichiatrico agli scavi del teatro romano (1950 - 1953), rivista Volterra, Anno X, n°10, ottobre 1971, pag 14 - 15
  • Agostini E., Dalla commovente storia di ieri alla squallida realtà di oggi, 1973
  • Giani E., Le origini e l’evoluzione nel tempo dell’ospedale psichiatrico di Volterra, Laboratorio Universitario Volterrano, a cura di Caciagli C., Quaderno III 1998-1999, edizione ETS, pag. 120-124
  • Bertini S., Luigi Scabia e l’Ospedale Psichiatrico di Volterra, Volterra, a.3, n°9, 1964