Discussione:Pietro Maletti
Mi scusi l'autore, ma un riferimento al Massacro di Debra Libanos? Qui a seguire ho copiato parte della voce wikipedia "Massacro di Debra Libanòs".
La città-convento di Debra Libanos venne circondata il 19 maggio dalle colonne di Maletti, il quale nella stessa serata ricevette un telegramma da parte di Graziani che lo incoraggiava ad agire nei confronti dei monaci:
«25876 Gabinetto. Questo avvocato militare mi comunica proprio in questo momento che habet raggiunto [la] prova assoluta [della] correità dei monaci [del] convento [di] Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti [i] monaci indistintamente, compreso [il] vice-priore. Prego darmi assicurazione comunicandomi numero di essi. Dia pubblicità et ragioni determinati [del] provvedimento.»
In verità le prove di Franceschini erano vaghe e potevano riguardare pochi monaci, non l'intera comunità, ma il viceré era ormai persuaso che a Debra Libanos soggiornassero assassini e briganti protetti da monaci collaborazionisti e del tutto avversi agli italiani[12]. Poiché Graziani avrebbe dovuto assicurarsi che le esecuzioni fossero eseguite in luoghi isolati per volere del ministro delle Colonie Lessona, ordinò a Maletti di cercare un luogo adatto al massacro, che il comandante dello Scioa trovò in località Laga Wolde, una piana chiusa a ovest da alcuni rilievi e a est dal fiume Finche Wenz, che defluiva nel burrone Zega Wedem.
Dopo alcuni sommari accertamenti e la separazione dei religiosi dagli occasionali pellegrini, nella mattinata del 21 maggio Maletti trasferì nella piana i monaci, i quali furono scaricati a gruppi dagli autocarri e fucilati dagli ascari libici e somali di fede musulmana e dagli uomini di etnia Galla della banda di Mohamed Sultan (45º Battaglione coloniale musulmano)[11]. In poche ore vennero giustiziati sommariamente 297 monaci e 23 laici, anche con l'utilizzo di mitragliatrici; Graziani, avvisato dell'esecuzione, intorno alle 15:30 poté comunicare a Roma che il generale Maletti: «[...] ha destinato al plotone di esecuzione 297 monaci, incluso il vice-priore, e 23 laici sospetti di connivenza. Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale, che verranno tradotti e trattenuti nelle chiese di Debra Brehan. Il convento è stato in conseguenza chiuso definitivamente»[13].
Dopo appena tre giorni però il viceré cambiò repentinamente idea (forse istigato dal più spietato e pavido degli aristocratici collaborazionisti, Hailù Tecla Haimanot) e comunicò a Maletti che era ormai certo che la responsabilità era da attribuire a tutti gli occupanti del convento, così il generale Maletti con il suo consueto zelo provvide subito a far scavare due profonde fosse in località Engecha, non lontano da Debra Brehan, dove le mitragliatrici falciarono 129 diaconi, facendo salire così il numero delle vittime a 449. Maletti inviò a Graziani un telegramma con scritto "Liquidazione completa", a prova dell'avvenuto massacro, e Graziani comunicò la nuova cifra dei giustiziati a Roma[13].
Analisi e conseguenze Due docenti universitari, l'inglese Ian L. Campbell e l'etiopico Degife Gabre-Tsadik, dopo aver effettuato decine di interviste, interrogazioni e raccolta di documenti tra il 1991 e il 1994, dichiararono che il numero dei massacrati a Debra Libanos il 21 maggio era superiore a quello riportato di 320, ma era più probabile fosse vicino alla cifra di 1000-1600. Altri studi condotti privatamente da Campbell tra il 1993 e il 1998 nella zona di Engacha alzarono il numero delle vittime giustiziate in un secondo momento da 129 a circa 400. Campbell in quest'ultimo caso rivelò che secondo lui Graziani comunicò a Roma il falso; lo stesso viceré ordinò a Maletti di uccidere non solo i diaconi, ma anche civili, insegnanti, studenti di teologia e sacerdoti di altri monasteri. A seguito di questi studi il numero complessivo delle vittime salì tra i 1423 e 2033, una cifra talmente alta che Del Boca a tal proposito scrisse: «Mai nella storia dell'Africa, una comunità religiosa aveva subito uno sterminio di tali proporzioni»[14]. Questi ultimi studi furono quindi utilizzati nelle più recenti pubblicazioni; nel 2008 lo storico Matteo Dominioni, riportando gli studi di Campbell e Gebre-Tsadik, affermò che tra il 21 e il 29 maggio Maletti ordinò la fucilazione di 1500-2000 tra preti, diaconi e disabili che abitavano a Debra Libanos, tra i quali almeno 400-500 ragazzi arrestati a Chagel e fucilati nel villaggio di Engecha il 26 maggio[15].
Rodolfo Graziani fin dal primo momento sottolineò il carattere apertamente politico della strage, rivendicandone orgogliosamente il ruolo diretto, e senza mai cercare di scaricarne la colpa su Mussolini o Lessona, come invece tentò di fare a riguardo di altri massacri. «Questo romano esempio di pronto inflessibile rigore» scrisse in un memoriale «è stato sicuramente opportuno e salutare. Esso ha ammonito i nemici, ha rinsaldato la fede ai vacillanti e ha legato maggiormente a noi i fedeli»[16]. Scrisse poi su un altro documento: «Non è millanteria la mia quella di rivendicare la completa responsabilità della tremenda lezione data al clero intero dell'Etiopia [...]. Ma è semmai titolo di giusto orgoglio per me aver avuto la forza d'animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall'Abuna all'ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono di dover desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo [...]»[17].
Secondo lo storico Giorgio Rochat «la politica repressiva italiana raggiunse il culmine con il massacro di Debra Libanos, che rappresentò contemporaneamente l'ultimo atto di rappresaglie direttamente legate all'attentato, un momento di terrore scatenato sullo Scioa per piegarne la resistenza, e il tentativo di costringere la chiesa copta e la classe dirigente a collaborare con l'occupante se voleva conservare i suoi privilegi». La storia descrive però come ogni tentativo repressivo italiano fallì il suo scopo, basti ricordare come dopo aver creduto di aver schiacciato lo Scioa, Graziani, Mussolini e Lessona dovettero prendere atto della ribellione generalizzata che coinvolse le regioni centro-settentrionali dell'Etiopia nell'estate del 1937, dimostrando la fragilità di una pacificazione fondata sul terrore, e la mancanza di alternative nella politica fascista di dominio diretto e segregazione razziale[18].
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